Mondi offesi
All’inizio di via Rovello, a Milano, c’era un’antica libreria antiquaria gestita da un bibliofilo per eccellenza, Mario Scognamiglio, presidente dell’Associazione Internazionale di Bibliofilia Aldus Club. La libreria ha chiuso i battenti il 29 dicembre 2012, i locali a tutt’oggi sono ancora vuoti. Poco più in là, nello stesso periodo, ha chiuso la Libreria di Brera (su Google Maps si può ancora vedere l’insegna). Al suo posto c’è un negozio di camicie. Se prosegui per corso Garibaldi, nell’interno suggestivo di un cortile trovi la vecchia sede della Libreria del Mondo Offeso. Ora è occupata dallo showroom di una piccola azienda artigianale di abbigliamento. La libreria ha traslocato più in periferia, verso l’Arco della Pace, dove insieme ai libri offre un servizio di caffetteria e tavola calda. Andando oltre, sull’angolo con via della Moscova, sino a poco più di un anno fa c’erano le vetrine della Libreria dell’Utopia, ora trasferita in zona Lambrate. Non reggono nemmeno i remainder: quello storico delle Librerie Riunite, nella centralissima via Dante, ha cessato l’attività nel febbraio scorso. Affitti e spese fisse li stanno decimando. Non solo a Milano, la sensazione è che il fenomeno sia generalizzato. A Pavia, la mia città, la Libreria il Delfino ha lasciato la prestigiosa piazza della Vittoria per una piazza più caratteristica ma più nascosta. I nuovi locali sono ora abbinati a un esercizio di bar e ristorazione. Il tutto con affitto inferiore, si intende.
La domanda è: cosa sta succedendo? Questa non è la crisi, è qualcosa di epocale, è la fine di un mondo e l’inizio di un altro. Colpa dell’e-book, dice qualcuno. Ma il libro digitale non c’entra, è soltanto un supporto diverso, e poi è appena partito, non ha ancora i numeri per poter influenzare il mercato. Colpa dell’abolizione delle licenze avvenuta nel 2006, dice chi ha l’occhio del commerciante, così finisce per comandare il dio denaro: le multinazionali arrivano e si comprano gli spazi che vogliono. Le librerie, con il loro modesto giro d’affari, non possono competere. Il fatto è che la libreria non è un negozio qualsiasi. È uno spazio per le idee, è l’habitat della cultura e degli strumenti che la diffondono. Certo, si possono vendere libretti più o meno erotici e best seller di grido sia in un negozio di intimo che tra i banchi di frutta del supermercato. Ma la libreria, quella dove c’è un libraio con cui parlare, dove anche i piccoli editori hanno il loro spazio, dove il successo di un libro non si misura dal numero di copie vendute, ebbene, la libreria è qualcos’altro. E questo qualcos’altro sta evolvendo. Verso quale forma, è ancora da capire. Ma prima di qualsiasi ipotesi bisogna rispondere a una domanda ineludibile: cos’è la libreria.
Sono allora entrato in una delle “sopravvissute” citate più sopra: la Libreria del Mondo Offeso. Tra un’autorizzazione e l’altra è passato un anno, ma da alcuni mesi ha finalmente la nuova insegna. Tre vetrine, angolo caffetteria (in realtà quasi metà locale), un pianoforte, sedie, sgabelli, tavolini, tavoli espositivi, poster in bianco e nero sulla sezione alta delle pareti: Chaplin, Sordi, scene di vita ritratte dagli Alinari, e così via. Il resto, scaffalature e libri, compresi quelli per bambini. Prima, quando si trovava in corso Garibaldi, era libreria e basta, solo una macchinetta per il caffè accanto alla cassa. I muri con i mattoni a vista creavano un’atmosfera bohémien in perfetta sintonia con il nome, il Mondo Offeso, preso in prestito da Vittorini. Da qui ecco lo spunto per il primo tentativo di definizione: la libreria è un centro di materializzazione di fantasmi letterari. I personaggi che popolano la Libreria del Mondo Offeso sono appunto quelli di Conversazione in Sicilia. C’è l’arrotino, con la sua grande bocca da magro, la faccia nera e gli occhi scintillanti sotto il vecchio copricapo da spaventapasseri. C’è la faccia paffuta dell’uomo Ezechiele, gli occhi piccini che guardano intorno con tristezza. C’è l’immenso uomo Porfirio, occhi azzurri, barba castana e mani rosse. E poi Colombo, il nano delle miniere di vino. E poi gli uomini che cantano seduti su una panca. E i due giovani senza vino che piangono seduti per terra, nonostante il vino, in questa libreria, sia ampiamente disponibile.
Ma c’è dell’altro. Sulla vetrina è applicata la sagoma presa dalla vecchia insegna di corso Garibaldi: un gentiluomo di spalle con cappello e ombrello. Se in origine anche lui era soltanto il personaggio di un libro, Tristano, ora incarna il ricordo di uno scrittore che la Libreria del Mondo Offeso ebbe ospite nella sua vecchia sede e che è ormai scomparso da un paio d’anni. O meglio, non è scomparso. Antonio Tabucchi è qui anche lui, seduto ad un tavolino dell’angolo caffetteria come se fosse alla Brasileira di Lisbona. Sorseggia un caffè, sfoglia qualche libro, magari scambia un’occhiata di intesa con l’uomo Ezechiele e con l’uomo Porfirio. Eh, a guardare ce ne sono di fantasmi usciti dai libri, maggiori e minori… Tra i tavoli, ansioso di sedersi per mangiare un boccone, si aggira persino l’ispettore Ferraro, scappato fuori da un librettino basso basso, quasi sentisse il disagio di trovarsi nelle mani di Dio e volesse prendere una boccata d’aria. Arrampicato su una scaffalatura trovi invece Cosimo Piovasco di Rondò. È chiaro, lui non posa un piede per terra. Ma c’è anche il fantasma di un’armatura vuota che cammina davanti al bancone dei caffè, nonché un tale Marcovaldo che cerca di barattare la sua salciccia con un piatto caldo. Insomma, la fauna narrativa di Calvino al completo. Non per nulla sugli scaffali sfila la sua opera omnia, così come quella di Pasolini, di Bilenchi, di D’Annunzio, di Sciascia, di Scerbanenco, di Gadda, della Romano, di Soldati, di Pirandello e di altri mostri sacri del Novecento italiano di cui la libreria è fornita.
Con un accostamento che lascia un po’ perplessi, la Libreria del Mondo Offeso è specializzata in zuppe, risotti, taglieri di salumi e di formaggi, dolci artigianali, presentazioni di libri, incontri con autori, piccoli concerti. Andrea Tarabbia, Giorgio Falco, Andrea Bajani, Piersandro Pallavicini, Giorgio Manacorda, questi soltanto alcuni tra gli scrittori che sono di casa o quasi. Ecco allora lo spunto (a dire il vero suggerito da Tabucchi) per un secondo tentativo di definizione: la libreria è luogo dove si manifesta una visione del mondo differente da quella imposta dal pensiero dominante, o per meglio dire dal pensiero al potere, qualsiasi esso sia. Come a dire, una libreria che fa la libreria mette insieme un mucchio di idee così eterogenee da fare scintille. Per di più non le lascia latenti, ci soffia sopra in modo che le scintille diventino un fuoco sempre acceso: il fuoco della cultura.
Sono tempi grami, per la cultura, appiattita sempre di più dai mezzi di comunicazione di massa che sfruttano il loro potenziale non certo per diffonderla ma per inseguire il gradimento dei fruitori. Del resto è più semplice ed economicamente produttivo adeguarsi al ribasso piuttosto che educare verso l’alto. In questo scenario, dove l’immagine fa da padrona, tutto ciò che è parola e ragionamento è considerato noia, pesantezza, inutilità. Remare contro il dilagare – non diciamo dell’ignoranza, ma della non cultura – è una delle funzioni della libreria. La libreria oggi è quindi anche questo: una scommessa. Molto difficile, visti i tempi. Anche se va detto che per le librerie, come del resto per l’editoria, i tempi sono sempre difficili.
Grande tristezza.
Mi ricordo la piccola stanza con tanti libri di questo mondo.
La libreria contiene il mondo reale, non solo: offre oceano di resistenza, pura poesia.
Era un pomeriggio di pioggia due anni fa a Milano. Sono entrata forse tra due mondi.
Repiravo il profumo immaginario di una Praga letterario.
Mi aspettavo a incontrare Kafka.
Ho ritrovato la voce ampia italiana:
Libri di poesia scelti con desiderio
e fame.
La libreria è l’ultima possibilità di obliare il tempo in fretta.
L’ultima riva poetica delle parole.
L’ultimo labirinto dei racconti.
L’ultima possibilità di ritrovare la strada, la casa con la promessa
di avere tempo per rittrovare
l’incanto della sua propia lingua.
Che tristezza.