Alain Resnais e la Nouvelle Vague.
di Carlo Carlucci
Finivamo il liceo, si superava il Manzoni (ma non il Leopardi) e il D’Annunzio fastoso con Ungaretti e Montale letti alla macchia, non per obbligo scolastico grazie a Dio. Quanto alla prosa, vi erano state le onnivore letture a partire dai primi anni delle elementari ma mancava un ipotetico, difficile ubi consistam per la prosa. Moravia, Pasolini, Pratolini? Oscuramente qualcosa ci diceva di andare oltre, ma dove, ma come?
In questa attesa, in questa ansia del nuovo arriva l’esplodere di Resnais e della Nouvelle Vague attraverso il meccanismo allora in voga del cineforum. Nella piccola e chiusa provincia dove vivevo, Trento, il cinema sociale interrompeva la sequela dei film in programma per regalare a noi patiti del nuovo dieci giorni di proiezioni seguite immancabilmente da discussione o dibattito che sia. Qualcosa di sconvolgente e nello stesso tempo di coinvolgente dentro l’atmosfera chiusa della piccola città. Al termine di quella pausa o astinenza per il pubblico ‘normale’ e riprendendo il Cinema Sociale le normali rappresentazioni con ‘Ben Hur’, colossal americano, uno spettatore soddisfatto dell’abbuffata nell’uscire dal locale fu udito esclamare:’ Finalmente un film che pone e risolve un problema!’ Già perché il non tirarci fuori la cosiddetta morale o conclusione che sia era un po’ il nuovo credo artistico. E proprio in quegli anni (1962) Umberto Eco usciva col suo ‘Opera aperta’ a giustificazione della nuova tendenza.
Sia Resnais sia i cineasti della Nouvelle Vague (che provenivano dai Cahier du Cinema) improvvisamente venivano ad operare una radicale rottura coi moduli narrativi tradizionali sia del cinema sia della narratio romanzesca. La longevità creativa di Resnais si può spiegare in vario modo. Innanzitutto con la sua flemma che non ammetteva discussioni a costo di apparire distante e anche soverchiante. In secondo luogo egli si serviva e sapeva servirsi, di volta in volta, di uno scrittore ad hoc che lavorava attorno al copione. In quel corto terribile dedicato ai campi di sterminio nazisti si era servito di uno scrittore che vi era stato deportato e il risultato è sconvolgente.
Marguerite Duras nata e cresciuta in Indocina, autrice assolutamente ribelle a qualsiasi classificazione fu colei che lavorò alla stesura del testo di ‘Hiroshima mon amour’, film che irruppe come novità assoluta e sovvertitrice dentro l’operoso quasi soporifero tran tran dell’Italia. Per tanti giovani (io avevo 18 anni) i tanti temi mescolati dalla sapiente mano del regista, la Bomba orrenda, la distruzione, la tragedia collettiva, la relazione affettiva fra un giapponese e un’europea, il sesso, i silenzi, le incerte, a tentoni prese di coscienza fra i due apparvero come vera e propria epifania sovvertitrice.
Il passo successivo ‘L’anno scorso a Marienbad’ vedeva all’opera un altro scrittore, quel Robbe-Grillet teorico del Nouveau Roman e fondatore della cosiddetta école du renard che rifiutava il romanzo tradizionale e la sua presunta mimesi del reale. Il ricordo che ancora ne porto è di una sontuosa, geometrica e in definitiva assolutamente algida anzi glaciale perfezione formale. Davide Montemurri che vi ebbe una parte ricorda la distanza che il regista frapponeva fra sé e gli attori, quasi temesse una possibile, deprecabile, invisa contaminatio. M era in definitiva il necessario distacco che il regista si imponeva e imponeva presagendo quella lunghissima, inalterabile, incredibile creatività au but du souffle.
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Du regard, l’école intendo.
Anche se Renard mi piace ugualmente, rammentandomi il Maestro Argentino.
mi chiedo che senso abbia pubblicare su n.i., come accade sempre più spesso, degli articoli (si fa per dire…) pieni di refusi e strafalcioni assortiti, scritti in una forma sciatta e sgarrupata che fa a pugni anche con la più fantasiosa e improbabile ipotesi di architettura sintattica
e, oltretutto, senza nemmeno rileggerli prima dell’invio, come se il redattore incaricato non vedesse l’ora di toglierseli dalla uallera e di scaricarli sull’incauto lettore
ma forse mi sbaglio, e non ho capito che siamo di fronte all’ultimo ritrovato della sc/f/rittura di ricerca: il post “sperimentale”
auguri
Sembrano storie di un mondo interessante, che io mai non vidi (nè forse avrei mai potuto).
Ultimamente sto subendo il fascino della nouvelle vague, che non ho mai approfondito (ho soltanto visto Au bout de souffle, molti anni fa). Qualcuno potrebbe consigliarmi da dove cominciare?
Se Hiroshima mon amour, per le riprese a volo d’angelo dei luoghi devastati, delle macerie,(che andranno poi a influenzare anche Il cielo sopra Berlino), per quella bellissima e delicata voce fuori campo (la mano della Duras si sente e funziona) e per la tecnica del flashback, è certamente un capolavoro, una cosa che non riesco a spiegarmi, da spettatore, è invece il successo critico de L’anno scorso a Marienbad: un film così pervaso di intellettualismo, invedibile, anche con il massimo impegno, invedibile; un film troppo parlato, dove l’intervento del romanziere, del teorico, ha fatto solo danni (tutto il peggio avrà il suo apice poi nella regia diretta di Robbe-Grillet de “L’uomo che mente”) e dove la teoria serve solo a impedire la fruizione del normale spettatore; quella irritante voce fuori campo, come un inno all’aristocrazia e alle sue convenzioni, ai suoi usi e costumi, ai suoi stucchi, alle sue statue. Mi verrebbe da dire: un film per critici. Quando i discorsi teorici, quando le strutture formali sono così fini a se stesse da impedire la visione, allora c’è qualcosa che non funziona. Scusate ma è molto meglio il parlato handkiano del Cielo sopra Berlino, quello è un capolavoro, scusate ma io continuo a non capire perché L’anno scorso a Marienbad sia così osannato. E non capisco come un ragazzo normale abbia potuto, incolpevolmente, inginocchiarsi a quei meccanismi formali così esposti da fare addormentare, come abbia potuto, gratuitamente, accogliere tutta questa impalcatura intellettualistica e gioirne. Ma in quello stesso anno uscirono puri capolavori del cinema italiano come Accattone, come Il posto, come La notte: c’era bisogno di andare fino in Francia per trovare punti di riferimento? Si guarda un film per pensare, per svagarsi, per vedere meglio il mondo o per confermare le teorie di una scuola?
E’ parzialmente vero….E’ la grande intelligenza francese, algida nel fondo. Cionondimeno a un giovane di allora, alla ricerca di andare oltre i canoni ‘di allora’, chiuso dentro una chiusa provincia fra i monti trentini, Hiroshima mon amour fu rivelatore, come tutta la tendenza della nouvelle vague lo fu: Au but du souffle, Les 400 coups di Trouffaut, il bellissimo (allora) Cleo dalle 5 alle 7…
NI nel ricordare Resnais ripresenta il corto sullo sterminio girato ad Auswitz (o come si scrive)con musiche (l’algido ma perfezionista Resnais….)anni ’50 e sulla scorta di un dolorosissimo scenario preparato da uno scrittore ex deportato in quanto ebreo. E’ documento tra i più sconvolgenti sullo sterminio.
I film della Nouvelle Vague in definitiva, per noi giovani allora, ci traghettarono (molto più del ricordato Pasolini) più e meglio ( superbo lo Jules et Jim)dei romanzieri….dove? Finita quella in certo modo magica stag
ne filmica, finì anche quell’interesse assorbente verso i film. Ma questa è solo una posizione personale.