I Droni
di Mattia Paganelli
Due documentari usciti di recente, e in qualche modo paralleli, mi spingono a fare alcune considerazioni sulla nozione di simulazione riguardo la guerra, la tecnologia, e le immagini nella cultura contemporanea. Non intendo farne una recensione, solo prenderli come spunto. Raccomando se possibile di vederli entrambi.
The Act of Killing, di Joshua Oppenheim http://theactofkilling.com/ http://www.youtube.com/watch?v=SD5oMxbMcHM
The Unknown Known, di Errol Morris http://www.youtube.com/watch?v=J-NSyMTpkYI
Prima di tutto la simulazione. La distinzione, come fu articolata dai postmoderni, vuole che dissimulare sia pretendere che quello che esiste non esista, e che simulare sia pretendere che esista quello che non esiste. Eppure dai tempi delle Guerre del Golfo (1991 e 2003) e di nuovo con il recente avvento dei droni, ricorre l’impressione che la tecnologia possa permettere una guerra a distanza che la rende irreale. Come se l’apparente pace e sicurezza nella vita quotidiana rendesse virtuale e neutralizzasse la distruzione e la morte nei paesi travolti dal conflitto. Neutralizzazione non tanto della guerra come uno tra i tanti spettacoli consumabili sullo schermo televisivo, ma uno svanire più sostanziale della realtà che crea una pericolosa confusione tra simulare la morte e la simulazione dell’atto di uccidere. Il primo, un concetto tanto falso quanto offensivo; il secondo, uno stato mentale tanto reale quanto pericoloso nelle sue conseguenze.
In realtà, già Dom McCullin, in una lunga intervista che ripercorre sua carriera di fotoreporter di guerra, ha indicato chiaramente come l’introduzione e imposizione di ‘embedded journalism’ abbia radicalmente limitato le possibilità di informare sui conflitti, diffondendo immagini più simili alla propaganda che all’informazione. Buona parte del documentario è qui: http://www.youtube.com/watch?v=nNeVZjMVn0o
Viceversa, l’illusione di una guerra anestetizzata, eseguita da macchine che potessero portarne anche la responsabilità, è rapidamente svanita quando emerse che i droni sono in realtà pilotati da qualche base entro i confini degli Stati Uniti, da soldati certo mimetizzati dall’uniforme ma in carne e ossa. In particolare, destava stupore e uno strano senso di disagio non tanto il dito umano sul grilletto, quanto la somiglianza del grilletto al videogame. Ma non è il mouse simile alla playstation a fare la differenza. In realtà la distanza tra la vita quotidiana e la guerra si instaura prima che la tecnologia entri in azione. Direi, anzi, che è necessario smontare l’immagine in qualche modo superficiale del rapporto diretto tra simulazione e tecnologia per capire il meccanismo in atto.
I documentari: The Act of Killing di Oppenheim e The Unknown Known di Morris si intersecano precisamente nell’ambiguità tra simulare e dissimulare, in cui la possibilità tecnologica di simulare l’atto di uccidere è confusa con la distanza a cui l’atto viene posto; come se la responsabilità si potesse scaricare sulla tecnologia, colpevole di farci percepire la guerra attraverso una finzione digitale e dunque di privare della presenza fisica le vittime, purtroppo sempre vere.
The Act of Killing racconta una storia tanto inverosimile quanto mostruosa nella sua realtà. Indonesia, 1965, colpo di stato di Suharto con appoggio americano. Gli oppositori alla dittatura militare furono accusati di essere comunisti, filo-cinesi e nemici del paese. Sindacalisti, braccianti, intellettuali, e chiunque si battesse per una società più democratica dopo la colonizzazione Olandese, inclusa l’intera minoranza etnica cinese, fu vittima della repressione (circa un milione di persone furono assassinate). Lo ‘sterminio dei comunisti’ venne, e tutt’ora viene, glorificato dal regime come lotta patriottica, e i paramilitari che lo attuarono celebrati come eroi; tra questi, molti criminali comuni a cui venne data impunità per ogni azione in cambio di manodopera nei massacri. E qui l’orrore, l’assurdo e il grottesco si intrecciano in modo inimmaginabile. Una gang che sopravvive taglieggiando i cinema, affascinata dall’immagine dei gangsters hollywoodiani e allo stesso tempo profondamente influenzata da un film-propaganda anticomunista (tanto violento quanto grottesco nella sua superficialità), si improvvisa squadra della morte imitando caratteri e aspetto dei gangsters -primo grado di rimozione. The Act of Killing è una serie di interviste con alcuni membri di questo gruppo, che appaiono assolutamente convinti di aver agito nel giusto e rimangono ignari di ogni possibile colpa.
Ma non è ancora tutto, incapaci di riconoscere la gravità dei loro crimini, durante le interviste sentono il bisogno di emulare le loro stesse gesta producendo a loro volta un film, ispirato alla cinematografia di propaganda del regime e imitando l’estetica dei film noir americani (e installando così un ulteriore grado di rimozione tra sé e la realtà che li ha visti protagonisti scellerati e colpevoli). Il documentario li segue nell’assurdo intreccio di Storia e recitazione, nel ruolo molteplice di assassini, registi, e attori; letteralmente intonsi dalla realtà delle loro azioni. Si direbbe che recitare sia stato l’abnorme filo conduttore a cominciare dai massacri della dittatura, sino alla messa in scena presente (solo un personaggio, dopo un percorso tortuoso, comincia a comprendere le sue responsabilità e a passare da un ruolo fittizio alla vita e al senso di colpa reali).
Il connubio mostruoso tra genocidio e recitazione di questa danza macabra si regge sull’ambiguità tra simulazione e proiezione della realtà (con livelli prossimi alla clinica), quasi questi personaggi fossero droni controllati dalla propaganda.
Altrettanto inquietante, per la sua storia e figura politica mescolata all’aspetto da gioviale nonno con la dentiera con cui si presenta oggi, è l’intervista a Donald Rumsfeld (The Unknown Known). Il documentario cerca di mettere a fuoco l’uomo e il politico, ma non può che inseguire la sua astuzia machiavellica con il continuo rischio di perdersi. Infatti, Rumsfeld si presenta inizialmente come un politico occupatissimo a immaginare il prossimo scenario geopolitico possibile, ma finisce, in buona o in malafede (impossibili da dirimere qui) per proiettare la propria immaginazione sul mondo e sulla storia.
Eppure da un punto di vista morale, Rumsfeld non si distanzia molto dagli autori-attori indonesiani. Il suo motto è che c’è sempre qualcuno che detiene il potere; meglio che siano gli Stati Uniti che altri a ricoprire questo ruolo. Di qui, tutto quello che segue è non tanto necessario, quanto inevitabile. Eppure il processo per dare un corpo concreto all’inevitabile non è immediato, la sua realizzazione è costellata di precisazioni, ragionamenti ellittici, e acrobazie verbali, che fanno della strategia militare un esercizio di tecnica retorica e di manipolazione della realtà stessa. Sarebbe ingenuo gridare alla menzogna, non tanto perché Rumsfeld creda più o meno genuinamente che sia giusto agire come agisce (‘si vis pacem para bellum’, ci ricorda), quanto perché ci mostra -con un’eco Gramsciana che presumo inconsapevole- il meccanismo del controllo del potere globale.
Sua è la famosa dichiarazione sulle (inesistenti) armi di distruzione di massa che l’Iraq avrebbe avuto: “Ci sono cose che sappiamo di sapere; ci sono cose che sappiamo di non sapere; ci sono cose che non sappiamo di non sapere” (a cui Slavoj Žižek ironicamente aggiunse: “ci sono cose che non sappiamo di sapere”, ovvero la nostra cornice ideologica).
Ed è proprio questo quarto punto che costituisce il meccanismo dell’illusione su cui si impernia la distanza tra il concetto di inevitabilità della guerra e le bombe al fosforo bianco buttate sugli iracheni. I ragionamenti di Rumsfeld sono costruiti su definizioni sempre più specifiche in cui interpretazione, distorsione e manipolazione della realtà diventano tutt’uno. Il documentario presta particolare attenzione alle richieste fatte da Rumsfeld ai suoi assistenti, perché provvedessero definizioni per poter trattare la realtà nel modo più efficiente. Tra i termini più significativi: ‘terrorista’, “insurrezione’, “enemy combatant’ –neologismo privo di traduzione diretta in italiano in quanto ha creato una figura al di fuori dei diritti sanciti dalla convenzione di Ginevra, andando oltre la differenza tra ‘partigiano’ e ‘bandito’. Inizialmente il riferimento è The Oxford English Dictionary, come se si potesse trovare certezza al di là di ogni dubbio di ciò che la realtà è nell’autorità e ortodossia del dizionario; un’applicazione della svolta linguistica alla strategia militare. Poi le dimensioni della realtà vengono ulteriormente ristrette alle definizioni offerte dal dizionario militare in uso al Pentagono. Il risultato è che dal suo ufficio, Rumsfeld simula per sé una realtà in cui agire, riducendo aspetti complessi a categorie fisse che gli permettono di navigarla con efficienza strategica e certezza morale, proiettando scenari che soddisfino le sue aspettative. Questo permette di mantenere una distanza di sicurezza, non tanto per la propria incolumità fisica (l’apparente ragione immediata l’uso dei droni), ma per la propria incolumità e impunità morale e politica. Queste non sono certo novità, censura e propaganda sono armi fondamentali. Il dubbio però è che in un certo senso Rumsfeld arrivi a somigliare a un drone di se stesso.
In un altro contesto questi comportamenti potrebbero essere definiti uno stato delusionale che necessita più dello psichiatra che di un’analisi della comunicazione.
Le squadre della morte indonesiane senza dubbio mostrano una comprensione un certo senso superficiale del significato della recitazione e della pantomima che organizzano; potrebbe perfino essere plausibile che il loro atteggiamento riguardo al cinema rientri in una tradizione di narrazione o teatralizzazione di gesta eroiche che ha trovato un nuovo linguaggio nell’immagine cinematografica. Ciò nonostante qualcosa di simile si trova anche in Rumsfeld. ‘Performance’ nel suo doppio significato di recitare e attuare, costituisce la proiezione e messa in scena della realtà stessa; è lo schermo sui cui Rumsfeld proietta il suo scenario strategico e che gli permette di mantenersi al sicuro dalle conseguenze etiche e politiche delle sue azioni. Una sorta di bolla in cui la logica si inverte e le ragioni divengono conseguenze alla necessità di fare la guerra.
Entrambi simulano, ovvero vivono nella sottigliezza infinitesimale di uno schermo che fa da filtro, pur senza aver bisogno di videogames. Ma se la teatralità della performance messa in scena dei primi dipende ancora dalle possibilità della cinematografia, lo stratagemma messo in atto da Rumsfeld non si serve di altro che il linguaggio.
Il nodo allora è la necessità di ridimensionare l’immagine della simulazione quale prodotto diretto della tecnologia del presente. Allo stesso tempo, vanno evitate interpretazioni semplicistiche che vorrebbero che lo sviluppo tecnologico non abbia in realtà cambiato nulla. Il linguaggio è certamente sua volta una tecnologia, da un certo punto di vista ‘la tecnologia’ per eccellenza, ma in questo caso il problema si pone con un’accezione meno astratta. Si tratta degli ordigni, dei marchingegni, delle macchine, anche se sempre più rarefatte dal digitale; si tratta di tecnologia come estensione materiale del corpo e come filtro della percezione. Il significato che viene attribuito alla guerra per proxi va riarticolato. I droni sono il risultato materiale e tecnologico possibile nello spazio concettuale aperto da un atteggiamento molto più astratto, che gioca sull’ambiguità tra simulazione e dissimulazione della realtà quando questa diventa troppo difficile da gestire. La fascinazione postmoderna per la virtualità svia le interpretazioni della tecnologia, bellica o meno, a favore di vaghe questioni ontologiche.
I droni non sono solo il corpo esteso di un discorso politico, l’azione sul campo delle definizioni del dizionario di Rumsfeld. La vera funzione dei droni è dissimulare la morte. Non servono semplicemente a evitare di farsi ammazzare mandando una macchina a combattere in propria vece (posto che quello che fanno i droni sia combattimento e non omicidio). Non si può ignorare l’aspetto di ‘igienizzazione’ della guerra che il drone rende possibile; un aspetto fondamentale della cultura americana, che ha bisogno di mettere più distanza possibile tra sé e il corpo, e soprattutto tra sé e quell’aspetto del corpo che gli è più specifico, soffrire e morire. Una disinfestazione dai pericoli estetici della guerra. Un’igienizzazione sia del linguaggio che dell’immagine della guerra, che ha trovato ulteriore espressione nel divieto di mostrare le bare di ritorno dall’Iraq (la bara avvolta nella bandiera è un rito con cui i caduti americani sono stati sempre celebrati come eroi), creando così un’altra estrema dis-simulazione: in guerra non muore nessuno. In realtà la dissimulazione si è spinta molto più in là: oltre ai mercenari tradizionali, l’esercito ha arruolato cittadini di paesi terzi, soldati stranieri reclutati e dispiegati come parte de US Army, con la promessa di ottenere la cittadinanza americana alla fine della ferma, previa la sopravvivenza. In caso contrario, nessun elettore statunitense avrebbe mai saputo che erano esistiti.
Eppure, al di là delle censure dell’informazione teleguidata la guerra filtra. Richard Mosse è riuscito a ribaltare le stesse aspettative del realismo narrativo che si vorrebbe saper resistere a ogni tipo di dissimulazione. Il suo ultimo lavoro The Enclave documenta i profughi della guerra civile nel Congo orientale con una pellicola a raggi infrarossi ormai in disuso (army surplus); progettata per individuare postazioni mimetizzate, vira ogni sfumatura di verde naturale in magenta (http://www.richardmosse.com/works/the-enclave/). Il capovolgimento rimane tutto tecnologico, eppure invece di allontanare avvicina. Purtroppo e per fortuna la responsabilità è ancora nostra.
I commenti a questo post sono chiusi
I droni sono sostanzialmente l’evoluzione dell’arco e delle frecce, che permettono di uccidere il nemico da lontano prima che questo sia in condizione di nuocere con la lancia o la spada.
molto interessante (purtroppo)! Verrebbe voglia di invocare un finale come in Fuga da Los Angeles, fine di ogni campo elettromagnetico. Grazie Mattia.
Bellissima analisi. Non conoscevo i due film/documentari, quello su Anwar Congo è duro da mandare giù (per quel che ho visto dell’anteprima) ed è interessante anche nel ricordare che il genocidio lo raccontano i vincitori. Vae victis. Conoscevo il genocidio dei “comunisti” del 1965 in Indonesia.
Rumsfeld è per me memorabile con la frase sugli unknown knowns. Il potere puro. Una descrizione della sua carriera si trova di striscio nei documentari di Adam Curtis, come https://en.wikipedia.org/wiki/The_Power_of_Nightmares .
Grazie Mattia, pezzo molto bello. I documentari, oggi, sono spesso il cinema migliore.