Nel bosco degli Apus apus

di Mariasole Ariot

 

Apus apus: “Una sua peculiarità è quella di avere il femore direttamente collegato alla zampa, tanto che il nome scientifico deriva dalla locuzione greca “senza piedi”. Questa sua caratteristica fa sì che non tocchi mai il suolo in tutta la sua vita; infatti se disgraziatamente si posasse a terra, la ridotta funzionalità delle zampe non gli consentirebbe di riprendere il volo”. Quindi dorme in volo.

Il corpo urta sugli spigoli non per eccesso di ossa ma per un compendio di niente. Mi accorgo della grande solitudine del cielo, di questo filo tirato tra un muro e l’altro per appendere gli impiccati.

Ce ne stiamo lì a guardare, ogni mattina, come fossimo un pubblico in fila al concerto, o alle poste, ci spintoniamo per guardare il massacro.

Io vivo, lui non vive, io non vivo. Lui si ritrae nella cantina. Io mi affaccio. Lui vede il bulbo, io vedo il fiore. Lui mi pettina i capelli con il rastrello, io preparo la camomilla.

Quanto manca al primordiale? Amare ha un nome proprio. Io ho perduto il mio.

Ne avevo comprato uno nella casa bianca del colle. Le ragazzine mi seguivano portandomi le caramelle che evitavano di mangiare, un po’ di fondo di zucchero del caffè finto, mi portavano i loro dipinti, dicevo sì e no con la testa, questo funziona, questo non funziona, ancora un po’ di rosso, aggiungi un dettaglio.

Dei miei quadri, l’inserviente ricordava l’occhio: e diceva: l’occhio è la tua firma.

Ancora non avevo abbastanza sguardi, li tenevo spalancati e fingendoli ipermetropi per potermi affacciare al di là del vetro a guardare i ragazzini delle ville di Madrid che scendevano come pazzi sulla neve. Noi eravamo i matti, loro i pazzi. A volte, da lontano ci spiavano, la vecchia volpe si alzava la maglietta per mostrare i seni, loro ridevano, gridavano vecchia pazza porca, e io me ne stavo in un angolo, fumavo in silenzio, mangiavo i biscottini obbligatori.

Non fare così, mamma volpe.

Ma quando rideva con la sua fessura tra i denti, la stessa che portavo tra i miei, l’abbracciavo con tutti i corpi, ricomponevo le mani, i piedi, la testa, rattoppavo i buchi che c’eravamo fatte la notte prima per poterci parlare – e la portavo fuori nel bosco dei senza piedi. Lo sai, cara volpe, che i rondoni dormono in volo?

Le bende per Nien, le corde per farla uscire, non sono mai servite.

Anziché piangere per lei, ci siamo fabbricate due magliette.

—-

Poi improvvisamente mi nascondevo. Entravo negli armadi, mi rannicchiavo nella zona libera tra la fine del cassettone sotto il letto e il muro del letto, restavo immobile, cristallizzata: non mi sente nessuno, non respirare, non fare una mossa. Avevo sviluppato una grande abilità anche nel gioco dei bambini: mi cercavano, non mi trovavano mai. E non perché scegliessi posti difficili, ma perché sapevo far sparire il rumore.

Tutto il rumore del corpo veniva improvvisamente azzerato, un cortocircuito provocato nello spazio, non mi trovavano nemmeno guardandomi.

Infatti un giorno una madre aveva detto: da bambina era così silenziosa che ci si poteva scordare di lei.

Mi avete scordato, ma io non riesco a scordarmi di nulla. Il passato è un’invasione nel presente, un tutto cresciuto a dismisura e sempre incinta: sistema a feedback positivo, esponenziale, esplosivo.

Mentre restavo immobile nella tana e sentivo i passi degli altri, tutto quello che desideravo era sparire due volte. Era un gioco, ma lo vivevo con la serietà di chi stava fuggendo all’omicidio: c’è un omicida in casa: fingi di essere morta.
Così morivo ogni giorno, ad ogni incontro, per evitare gli incontri.

Madre, tu hai la bocca al posto degli occhi.

All’ora dei sei pasti ci scambiavamo di posto. Ero nella cricca delle ribelli, mi piaceva fare la parte contraria delle sante: assistevo ai baci delle donne, le loro lingue nei bagni, i giochini all’uncinetto, le mani tra le gambe sotto i tavoli imbanditi e i carrelli del pane e delle flebo, poi scendevo al piano inferiore dell’inferno, che lì c’era posto per gli invisibili –  e io mi sedevo sulle gambe degli internati, avevano tutti le facce incarnite.

Quello spavento non era rassicurante, ma tra i tre mondi a disposizione, quello era l’unico più vicino al sonno. I sensi si scambiavano riconoscenza, Claire mi chiedeva: posso mostrarti un suono? Posso cantarti tutta? Sono il tuo mare?
No, Claire, tu non sei il mio mare.

Eravamo tutti condannati alla verità.

Sono le otto del mattino e un pianeta come un sole sopra un sole è comparso alla finestra. L’occhio che si estende mi incolla al vetro, lecco la cornea per vederci meglio, mi avvicino per capire se è la storia della terra che ci siamo raccontati per millenni.

La voce dice: hai sbagliato: ripeti: hai sbagliato.

Puoi fare le magie con gli occhi, spostare gli oggetti, farti mangiare dai morti, catturare l’immagine del cielo. Ma c’è un punto intoccabile che continua ad urlare, che cade come resina sugli occhi. La mia nudità è su quel sole che posso vedere solo io e solo sono io dall’interno, un riflesso di un pianeta che non può cadere e continua a cadere ogni giorno, ad ogni ora, ad ogni piccolo frammento di tempo.

Madre, la mia pancia è vuota. I miei pianeti sono vuoti. La lampada che mi hai regalato non ha mai emesso luce.

—-

 

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11 Commenti

    • Dolores Prato secolarizzata sotto mescalina non me l’aveva mai detto nessuno… (sorrido, grazie della lettura, Diamonds)

  1. Ho spesso l’impressione che Mariasole possa permettersi, scrivendo, qualsiasi cosa. Comprese tutte quelle da cui un autore “avvertito” (come si dice) tenterebbe in ogni modo di guardarsi. Poiché la “letteratura” non c’entra, qui; essa è poco meno che un effetto collaterale di un corpo a corpo con il [ ] (sic) che mi lascia (come ora) senza fiato.

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