I sette savi
di Antonio Sparzani
Entrate dal cancello della villa Belgiojoso Bonaparte, la villa comunale di Milano, in via Palestro, dove una volta ci si sposava, almeno quelli che preferivano il sindaco al sacerdote, proprio di fronte ai Giardini Pubblici; entrate nel giardino in stile romantico e aggirate la villa dall’interno, costeggiando il laghetto. Dalla parte opposta dunque rispetto all’entrata spingete lo sguardo tra gli alberi e gli arbusti, risalite qualche balza di terra e vi trovate davanti ai Sette Savi.
Sono un gruppo omogeneo di sculture che ci ha lasciato Fausto Melotti (Rovereto 1901 ― Milano 1986) che andrebbe forse conosciuto meglio; da quando ne ho scoperto l’esistenza sono entrato più volte a guardarli e, anche se i giardini sono assai affollati, è raro che qualcuno si spinga fino al luogo appartato dove sono collocate le statue. Sono sette sculture di pietra bianchissima, a grandezza naturale, che riproducono sette personaggi dell’antichità, poco importano i loro nomi, tanto più che le statue sono tutte uguali, niente visi, solo la curvatura del profilo, identica per tutti. Interessante invece la loro disposizione e il loro orientamento, che ha notevoli elementi di regolarità, ma anche qualche deviazione dalla regola. La loro disposizione sembra formare un triangolo equilatero, ma in realtà c’è una statua fuori dal triangolo. Qualsiasi simmetria voi vi immaginiate, è sempre verificata quasi, non completamente. E questa pare a me una caratteristica di tutta l’opera di Melotti ― al Museo del Novecento c’è una stanza a lui dedicata, che vale una visita. L’idea che mi sono fatto io, guardando i Sette Savi e le altre opere esposte al Museo, è che fosse in qualche modo devoto, pur nell’estrema astrattezza di molte sue creazioni, ai canoni dell’arte classica, che esplicitamente riconosceva, ma che il suo contributo fosse molto spesso appunto una variatio che gli permetteva di scostarsene, ancorché sempre con moderazione.
Del resto la sua formazione era stata assolutamente “regolare”: si era laureato in ingegneria elettrotecnica nel 1924, nel 1928 si era iscritto all’Accademia di Brera, dove il corso di Plastica della Figura era tenuto da Adolfo Wildt e aveva conosciuto Lucio Fontana con il quale aveva stretto una forte amicizia, consolidata ― così dicono le cronache ― da una rara sintonia spirituale. È da Wildt che apprese il rispetto e la dedizione per il mestiere di scultore, il gusto per la trasfigurazione in chiave antinaturalistica, la liberazione della forma plastica dal peso e la tensione a qualificare lo spazio in relazione al vuoto. Si era infine diplomato nel 1929, stabilendosi poi a Milano. Insieme agli architetti razionalisti del Gruppo 7 (costituitosi nel 1926, sotto la guida di Carlo Enrico Rava), Figini e Pollini in particolare, cominciò a estendere gli esiti della sua ricerca alla dimensione pubblica, nel contesto dell’arte e dell’architettura d’avanguardia, condividendo i loro ideali estetici, fondati sulle nozioni di classico, ritmo, astrazione e purezza.
Sono disponibili vari cataloghi delle sue opere, nei quali vengono riportati pareri e giudizi di colleghi e di critici vari. Io mi limiterò a trascrivere qui un passo tratto da Cos’è poesia (edizioni del Verri, Milano 2012) di Giulia Niccolai. Eccolo:
«Calvino si augurava che la scuola riprendesse l’abitudine di far studiare a memoria le poesie agli studenti, perché le poesie che lui stesso aveva appreso a memoria, gli avevano poi tenuto compagnia per tutta la vita.
Credo che molti di noi siano d’accordo con lui. In queste ultime settimane mi è capitato di notare in libreria, che tutte le riedizioni einaudiane di Calvino hanno in copertina una scultura di Melotti. Mi pare un incontro perfetto. Non so se è capitato anche a voi qualche volta al mare, quando il nostro sguardo inquadra di colpo, al largo, una goletta o un brigantino, di provare un tuffo al cuore, una sorpresa e un’emozione fortissime, che ci fanno desiderare viaggi e avventure, come le provavamo da bambini leggendo Salgari, Il corsaro nero, o altri simili testi.
È come se Melotti condividesse con noi quello stesso desiderio irrealizzabile, perché, quando vediamo dal vero, nello spazio di un museo, quelle sue straordinarie sculture fatte di niente, di un paio di assi di rame in bilico, di fili di ferro, di scale sghembe, di cencini con un po’ di colore, o di pezzi più grandi di tulle che avvolgono esili inizi di figure geometriche, per qualche magica alchimia che non riusciamo a spiegarci, proviamo quello stesso tuffo al cuore, quella sorpresa e quell’emozione che ci fanno desiderare proprio quei viaggi e quelle avventure della nostra lontanissima infanzia che speravamo di poter vivere da adulti. Siamo noi quei testimoni di noi stessi, velati, svelati, rivelati?»
Si, in questa triplice sequenza ‘velare, svelare, rivelare’ può riassumersi l’opera e l’operare di Melotti…