Sei poesie
di Daniele Bellomi
Da Ripartizione della volta, Cierre Grafica / Collana Opera Prima, 2013.
da novae
potrei restare lontano dal luogo dell’osservazione, non farne mai più
parola per la parte in ombra con nessuno, valutare le distanze con occhi
abituati all’ipotetica esplosione, precedere come si procede fra variabili
e cautele, prossimità al collasso, ripassando il bordo già combusto
di ogni cosa vista e che si vive, simularne il pianto accelerato,
il suono ad ogni suo intervallo: guardo però a cosa rimane, se non ho
più nulla da ricordare oltre al rilascio di vestiti che sanno
solo di ciò che è ieri e che non torna, che sono lontani, sempre,
non riuscendo a variare il moto, il centro del battito, il ritmo
di ogni superficie, l’idea di corrispondere alle cose che si fanno
con le mani, quando è il caos a fare parte di parole indotte,
imposte dall’ambiente, dette o magari percepite,
appena ribattute sulla pellicola del mondo.
*
ìndico la causa del fenomeno, penso a ciò che non potrai più vedere
o salvare nella memoria docile degli altri, tenuta a parte, radente
al solco che non resta sul periodo corto degli anni che dimentichi
come si fa con tutto almeno una volta nell’esistere, riattivati al tatto
di una luce che arriva se percorre la materia, raggiunge terra,
urta la percezione esposta al flusso dei rovesci e degli incroci,
marea che scatta al suo passante, lo scavalca mentre varca il limbo
delle icone, il magnetismo di tutto ciò che si attraversa: indìco
cause e prove, fissazioni, tento di capire se è qui ed ora il lembo
del transito o se è il cervello la massa organizzata di quel no,
non posso, mi dispiace, l’impressione dell’ombra che fa muro
contro muro alla distanza, la scelta di una media percorrenza:
siamo ancora da spostare fuori dallo scoppio se interviene
in noi lo scavo, l’estensione chiusa e muta dentro l’orbita.
*
troverò sempre violenta l’idea di avere nomi, tirarli dietro come fossero
trofei per miste associazioni, in nervi, a fasci, setti e alloggiamenti,
pensando siano altro e non segnali di esistenza, se poi da questi
nascono germogli, sostanze inerti, ombre posteriori, realtà
non regolari e infette per passi traslati da una linea all’altra,
invalidati poi quando decidi che è il caso di riprendersi la vita
nei reticoli di azioni, i lati da cui mandano messaggi gli organismi,
le cellule che riconosci dentro ai fiumi più completi per scalpo
e dismisura, e poi perfetti, si lasciano chiamare dentro oceani
più saturi e volatili, se possono, da un giorno all’altro. col nome
si perde quel vantaggio che si lascia ai vivi, ci si dispone a prendere
oneri e colpe dal genoma, pronti a raggiungere i perduti
nella bocca della bestia, rendersi al vuoto più totale o selettivo:
la pace per come segue, inerte, disarticolata nella luce.
**
indice
gridano alle macchine la loro devozione, poi si danno
forza e foga per motivi di deissi: prendono le parti
indirizzate e poi colpevoli, contratte a generarsi
una sull’altra. la voce che sentono è la tua, costretta
a uscire dai ranghi del muro occidentale, dito che scatta
sul serramento, stando fuori dai legami. sarà tutto domani
e poi, se non risulta, se indicato a mani aperte, confermate.
se tocchi questo muro, se ti tocca di varcarlo tolta l’acqua
nera dalle fenditure sarai parte violenta e presa dentro
o sotto il nervo, base sacrale prima, poi sacra, sternale
di una cosa riparata. un giorno guardi e vedi e guardi
ancora e il giorno appare rivoltato dalla linea infetta
che si muove, che segue la propria veglia in fitte,
arrampicate che sorvolano gli estremi, i varchi sfigurati
nella rete. un giorno guardi e vedi e il giorno si ricorda
della propria lussazione, della luce sotto o dentro
questa curva che diventa il gomito, un bene che si spezza
o che si spezzi e trovi forza per mostrarsi dall’interno,
a tocchi e brani estratti dai fossati, stecchi, mancanze
della voce poi nei sacchi aperti che raccolgono quei resti,
rimasti che saranno frange, poi distratti da altre arcate
in cui rimane questa lingua che si stacca, poi parlata,
dopo, se c’è un dopo, o andata, per davvero, altrove.
**
da s.n.r.
volta, che contrae la sistole dei nodi, costruita dove
non si può, dove non c’è l’arcosecondo, la recisione
vibrata che scocca dentro non-storie di anni più isolati:
è δια, che si dilata, prova lo iato, che non accenta, stola
che conserva, porta il gesto e il grado in cui si accetta
o rappresenta l’esistente senza uscita, mediato nella scena
di traverso: volta in tre, classe di luce, mappa al secondo
del processo quasi-radiale che portano le strade, quella
di lui e del maggiore, prima fratello, ombra, preposizione,
trovato appena esploso dall’interno, ancora adesso a muro
di ventre rivoltato, nel turno nascosto, che si apparta,
porta il termine, la forza, di distesa che resiste mentre
muove, radente se poi muore, sfiora il corto della lama.
sarà un taglio, a duello se può uccidere, tiro che rimane,
deflusso nel ristretto, sceso, periodico di questa linea
trasversale che ora sversa, resa facile per nota o nell’attesa
che ora apre, volta sola per non deflagrare, che accade
nel mezzo della chioma, testa che si espande, κομήτης,
che cresce perché rimasta a crudo, denudata, vista da destra,
collapsar, tentata a qualche blocco di distanza, che è sosta,
apertura che si ferma, se è selce o se è da sola, del mare
*
volta, fase di visione della notte, intersezione nel lungo
della fibra, farsa esatta, modulata, siderale presa al punto
che si sposta verso il centro, struttura propria della nebula,
poi nebbia, calma indebolita, mai pronta a disconoscersi,
sintassi realizzata nelle cose, σύνταξις che mette a prova
il nervo più veloce, associa tutto ciò che porta ad arrow left
momento per chi stacca la materia inerte, suolo percorso,
visto più volte dalla parte del visore; ripartire per contar
i soliti superstiti, conoscere il futuro per attrito, solo modo
che diverge in percezione, l’evento che passa dal bersaglio
al detonare, linea ed energia riaperta in quota, che stalla
e sgrana giorni chiusi in altri giorni, regesti per gli equanti,
epicicli al mezzo delle postazioni. non c’è mira, o quadro
in prova a darsi avvio da solo, invalidando ciò che è vero;
terra che non trema, inverata, ridotta a calibri, cabrata
collimata per come tocca a tutti, quando accade, per quanti
potrebbero chiamarla a riconoscersi nel padre: ordine
preso su di sé, tiro costante e decentrato, ora disposto
ad acquisire tutto, porta che si illumina, rimane, svolta
a cui non essere presenti, nulla che faccia male agli occhi
[…] Sei poesie | Nazione Indiana. […]
Sintassi che mette a dura prova il nervo più veloce, torce ad arco e proietta lontano
chapeau
bravo daniele, ho avuto anche l’onore di sentirti leggere e interpretare. :)
mi sembra che NI sta ritrovando la sua funzione… far conoscere cose da conoscere…
Gianluca, nessun onore, è stato per me un privilegio. Ringrazio tutti per i complimenti. :)
Molto più di “sei poesie”: un tutto che “fa male agli occhi” – ma per bellezza. Grazie ad Alessandro per aver pubblicato Davide e grazie a Davide per questi frammenti, per questa parola che è (ogni singola) piena e pietra.
E ovviamente – colpita tanto più da quel “troverò sempre violenta l’idea di avere nomi” (con cui ti ho ripostato altrove) anziché scrivere Daniele, per un lapsus calami ho scritto Davide…
Grazie anche a te, Mariasole, per le belle parole. Io e Alessandro abbiamo scelto questi sei testi del libro sia perché non erano ancora presenti in rete, o quantomeno non erano ancora stati selezionati “a parte”, sia perché lo stesso Alessandro li ha ritenuti interessanti in termini di “ragionamento poetico”. Mi fa molto piacere che si ponga l’accento sulla “densità” dei testi: questo mi fa credere che gli sforzi fatti in merito non siano stati vani. Di nuovo grazie, e un saluto.