Articolo precedente
Articolo successivo

Trafficare con i piedi

trafficdi Gianni Biondillo

La storia della medicina ha visto nascere quasi contemporaneamente, nell’Ottocento, le pratiche anestetiche e quelle di sterilizzazione degli ospedali. La chirurgia cambiò radicalmente, oggi non riusciremmo a concepirla altrimenti. Se dapprima i dottori dovevano operare in tutta fretta, ed anzi la loro velocità era un merito perché evitava atroci sofferenze ai pazienti, oggi, in camere asettiche, possono con tutta calma lavorare di fino sul corpo malato. Ebbene, la cosa curiosa è che questi due capisaldi della chirurgia moderna, che oggi diamo per assodati, ebbero a suo tempo fortune ben differenti. L’anestesia ebbe un successo immediato nella comunità scientifica. Era il 1846 quando a Boston il dottor Morton utilizzò l’etere per addormentare un paziente, permettendo così al dottor Warren di poter operare all’asportazione di un tumore al collo. Neppure un anno appresso, nel 1847, ci fu la prima applicazione di etere come anestetico in Italia, all’Ospedale Maggiore di Milano. Ben altra storia ebbe l’idea che i medici dovessero lavarsi abbondantemente le mani, che i pazienti dovessero essere ricoverati in ambienti sterili, che le operazioni venissero fatte in ambienti protetti. Per decenni la medicina ha guardato con sospetto tali teorie. Spesso i chirurghi si mostravano in corsia, come beccai, coi camici insanguinati, a prova del loro alacre lavoro coi ferri. È che mentre l’anestesia aveva una sua evidenza immediata – il paziente dormiva, il medico operava, il risultato era alla portata intuitiva di tutti – accettare invece che microrganismi invisibili potessero agire sulle ferite aperte sembrava un po’ fantasioso anche agli uomini di scienza dell’epoca. L’aspetto meccanico della chirurgia sembrava prevalere come cornice di riferimento, al punto di non trovare contraddittorio il fatto che molte operazioni fossero perfettamente riuscite ma il paziente morisse ugualmente. Per infezione, ovvio. Ovvio per noi oggi, molto meno all’epoca.

Ebbene ogni volta che sento parlare di mobilità privata, di inquinamento, di chiusura dei centri storici, di ZTL (Zona a Traffico Limitato), ripenso sempre a questo aneddoto. Ciò che per noi è ovvio e di buon senso spesso non ha ancora raggiunto la sua evidenza per tutti. Esiste una sorta di resistenza al cambio di modalità, la paura di perdere un privilegio è più potente della speranza di un guadagno ben più fruttuoso, anche se non così immediatamente evidente.

armanÈ una questione di narrazione. Ci siamo lasciati ammaliare dal mito della libertà assoluta che un’automobile porta con sé. Liberi di muoverci ovunque, dove ci pare, quando ci pare. Guardate le pubblicità dei produttori di autovetture: macchine che sfrecciano libere immerse in paesaggi incontaminati, nessun vincolo, tutto può essere raggiunto dalla nostra volontà. L’esaltazione del solipsismo, l’individualismo fatto lamiera e gomma. Potenza della propaganda, capace di farci vedere quello che non c’è. L’arte, rispetto alla propaganda, si comporta in modo differente. Qualcuno forse ricorda quando Ico Parisi, nel 1991, realizzò un’installazione in Piazza Cavour a Como: un’automobile imprigionata in un cubo di cemento. Opera che dialogava con altre esperienze europee, come quella di Arman che, nel 1982, aveva realizzato una scultura fatta dalla sovrapposizione di 59 automobili affogate in 1600 tonnellate di calcestruzzo, o con César che decenni prima comprimeva come uno sfasciacarrozze le automobili fino a ridurle a cubi, liberando lo spazio che occupavano e dimostrando la loro intrinseca essenza di scarto.

Comp17 1aaSiamo tutti amanti della natura e tutti ci lamentiamo del tasso d’inquinamento delle città, però appena una amministrazione comunale cerca di agire concretamente, limitando il traffico privato, aumentando la pedonabilità, etc., si scatenano le critiche più radicali. Va bene tutto, ma nessuno può impedire la libertà di muoverci in macchina! Libertà che ovviamente non esiste. Basta girare per una qualsiasi strada a grande scorrimento, e non solo nelle ore di punta, per capire che siamo tutti imprigionati in un cemento invisibile ben più consistente di quello delle provocazioni artistiche. La libertà di fare quello che ci pare e piace non esiste, è un mito pubblicitario. Spesso ci vuole davvero poco per prendere una pessima abitudine poi difficile da scrollarci di dosso. Sembra che siamo sempre stati animali meccanizzati, sembra che camminare sia cosa che non ci sia mai appartenuta. Qualche mese fa ero ospite di una manifestazione in Sardegna. Accoglienti come sempre, gli organizzatori pretendevano di portarmi in macchina tutti i giorni dall’albergo alla fiera del libro. “È dall’altra parte del paese” mi dicevano preoccupati. Cioè a soli dieci minuti a piedi. Dieci, andando con calma. Loro, nipoti di pastori transumanti. E così in tutto lo Stivale. L’automobile è stata la concreta rappresentazione dell’emancipazione dalla povertà. Camminare è da poveracci. Ci fregiamo di possedere il più alto numero di bellezze storiche e artistiche, ma vogliamo raggiungerle in macchina. E trovare parcheggio proprio di fronte alla cattedrale che andiamo a visitare. Dalla costiera amalfitana ai Sacri Monti sembra che l’unico modo di valorizzare il nostro patrimonio artistico sia costruirci affianco uno smisurato parcheggio. Per meglio usufruire del bello.

È chiaro che questa narrazione tossica deve cambiare. I nostri nipoti non riusciranno a capire come sia stato possibile aver accettato per decenni – non ostante gli allarmi lanciati da tutti gli scienziati del globo terracqueo – di ingerire veleni e deturpare il paesaggio nel nome di una falsa libertà individuale. Perché che esista un legame assodato fra polveri sottili e salute pubblica è cosa ormai innegabile. Si potrebbe quasi citare alla Corte dell’Aja la politica nazionale per tentato disastro sanitario e crimini contro l’umanità. L’esposizione acuta all’inquinamento atmosferico danneggia le vie respiratorie, il sistema cardiovascolare, peggiora la meccanica respiratoria, altera i meccanismi di regolazione del cuore. Non c’è pneumatologo che non ci dica quanto gli effetti sulla saluta dei Pm10 e Pm2,5 siano gravi e molto spesso cronici. Molti studi, fatti soprattutto all’estero, associano i livelli d’inquinamento col numero di ricoveri e morti quotidiani per cause respiratorie e cardiovascolari.

Il problema è che tutto questo “non si vede”. Proprio come nell’Ottocento, che non c’era l’evidenza immediata dei benefici della sterilizzazione. Il mito dell’automobile come simbolo di emancipazione è potente. Nessuno dice che non serva, persino io che non ho la patente. In una nazione che ha un sistema di mobilità pubblica deprimente come il nostro si crea una sorta di circolo vizioso: un italiano su dieci si muove coi mezzi pubblici perché, come ci viene detto, chi abita lontano non può muoversi mancando una rete pubblica degna. Però è anche vero che praticamente nessun pendolare condivide il tragitto casa-lavoro con i colleghi (risparmiando, tra l’altro, soldi e spazio occupato) e, peggio, quasi la metà di chi si sposta in macchina abita a neppure mezz’ora dal posto di lavoro. In bicicletta ci metterebbe meno!

600_multipla_pfCi sono alcune famose fotografie degli anni del boom economico dove si vedono graziose famiglie sedute in un parco a fare un picnic con la loro 500, o 600 cabrio, che li guarda, gomme sul prato, protettiva. Queste immagini sembrano quasi dirci che noi italiani siamo sempre stati così, menefreghisti del bene pubblico, incapaci di fare due passi a piedi o di prendere una bicicletta quando il semplice buon senso ce lo consiglierebbe. Insomma, nel conto della modernità lo scotto del caos automobilistico urbano dobbiamo pagarlo, non siamo mica olandesi, loro sono sempre stati così! Bugia. Negli anni del boom economico anche Amsterdam era nella morsa dell’inquinamento del traffico privato, e i pochi che si muovevano in bicicletta venivano investiti tanto quanto a Milano, Roma o Palermo. Poi la politica, cioè la gestione del bene comune – questo dovrebbe essere la politica! – valutati o pro e i contro, decise di cambiare le pratiche della mobilità, anche contro l’opinione dei molti, moltissimi automobilisti. Gli olandesi non sono naturalmente ciclisti, lo sono diventati. Così come il numero più alto procapite di biciclette in Europa non ce l’ha Amsterdam ma Ferrara. A dimostrazione che anche noi italiani possiamo, volendolo, cambiare le abitudini quotidiane e migliorare la qualità globale della vita di tutti.

auto parcoLa questione classica che viene posta, quando si propone una ZTL, è sempre la stessa: ma così, chiudendo alle macchine votiamo a morte sicura il commercio minuto. Nessuno vorrà più comprare se dovrà farsela a piedi, andranno tutti nei centri commerciali. Anche questa è una narrazione tossica, un sillogismo falso. Non voglio neppure entrare nel merito su quanto sia devastante il consumo di suolo e di energia di un centro commerciale. Non voglio parlare di quanto sia opaca la gestione del flusso di denaro che ha fatto sorgere dal nulla sull’intera nazione questi centri, spesso vere e proprie lavatrici di soldi sporchi accumulati dalla criminalità organizzata. Neppure voglio dire di come sia un modello insediativo nato in un paese che ha dimensioni e tradizioni completamente differenti, imposto d’imperio qui, come prototipo unico della modernità. Lasciamo stare, tutto questo potrebbe sembrare un discorso “ideologico”. Arriviamo alle cose concrete, evidenti. Cosa facciamo quando andiamo in un centro commerciale?

SITE parkPrendiamo la macchina, ovvio. Ci allontaniamo dal centro storico, ci incuneiamo in quale tangenziale ingorgata, troviamo finalmente l’uscita, posteggiamo in un parcheggio grande come due campi di calcio (mi viene in mente il “Ghost Parking Lot” dei SITE, dove le macchine, calcificate, ormai sembrano reperti archeologici), quasi sempre lontanissimo dall’ingresso, camminiamo in mezzo a tonnellate di lamiere per raggiungere finalmente l’entrata e poi finalmente dentro… camminiamo. Per ore. Camminiamo come fossimo per strada in un finto centro storico, kitsch fino all’inverosimile. Camminiamo per false piazzette, ci fermiamo a prendere un caffè in finti dehors, acquistiamo cose in pseudo negozi arredati come fossero finto-antichi. Bella contraddizione. Poiché non si può andare in macchina nel vero centro storico a comprare cose nei veri negozietti e prendere un caffè negli autentici bar delle vere piazze antiche, preferiamo prendere la macchina per andare in un luogo falso dove non facciamo altro che camminare come fosse autentico. Puro surrealismo.

I negozianti dei centri storici o sono miopi o forse fingono di non vedere che se la gente va nei centri commerciali è per colpa della politica della grande distribuzione che abbatte i prezzi e fa concorrenza sleale, mica perché la gente non ha voglia di camminare. Se esistessero politiche commerciali differenti, capaci di proteggere la vendita al dettaglio, se si riuscissero a ideare tecniche innovative e concorrenziali da parte delle associazioni di commercianti, l’intera categoria potrebbe vivere di rendita di posizione. La pedonalizzazione dei centri storici, là dove abbiamo depositato la nostra identità comunitaria, dovrebbe essere ovvia. Dovrebbe diventare un plus, non un disvalore. Certo occorre cambiare le pratiche quotidiane, inoculare nella testa di tutti che girare in macchina è da sfigati, che è molto più intelligente, per l’equilibrio psicofisico di ognuno e per la salute di tutti in generale, potenziare i mezzi pubblici, sviluppare la mobilità dolce. È proprio questo salto di paradigma la cosa più difficile da fare in un popolo in fondo pigro al cambiamento quale il nostro. Eppure questo salto è ormai improcrastinabile, se non vogliamo essere ricordati con stupore e imbarazzo (per non dire di peggio) dalle prossime generazioni.

 

(Pubblicato su L’Ordine, inserto de La Provincia di Como, il 23–03–2014, in una versione assai più breve.)

 

Print Friendly, PDF & Email

7 Commenti

  1. Eccellente riflessione.

    Non avendo l’automobile di proprietà se vado all’IKEA, al Decathlon o al Casstorama nei centri commerciali di periferia il risparmio sui prezzi e la comodità di avere tutto lì insieme sono bilanciati dal procurarmi la vettura (noleggio, car sharing) e pagarla.

    Sulle ZTL come Area C a Milano, uno dei loro prodotti più interessanti sono i dati sugli spostamenti. Per questo è importante rispettare l’esito del referendum milanese che ha chiesto l’estensione di Area C alla cerchia della 90-91. Già solo i dati di Area C in mano al Comune spiegano che tipo di spostamento interessa il centro della città e come questo sia marginale rispetto alla maggioranza dei cittadini milanesi (sottolineo: cittadini milanesi).

  2. e qualche volta le cattedrali le guardiamo persino dalla macchina….senza scendere, a che serve in fondo? Bella riflessione e belle immag
    ini. Ciao

  3. Eccellente analisi: il cammino da fare è ancora lungo e quella dell’automobile è una vera e propria ideologia, basterà ricordare l’attacco di Fabio Fazio a Pisapia per aver osato proporre una domenica al mese senza automobili l’anno scorso, ancor più grave perchè Fazio, per chi ci crede naturalmente, nel nostro spettacolo rappresenta la parte civica e colta…

  4. Concordo con questa buona riflessione. Vorrei aggiungere solo alcuni punti:

    – Sull’aneddoto iniziale: penso che una riflessione sull'”invisibile” come quella che tu proponi non sia utile solo in questo caso, ma dovrebbe di fatto penetrare come paradigma nella testa di chiunque si occupi di “scienze umane” (qualunque cosa una tale dicitura possa significare). Un aneddoto simile che a me ha colpito moltissimo è stato leggere del “grande internamento” nel libro di Foucault sulla follìa: ampie percentuali della popolazione di Parigi, e non solo, private nel ‘600 della libertà senza nessun processo e sottoposte a torture solo in quanto “irragionevoli”, “bizzarre” o “senza lavoro”. Eppure all’epoca – proprio all’alba dell’illuminismo, non certo nell'”oscuro” medioevo – il tutto sembrò razionale.

    – Sull’imporsi del paradigma automobilistico: va assolutamente da sé che esso non si fonda su una sua intrinseca razionalità – o per lo meno che la razionalità che usualmente viene portata a suo sostegno è puramente ideologico-pubblicitaria. Tuttavia non sottovaluterei l’interconnessione che questo paradigma ha con il capitalismo consumistico. Come ha illustrato a suo tempo Illich nel suo “Elogio della bicicletta”, una volta che la società sposa in maggioranza l’impiego di un mezzo capace di generare una velocità superiore ad una certa media, gli individui nella loro vita economica sono di fatto sistematicamente penalizzati se si rifiutano di sposare quel sistema. In effetti i mezzi pubblici, seppure ecologicamente migliori delle automobili, non fanno altro che sottolineare questo: il tipo di organizzazione socio-economica può cambiare, ma la velocità deve rimanere quella. Ciò non può non avere niente a che fare con l’idea di una creazione di valore che debba essere in “continua crescita” per permettere al lavoro di sostenere l’acquisto di quel medesimo valore (che è, mi pare, il succo del capitalismo).
    Conclusione: molte persone che in altre circostanze potrebbero vedere di buon occhio la possibilità di passare ai piedi o alla bicicletta sono nel nostro sistema pesantemente disincentivate dal farlo. Io stesso, che negli ultimi anni ho cominciato a usare molto di più la bici, spesso e volentieri d’inverno cedo alla macchina, perché la somma dei disagi dovuti al clima e alla distanza uniti a quelli dovuti all’incremento di tempo di percorrenza (disagi questi ultimi che non sentirei se l’intera nostra vita non fosse “accelerata”) mi rendono la cosa troppo pesante. Certo va da sè che, come dici tu, una politica nazionale non penosa potrebbe fare diverse cose per limitare i danni, ma il problema è oggettivamente troppo ampio e sistemico per poter essere completamente risolto con un appello ad una razionalità urbanistica.

  5. Io vivo a Londra una città dove un Italiano a sentire che per entrare in zona centrale in macchina devi pagare una congestion charge di 20 € ogni volta che ci passi credo sverrebbe. RIflettiamo

  6. Non condivido però le categorie automobile=irrazionale mobilità collettiva=razionale. Intanto perché l’uso della macchina ha motivi razionali arcinoti con cui non vi tedierò, ma soprattutto perché c’è posto nella società anche per l’irrazionalità automobilistica. Io ad esempio amo guidare, mi divertono le automobili e trovo meraviglioso spostarmi con la mia famiglia (anche) in macchina. Non mi serve l’auto perché i miei spostamenti quotidiani sono a piedi e in bici, e quindi non ne possiedo una. Quando capita e serve la noleggio.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Il venditore di via Broletto

di Romano A. Fiocchi
Sono trascorsi molti anni ma mi ricorderò sempre di quel giorno gelido di fine gennaio in cui lo incontrai. Lavoravo come fotoreporter da circa tre mesi, mi aveva assunto in prova l’agenzia Immaginazione.

Il cuore del mondo

di Luca Alerci
Vincenzo Consolo lo incontrai, viandante, nei miei paesi sui contrafforti dell’Appennino siciliano. Andava alla ricerca della Sicilia fredda, austera e progressista del Gran Lombardo, sulle tracce di quel mito rivoluzionario del Vittorini di "Conversazione in Sicilia".

Apnea

di Alessandro Gorza
Era stata una giornata particolarmente faticosa, il tribunale di Pavia l’aveva chiamata per una consulenza su un brutto caso. Non aveva più voglia di quegli incontri la dottoressa Statuto, psicologa infantile: la bambina abusata coi suoi giochi, i disegni, gli assistenti sociali e il PM, tutti assieme ad aspettare che lei confermasse quello che già si sapeva.

Spatriati

Gianni Biondillo intervista Mario Desiati
Leggevo "Spatriati" e pensavo al dittico di Boccioni: "Quelli che vanno", "Quelli che restano". Il tuo è un romanzo di stati d'animo?

La fuga di Anna

Gianni Biondillo intervista Mattia Corrente
Mi affascinava la vecchiaia, per antonomasia considerata il tramonto della vita, un tempo governato da reminiscenze, nostalgie e rimorsi. E se invece diventasse un momento di riscatto?

Una vita dolce

Gianni Biondillo intervista Beppe Sebaste
"Rompere il ricatto della trama": credo di non avere mai fatto altro da quando ero un ragazzo. Da una parte perché sono sempre stato dalla parte di chi trasgredisce, e la trama è sempre, anche graficamente, un’uniforme e una messa in ordine, un ordine del discorso.
gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: