Quel che passa il convento ovvero opinioni di un disadattato
di Giorgio Mascitelli
Uno degli avvenimenti più emblematici della vita culturale del nostro tempo è stato l’articolo, apparso sul Guardian nel 2011, del grande collezionista e gallerista londinese Charles Saatchi sul mondo dell’arte contemporanea, nel quale esso veniva denunciato come luogo dominato da volgarità modaiola e superficialità in tutte le sue componenti: artisti, galleristi, critici e pubblico. La novità non era certo nelle tesi, tutto sommato formulata con maggiori perspicuità analitica ed eleganza intellettuale da altri prima di lui, ma nel fatto che fossero sostenute da uno dei principali protagonisti di questo stesso mondo e, per così dire, da uno degli artefici di questo stato di cose. Insomma ciò che una volta sarebbe stato argomento di una tavolata di cinquantenni artisti falliti e pieni di ressentiment in una qualsiasi osteria della Rive Gauche globale oppure di un numero monografico di qualche rivistina di marxismo accademico, di quelle che sopravvivono grazie al sussidio pubblico perché il mercato le stroncherebbe subito, ora alligna tra le opinioni autorevoli di uno dei Gran Signori del nostro tempo.
Naturalmente questa uscita di Saatchi è stata accompagnata da una ridda di ipotesi sui motivi reconditi della sua esternazione, da chi alludeva a una raffinata operazione commerciale a chi pensava a un ravvedimento autentico a chi a un suo riposizionamento nel timore dello scoppio della bolla speculativa nell’arte. Siccome non sono certo in grado di scrutare le intenzioni e le motivazioni dei Grandi del nostro tempo, mi limito a constatare che Saatchi non è l’unico ad aver fatto qualcosa di questo genere.
Due esempi ancora più autorevoli, se possibile, sono quelli del finanziere Warren Buffet, che ha criticato a più riprese la politica liberista dei governi statunitensi soprattutto sul piano fiscale, e dello speculatore monetario George Soros, che ha denunciato i grandi rischi per la società democratica o aperta, secondo la terminologia popperiana usata dallo stesso Soros, provenienti dalla speculazione finanziaria. In un certo senso si potrebbe dire che lo stile dei Grandi del nostro tempo prevede un loro posizionamento critico rispetto a quel mondo di cui sono se non i responsabili, gli indubbi protagonisti.
Non bisogna ovviamente sopravvalutare la portata di queste critiche: se si legge un critico autentico del liberismo o del mercato dell’arte risulta evidente che i rilievi mossi da un Saatchi o da un Buffet sono oltremodo circoscritti e semplicistici. Sul piano però della tonalità emotiva dominante oggi, quest’ultima considerazione più tecnica ha poco peso a fronte dello stupore per il fatto apparentemente inaudito che una parte, la più intelligente, di coloro che detengono il potere esercita una critica sulle conseguenze che comporta il potere da essi stessi esercitato.
La conoscenza dell’analisi critica e rigorosa farebbe giustizia di questo stupore, in verità fuori luogo, ma essa è per così dire incomunicabile non soltanto in ragione della sua difficoltà intrinseca, ma anche della scarsa appetibilità in termini di prestigio sociale: il raggiungimento di una consapevolezza culturale e politica poco spendibile sul piano della riuscita sociale è un ben misero premio e anzi rischia di essere il marchio di un’esperienza marginale, se non addirittura di disadattamento.
Un mondo in cui il potere denuncia se stesso ( e il discorso critico è oscuro e poco attraente) fatalmente genera una sensazione di dejà vû e di noia anche in chi per la precarietà della propria vita non dovrebbe avere molto tempo per simili stati d’animo. Così analogamente la correlativa convinzione di aver già letto tutti i libri e di conoscere tutto ciò che va conosciuto spesso alligna in coloro che meno hanno letto e meno hanno conosciuto. Non si tratta di una forma di protervia o di quell’arroganza che pasolinianamente si potrebbe attribuire a una piccola borghesia globalizzata, ma più semplicemente la gratificazione che nasce da quella sensazione e da questa convinzione è l’unico schermo protettivo contro la disturbante percezione che le numerose libertà di cui godiamo siano sempre meno esercitabili in un mondo senza vie d’uscita possibili.
Ma per tornare a Saatchi, se analizzassimo la sua denuncia in un’ottica dadaista ( solo per amore di ipotesi perchè non credo che questa fosse la sua intenzione mancando nel suo scritto quella platealità ludica e il gusto per la provocazione tipiche del dadaismo), si potrebbe dire che essa contiene un paradosso per cui la denuncia da parte di colui che dovrebbe essere denunciato rende non credibile ogni ulteriore denuncia; in un’ottica giansenistica invece la sua denuncia non sarebbe credibile se non seguita da un immediato abbandono dell’attività di gallerista; in un’ottica politicizzata sarebbe il segno dell’assoluta sicurezza delle èlite, il cui dominio non trova contestazione nemmeno sul piano simbolico.
Insomma quel che passa il convento oggi è questo e proprio perciò si apre lo spazio per un’arte ( e per una letteratura) non più di contestazione, ma di evasione.
Un’arte di evasione. Salvo il prossimo snobistico e autoreferenziale storcimento di naso da parte dei salotti buoni della recherche d’un art perdu.
Sull’arte d’oggidì, la sua limitatezza,il suo asservimento…ce ne sarebbe da dire….Quanto alla letteratura ‘d’evasione’ pure. Evasione da che? Dalla realtà, da noi stessi? E poi perchè evadere? Si parlava di Marquez, di realismo magico in realtà quella formula cercava di catturare quella specie di dimensione onirica (vuoi terribile, vuoi poetica….) presente in tutta l’America Latina.Ma nella vecchia Europa? Mi risuona la voce purissima di Etty Hillesum alla vigilia della sua partenza per Auschwitz che ‘dopo’bisognava finanche riscrivere tutti i libri perchè quelli che c’erano erano alla fin fine sorpassati. La grande sfida se così si può dire è tutta qui. No?
Ma sì la battuta sulla letteratura e sull’arte d’evasione è appunto una battuta che gioca sul senso abituale del termine e su quello che assume nel mio testo dove parlo di un mondo senza via d’uscita possibili. Al di là del gioco, l’evasione al posto della contestazione indica una realtà in cui appunto le avanguardie, il movimentismo e, temo, perfino un certo tipo di dibattito culturale non hanno più spazio, sono soffocati e dunque le vie si complicano. Quanto alla grande sfida è sicuramente quella di cui parla Carlo Carlucci, ma essa riguarda le individualità di cui non mi occupo in questo scrittarello di carattere paradossale e sociologico
Questa sorta di autocritica dal timing sospetto da parte di un mecenate che era in grado da parecchio di guastare le feste ai mercanti del tempio mi ricorda la parodia di un titolo(dove osano le quaglie),e un episodio storico concernente picasso in cui lo stesso rispondendo a chi si dovesse attribuire la paternita` di un capolavoro del genere catastrofico qual`era la guernica disse che era opera loro
molto interessante. Io naturalmente neanche sapevo chi fosse il signor Charles Saatchi e me lo sono andato a guardare nella onnisciente wikipedia; giustamente non lo conoscevo, vive in un mondo ortogonale al mio — le metafore geometriche talvolta rendono bene. Ma trovo particolarmente azzeccata l’ultima ipotesi di Giorgio, quella dell’ottica politicizzata, “il segno dell’assoluta sicurezza delle èlite, il cui dominio non trova contestazione nemmeno sul piano simbolico.” Ovvero, non siamo messi bene.