Un poeta russo del sottosuolo
traduzione e nota* di Elisa Baglioni
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Per irrompere con un folle discorso diretto.
Per liberarsi d’un fiato.
Non filtrare parole.
Non fasciare d’ovatta.
E non ardere come il fuoco fatuo della pratica intellettuale.
No, non sono di grande valore culturale.
Non sono un uomo di cultura.
Sono un uomo di nostalgia.
Oh, nostalgia.
Mia unica arma.
Eterna vibrazione,
che fa crepa, da lungo attesa,
sul mattone dell’esistenza
[Da Sesta raccolta, 1986]
*
A chi parlo?
– Chi siete voi, scuri, asciutti, come composti
di immortale materia sumera?
Non siete abitanti, né gente voi, chi siete mai?
O spiriti senza corpo voi siete, senza volto?
Nel mare morto stagnante putrido
si raccolgono i rivoli sottocutanei.
Oscurità egizia, miscuglio incorporeo.
– Né spiriti, né vostri. Noi siamo di nessuno.
*
Lì nella notte già aleggiava il fumo.
Il villaggio si è scoperto in sintonia:
i secchi incatenati
i tubi difettati
i rubinetti bloccati
Soprattutto, l’acqua sotto chiave.
Un deserto. Ma il vento a favore, guarda caso,
spinge il fuoco dagli abeti in cenere.
Il giallo si nasconde dietro un fumo bigio,
un gas velenoso, questo è,
non hai speranza di fuggirne illeso.
Un lavoro pulito.
L’inferno eccolo qui,
a un metro da noi.
*
Villa Giulia
Cosa è rimasto?
Soltanto cocci, tavolette.
Lamine d’oro iscritte
su cui sono incise spunte:
invisibili linee informano
di vittorie o spese di tritatura.
Oppure treppiedi bronzei.
Bestie, uomini sbirciano nella pentola.
Cosa gorgoglia?
Cosa bolle e fuma?
Quello che noi mettiamo ora?
Il tempo è andato in cenere,
e assale i colli di leone e di grifone,
spuntati dalla pentola,
di un lezzo rituale.
[A un metro da noi, 2004]
*
Se tra noi non c’è chi vi somigli,
rivolgetevi ai pesci e ai molluschi,
rivolgetevi ai gusci di fiume,
dite loro in nuovo russo,
nella tremenda lingua ignota,
come stare al mondo la prima volta.
Noi non vi sentiamo: solo i pesci
chiudono il melmoso legame.
Noi non possiamo, loro potrebbero,
tornando alla memoria cellulare.
*
Come ci si rivolge alle cose ultime,
io mi rivolgo agli alberi-vertebre
ai licheni argentati, agli equiseti:
Voi alberi ed equiseti!
Noi non siamo di nessuno,
mentre voi ci avete portato
i mantelli mimetici di qualcuno.
Siete voi, forse, l’unica difesa.
Succede, rispondono, non essere duro.
*
Non è ora, dì? Non è ora.
Dico di quelli la cui vita sorda
e breve è umida.
Si allunga, senza asciugarsi,
tra i lumaconi, i vermi.
La società che vive nella fossa
sotto terra, tra le radici,
strisciando si apre la strada.
È un ordine inferiore, infimo.
Eppure entrare non è dato,
perché guasteremmo tutto.
*
E urla agli uomini Košej l’immortale:
perché l’acqua non si fa bollente?
e non riesci a scaldarti tra le cose calde?
Le cose calde si fanno più fredde,
i giorni più brevi, le notti sempre più lunghe.
Impossibile rassegnarsi.
Le cellule prossime alla coscienza sono vuote.
Solo gli sciacalli ululano, con le code alzate,
negli angoli estremi del serraglio mentale.
*
Ecco una nuova, pare, lezione:
una parlata adolescente moscovita,
che non si aspetta danno improvviso
da qualcuno,
né tuono, né colpo di pistola.
Ma come nutrirlo in palma di mano
senza veleno aggiunto,
quando per i nostri figli,
siamo come porte, scardinati,
siamo finestre, frantumati.
[Da Massa diffusa, 2008]
*
Da Lungo la linea d’ombra di Elisa Baglioni
Cosa è stata la poesia russa negli ultimi decenni del periodo sovietico e cosa è giunto fino ai nostri giorni? Forse qualcosa di duttile e allo stesso tempo resistente, in grado di sopravvivere a un sistema monolitico prima, e agli improvvisi sconvolgimenti poi.
La pressione della cultura sovietica sulla letteratura aveva determinato una graduale migrazione degli scrittori verso una silenziosa e quanto mai operosa catabasi. Dalla fine degli anni Cinquanta si creò un canale clandestino, una macchina del sapere complessa e organizzata che comprendeva incontri, letture, seminari, e la stampa autoprodotta, il cosiddetto samizdat. Questo sistema conobbe la sua forma più compiuta negli anni Settanta, proprio quando la politica operava un giro di vite. L’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 segnava solo l’inizio di un irrigidimento delle posizioni politiche e ideologiche dell’URSS, destinando il paese alla stagnazione economica ed esistenziale e a un declino delle illusioni di cambiamento.
In questo sottosuolo si scoprono le radici della biografia esistenziale e poetica di Michail Ajzenberg. (…) Ajzenberg non è solo uno dei maggiori poeti viventi russi, ma è anche l’interprete critico della nuova poesia russa, avendo avviato una riflessione estetica e storica fondamentale sul ruolo della letteratura contemporanea del suo paese. Di questa vasta produzione critica proponiamo in traduzione due interventi. (…)
Se volessimo cogliere due elementi fondativi delle poetiche non-ufficiali – ma le direzioni sono molteplici e le generalizzazioni hanno sempre un carattere arbitrario – potremmo individuarli nello sforzo di dialogare con la tradizione poetica degli inizi del Novecento, da un lato, e nell’esigenza di agire sul piano sociale (e politico) della lingua, che la retorica sovietica aveva svuotato di senso. Per quanto riguarda il rapporto con la tradizione bisogna dire che l’esperienza modernista, repressa dalle politiche culturali sovietiche, e l’isolamento in cui i poeti si trovavano negli anni Settanta rendevano impossibile il ritorno a un’affiliazione diretta. Potevano essere recuperati solo frammenti di quel discorso. Il secondo aspetto, ovvero la necessità di denunciare e rivitalizzare il linguaggio, si manifesta in Ajzenberg nell’uso continuo di una lingua comune innestata nella dizione poetica. Rispetto ai suoi amici Concettualisti, che trasformano la pomposa retorica sovietica in un carnevale del linguaggio, Ajzenberg è sicuramente più misurato. Ciò che realizza, sia a livello lessicale che intonativo, è un’oscillazione tra la forma poetica e la qualità spontanea del discorso, da cui l’uso frequente di interiezioni, esclamazioni e particelle introduttive del discorso.
La vocazione per una poetica dell’associazione di idee è in Ajzenberg così vigorosa da spingerlo, al pari di Mandel’štam, alla creazione di immagini dense, impreviste ed enigmatiche. Egli è vicino alla gravità dei Quaderni di Voronež – scritti da Mandel’štam durante il confino nella città russa di Voronež –, al lessico compromesso dai “sovietismi” e a quell’uomo ridotto a un “prestito di polvere” (zaemnyj prach), che nell’universo da camera di Ajzenberg diventa la parola più quotidiana e corporea “pyl’” (“polvere”), priva del rimando biblico e teologico presente nel termine prach (le ceneri, le spoglie mortali). L’universo di questo poeta contemporaneo non è digiuno di accenti spirituali, ma l’anima, figura che ricorre spesso nei versi, è sempre in un ambiente terreno, come quando attraversa i gironi del regno animale, mescolandocisi. Dalla vita non si fugge sulla terra, sembra volerci dire, ed è da questa prospettiva che la lirica pone le sue domande. Gli ambienti esplorati sono il quotidiano urbano, gli interni d’appartamento – di un appartamento sovietico in condivisione, ad esempio, come nella poesia Per due anni ombre tenaci in casa… Non poteva mancare, cara a ogni poeta russo, la natura. Come Pasternak anche Ajzenberg è poeta delle intemperie, ma per il secondo il tempo meteorologico e l’ordine naturale rispecchiano la degenerazione dell’essere umano, non offrono salvezza, né una forza primordiale cui appigliarsi. Anch’essi sono imbrigliati in un ordine (sociale), incatenati in una struttura, corruttibile e fallibile.
* [Michail Ajzenberg, Poesie scelte (1975-2011), a cura di Elisa Baglioni,Transeuropa, Massa, 2013.]
per chi legge il russo alcuni altri versi, con testo a fronte: http://www.attimpuri.it/2013/07/azioni/martedi-16-luglio-a-modo-infoshop-bologna/