Tempo e storia sullo scaffale dell’eterno presente
di Claudio Vercelli
Sulla natura del tempo che stiamo vivendo, più ancora che sulla sua qualità, parrebbe di potere dire che siamo oramai calati in una sorta di eterno presente. Un tempo che è senza storia, se non altro perché essa presuppone non solo lo sguardo rivolto all’indietro, ovvero a ciò che è stato, ma anche e soprattutto la fiducia verso quello che potrà essere. La storia, come racconto di un’origine comune, condivisa, accetta, e come tale anche però demitologizzata, si sfarina dinanzi all’atto d’imperio di un presente che, nel dichiarare impraticabile l’idea di un tempo a venire (se non come foriero di dubbi e angosce) lo sostituisce con un «qui ed ora» che sembra essere l’unica dimensione plausibile non solo delle relazioni umane ma anche dell’identità individuale.
Il «principio-speranza», da sempre connesso al bisogno di un mutamento che non sia la sola somma di ciò che si subisce ma di quanto invece si riesce a gestire, si azzera, venendo così sostituito dall’orizzonte della sopravvivenza, basata sullo schiacciamento del quotidiano ai bisogni del momento, al loro immediato soddisfacimento, ovvero ad una logica di pura reattività. Che non è il ritorno del belluino ma, più banalmente, il trionfo della reificazione: alle trasformazioni e alle smagliature che la coesione sociale subisce si alternano e si contrappongono i falsi rimedi di un rifugio proprio in ciò che ci viene a mancare, ossia la capacità di un agire per il consumo come unico e ultimativo modo di essere delle individualità. Si tratta di un elemento, quest’ultimo, che ha forti riversamenti sul piano antropologico, giocando sulla perdurante dissonanza tra attesa e delusione come esclusivo orizzonte del divenire. Un tempo della frustrazione ma anche dell’espropriazione, in altre parole. Non data ad oggi, va da sé, ma assume adesso connotazioni esasperate, soprattutto dal momento in cui si incontra con le fantasie dell’incapacità, dell’impotenza, dell’impossibilità – le une e le altre sempre più crescenti -, creando un dissidio radicale nell’individuo tra il dover essere (l’elemento prescrittivo dell’ordinamento sociale) e il non potere essere (il dato oggettivo della condizione di perdita di controllo su di sé).
Dal mutamento che stiamo attraversando, da tanti vissuto come declassamento sociale a causa del depauperamento economico, ne usciremo quindi trasformati anche su un piano cognitivo. Le coordinate abituali stanno saltando, in altre parole. Se lo spazio si è contratto, essendo praticabile, in potenza, ovunque e comunque (e però divenendo – del pari – condanna per coloro che non possono varcare la soglia della loro perifericità), il tempo si sta avvolgendo su di sé, con imprevedibili effetti. Credo che al riguardo si debbano considerare più fattori. In un’età «liquida», per rifarci alla fortunata metafora di Zygmunt Bauman, la mancanza di punti di appoggio (e di approdo) rischia di scomporre il soggetto.
Al centro della temperie sta senz’altro il cambiamento di rapporto tra la soggettività umana e il lavoro. All’interno di questa relazione, storicamente mutevole per definizione, si collocano oggi una serie di elementi, accomunati dal quesito radicale sullo statuto dell’umano e sulla sua autenticità. Il modo in cui esso è risolto, attraverso un’opera di rimozione e traslazione, indica l’indirizzo che le nostre società, a sviluppo avanzato, basate su un elevato tasso di investimento cognitivo e su una diffusione capillare della merce informazione, hanno assunto. La rimozione sta tutta dentro l’incapacità di mantenere un legame tra idea ed esperienza. Come se la conoscenza fosse, alla resa dei conti, pura astrazione, che si basta da sé.
La traslazione sta nello sforzo, a tratti quasi forsennato, di attribuire alla rappresentazione stilizzata una funzione supplente, ovvero esaustiva e quindi addirittura alternativa, all’elaborazione civile. L’emozione fa premio sulla riflessione, l’istante sul tempo, il momento sulla storia, la circostanza sul processo. Viviamo un tempo presente fatto di icone (del dolore), dove al fatto storico si privilegiano il significato e il valore dei simbolismi reiterati. I quali, tuttavia, rischiano di risultare vuoti esercizi. Così per Auschwitz, laddove esso, in quanto toponimo con funzione antonomastica, se fruito all’interno di logiche reificanti che inflazionano di significati un sito fisico, trasformandolo in una sorta di topos della modernità, nel tentativo di racchiudere nel suo spazio tutto il flusso (e quindi il senso) della distruzione, può vanificare la relazione strategica tra percorso storico e sua percezione dinamica, risolvendola nella scorciatoia di un «orrore estetizzato» (Dario Calimani). Più che una domanda di storia, quindi, abbiamo oggi a che fare con un’ipertrofia delle memorie individuali, declinate in tutti i modi possibili. A volere quasi sancire che solo in esse possa riposare il senso residuo dell’umano, prima ancora che della socialità, trattandosi di un calco nel quale riconoscersi, e forse adagiarsi, più che un atto di trasmissione intersoggettiva e intergenerazionale.
L’inflazione mnestica, il profluvio di «ricordi», l’eccesso di rimembranze tutti insieme diventano, se così intesi, agevolmente speculari ad altri distinti processi che, non a caso, vi si accompagnano a stretto giro. In particolare mi riferisco alla reversibilità delle versioni del passato e a quella irrisolta dialettica che si va diffondendo tra reale e virtuale. La reversibilità rimanda non solo alla concreta possibilità di opzionare tra diverse idee sul passato, quest’ultimo ridotto a una specie di format narrativo riconfigurabile a seconda delle esigenze del momento, ma anche e soprattutto alla loro assoluta equivalenza morale. Si tratta del concreto effetto di immediata sostituibilità tra concezioni completamente alternative, se non oppositive, a prescindere – quest’ultimo è il vero punto critico – dall’accettazione di un codice di comprensione e interpretazione comune. In questo caso, inoltre, non sussiste, nessun obbligo di coerenza poiché la reversibilità è un meccanismo che opera perennemente, trattandosi di scegliere, di volta in volta, così come si fa per un abito, quale sia ciò che meglio si confaccia alle esigenze del momento.
Se il revisionismo storiografico opera da sempre per una rilettura conservatrice del senso degli eventi, offrendo una chiave alternativa, ancorché spesso grossolana, nella lettura dei processi storici come prodotto dell’azione di ampi gruppi umani, il “reversionismo” azzera completamente qualsiasi prospettiva ideologica, preferendogli il bisogno del momento, l’esigenza di autoaffermazione dell’Io rispetto all’istanza della condivisione con altri da sé. La memoria, in quest’ottica, perde la sua natura di veicolo di riscontro individuale (e collettivo) per assumere invece la fisionomia di contenitore affettivo ed emotivo rigorosamente individuale. Per intenderci, nei fatti concreti, è l’operazione che un Giampaolo Pansa da tempo va facendo, riutilizzando, in chiave sospesa tra un fittizio scavo archeologico, la denuncia sensazionalistica, il clamore della “scoperta” e la sovrapposizione tra alcuni dato di fatto e uno spregiudicato giudizio di valore, di quel che resta della memorialistica neofascista, altrimenti consegnata a piccole enclave autoreferenziate.
La retorica del «vinto», intesa come la figura espulsa dalla narrazione «ufficiale», e come tale depositaria di un sapere tanto inconfessabile quanto imprescindibile, quello che metterebbe in mora il potere, è qui attiva come fattore di autoconvalidamento: in un presente i cui lineamenti sono di difficile comprensibilità, più una versione è minoritaria, scaturendo da una sconfitta storica ma ripresentandosi come il risultato di una legittima rivalsa, più si ammanta di quel vittimismo che è, oggi, una delle chiavi legittimanti della politica. Non a caso questo modo di intendere il passato è peraltro funzionale ad un «io minimo», quello tipico ad un’età della contrazione degli spazi di socialità, ad un loro sostituzione definitiva con la forma-merce, laddove questa è divenuta ossessione totale, orizzonte assoluto, anch’essa speculare a qualcosa, ovvero a quel narcisismo di massa che si esprime, soprattutto sul web, nei termini di una scrittura e di una comunicazione pervase dal bisogno imperioso di dare corso ad una sorta di autobiografia di massa.
Poiché – ed è questo un secondo passaggio capitale della questione che andiamo affrontando – la virtualità, intesa come una nuova forma di totalità, nel suo riannodare privato a pubblico, nel suo sovrapporsi all’esperienza come tale, diventa l’unico luogo di una soggettività possibile, ancorché residua. Essendo quest’ultima, tuttavia, nel medesimo tempo il prodotto ancora una volta di una versione, che si costruisce o si sceglie tra un ampio campionario di opportunità, la cui natura e durata è funzionale allo scambio occasionale che si intrattiene con gli interlocutori, e il risultato di un perenne processo di reversibilità. L’autopercezione del soggetto, in quanto agente di storia, si riduce – quindi – alla praticabilità, di circostanza in circostanza, di una certa idea di sé. A patto che essa venga però riaffermata aggressivamente, riproposta compulsivamente, rivendicata come l’unico spazio possibile per un qualche simulacro di scambio con l’altro da se stessi.
Se la narrazione è autocentrata, egotica, se ciò che si intende raggiungere non è l’ascolto ma l’essere accolti senza nessun obbligo di reciprocità, l’io ricettivo rivela però la sua immensa fragilità. Che gli deriva dal costituire lo snodo tra una sorta di piccolo delirio di onnipotenza narcisista (gli altri sono esclusivamente in funzione di me stesso) e la frattura definitiva tra autorità e sapere. Poiché il secondo, affinché non sia solo particella di informazione ma percorso di formazione, richiede d’essere vincolato alla prima, laddove questa si afferma come prodotto dell’esperienza e dello scambio biunivoco.
Oggi, in un’epoca dove l’emancipazione è quanto di meno prossimo si dia nelle biografie degli individui, la loro soggettività si esplica nell’illusorio convincimento che l’assenza di una trasmissione intersoggettiva sia il completamento di una traiettoria contrassegnata dall’assunzione della «libertà» come paradigma assoluto. Si tratta, in effetti, di un comune sentire, molto in sintonia con l’idea che il liberismo, così come il neoliberalismo, nutrono dell’autonomia degli individui. Completamente decontestualizzati dalla rete di relazioni sociali, e quindi dai concreti bisogni, di cui rimangono portatori.
L’io minimo sente senza ascoltare, afferma senza verificare, imputa senza conoscere. Fa della mancanza della relazione il suo valore aggiunto. E si elabora come «vittima», ossia in quanto titolare di un torto, non importa quale, in ragione di cui ha modellato la sua identità sociale, che si basa così non sull’accesso a diritti comuni ma ad un diritto personale, soggettivo e incedibile, al risarcimento. Il passo fatale verso una mitografia, come surrogato della storia, è un rischio che non può essere risolto solo con la buona volontà. L’eccesso di immagini non produce una maggiore immaginazione ma una cristallizzazione dell’immaginario collettivo, che perde quel senso della fluidità, dello scorrere, che è alla radice del pensare storico. Non è un problema di spessore storiografico, peraltro, rimandando semmai alla rigerarchizzazione dei rapporti sociali che da diversi anni è in atto, nel nome, per l’appunto, di una libertà liberista senza opportunità, diritti e risorse. Laddove, per inciso, il più forte celebra la sua potenza, mentre al più debole è assegnato il ruolo, per l’appunto, di io minimo, che si celebra nella sua futile marginalità.
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“Il tempo non esiste, è solo una dimensione dell’anima. Il passato non esiste in quanto non è più, il futuro non esiste in quanto deve ancora essere, e il presente è solo un istante inesistente di separazione tra passato e futuro.”(cosi` Sant`agostino,come mi ricorda in queste ore Hans Tuzzi:il tempo,”uno pensa di sapere cos`e`,ma quando deve spiegarlo…”. Poi entro anche in argomento,tranquilli)
“… mentre al più debole è assegnato il ruolo (…) di io minimo, che si celebra nella sua futile marginalità.” Condivido, e uso chiamare tali pratiche “enfatizzazione dell’insignificanza”.
E’ l’aspetto che più m’intristisce di questa nostra a-storica condizione.