Scampolo d’estate

turner 7

di Luca Ricci

Quello stabilimento balneare per famiglie non era più nel pieno delle sue attività per due motivi: si avvicinava settembre ed erano le due e mezzo del pomeriggio. Chi non stava facendo un sonnellino sulla sdraio era indaffarato a fissare catatonico il mare piatto come una tavola. Rosa, una bambina di quasi otto anni, tirò un calcetto sullo stinco del nonno: «Detesto il mio nome».

Il nonno guardò la nipote e poi, poco più in là, il gioco d’ombra che il profilo degli ombrelloni disegnava sulla rena.

«Detesto il mio nome», insisté Rosa. «Lo detesto.»

Il nonno rimase con gli occhi incollati alla linea ondulata che separava il solleone dall’ombra ancora per qualche istante. Pensava che tra poco anche quell’estate sarebbe finita, i pattini sarebbero stati tirati via dalla riva e le cabine chiuse con delle assi di legno. Poi, lentamente, si girò verso la bambina.

«E perché mai lo detesti?» domandò.

«Perché è anche il nome di un colore.»

«E con questo?»

«Mi piacerebbe un nome che indicasse soltanto me,» concluse Rosa, con tutto l’astio capriccioso dei suoi quasi otto anni.

Il nonno scrollò la testa vistosamente. I capelli se n’erano andati quasi tutti tra i trenta e i quarant’anni, e quindi aveva avuto tempo a sufficienza per farsene una ragione e per superare il trauma della calvizie, cosa che altri suoi coetanei invece cominciavano ad affrontare soltanto adesso.

«Quel che è fatto è fatto,» disse sorridendo alla nipote. «Mamma e papà non possono più cambiartelo.»

Rosa rovesciò con un piede un secchiello pieno d’acqua accanto alla sdraio: quello era il modo che aveva trovato per protestare.

«E poi sai cosa ti dico?» proseguì il nonno. «Il rosa è un bellissimo colore, anzi il più bello che ci sia.»

«Vorrei qualcosa di più originale.»

«Del tipo?»

«Arancione, ad esempio.»

Il nonno pensò all’estate come a una specie di capodanno diluito nell’arco di tre mesi. Ma forse quella definizione non andava più bene per lui. Dopo una certa età che cosa restava? Qualche partita a carte, e poi le uscite in bicicletta. Lo metteva di buon umore, di tanto in tanto, osservare la durezza ancora perfettamente integra dei suoi polpacci.

«Vorresti chiamarti così? Signorina Arancione?» chiese infine alla nipote.

«Perché no?»

Il nonno provò a considerare la cosa con serietà: «E allora perché non Signorina Blu o Signorina Verde?».

Rosa sorrise, pareva elettrizzata da quelle proposte.

«Ma sono brutti nomi,» riprese il nonno. «L’originalità non è bella per forza. Non credi?»

Rosa ricacciò il breve accesso d’entusiasmo dentro uno sguardo crucciato.

«La verità è che tutti i bei nomi indicano anche un colore,» cercò di concludere il nonno. «Pensa a Viola, o Azzurra o Bianca.»

Nel frattempo all’ingresso dello stabilimento stava succedendo qualcosa. Da lì, vicino al mare, non si capiva bene. Ma era cominciato un viavai strano subito dopo le rastrelliere per le biciclette e le aiuole fiorite, un movimento anomalo considerata anche la fiacca del primo pomeriggio.

«Pensa a chi si chiama Viola, o Azzurra, o Bianca. Loro mica si lamentano come te», ribadì il nonno.

«Ma io sono io», sbuffò Rosa.

Il nonno le prese tra le dita un ciuffo di capelli: «Anche questo è vero».

«Allora mi dai ragione?»

«Te la darei,» ammise il nonno. «Ma senti un po’, vuoi sapere la verità?»

Rosa fece di sì con la testa.

«Beh, la verità è che adesso devo andarmene a sgranchirmi un po’ le gambe.»

Rosa parve molto delusa dalla verità del nonno. Guardò in direzione dell’orizzonte e poi, proprio nel momento in cui stava per voltarsi verso l’ingresso dello stabilimento, il sole la colpì dritto in faccia. Decise allora di afflosciarsi sulla sdraio per qualche istante prima di correre a perdifiato sulla riva. La sua intenzione era chiara: seminare il sole, o quantomeno giocarci ad acchiappino.

 

Il nonno invece proseguì fino all’ingresso. A quanto pareva tre nudiste s’erano intrufolate nello stabilimento approfittando del momento di torpore generale. C’era una caletta non lontano da lì, di cui solitamente le famiglie parlavano sottovoce, frequentata proprio da amanti del naturismo. Quelle tre però avevano sistemato i loro teli davanti alle cabine, in una zona in prossimità delle docce, e avevano tutta l’aria di essere un po’ brille e su di giri. Il nonno si mise a guardarle insieme a qualche altro uomo che, esattamente come lui, aveva lasciato il proprio ombrellone per andare a constatare di persona cosa mai stesse succedendo. Ridacchiavano e si davano di gomito l’un l’altra, avevano proprio l’aria di essere fuori di testa. Con ogni probabilità la sera prima avevano acceso un fuoco sulla lingua di sabbia della caletta e trascorso la notte a gozzovigliare. E in un modo o nell’altro adesso erano arrivate fin lì. Magari proprio per cercare di scandalizzare i normali, quelli che al mare ci andavano in costume, o forse soltanto un passo dopo l’altro, spinte dalla voglia d’avventura e dall’incoscienza. Non erano brutte ragazze benché quell’atteggiamento spavaldo facesse perdere loro un poco di femminilità. Ma erano pur sempre nude, totalmente nude. A un certo punto una divaricò le gambe, le spalancò completamente, quasi in segno di sfida. Non si capiva se nei confronti delle amiche o degli uomini che, nel frattempo, erano sensibilmente aumentati di numero. Il nonno riconobbe anche uno dei responsabili e un bagnino. Eppure nessuno diceva niente, nessuno impediva alle nudiste di fare quello che stavano facendo. Così lo spettacolino proseguì ancora per qualche minuto. Il nonno non capì bene chi tra gli uomini partì per primo. Non ci fu in effetti molto tempo per capirci qualcosa. In pratica le ragazze erano state attorniate e in quella maniera qualcuno si sentì sufficientemente protetto e quasi autorizzato dagli altri a sdraiarsi insieme a loro. Non ci fu una fase preliminare dalla quale qualcuno avrebbe potuto capire che la situazione sarebbe trascesa. Le ragazze se ne stavano a gambe aperte e sembravano voler dire: «Ce n’è per tutti qui». Visto quello che stava succedendo il muro degli uomini istintivamente cercò di compattarsi ancora di più. La maggior parte di quelli che non erano rientrati a casa a schiacciare un pisolino stava ancora dormendo sotto l’ombrellone, quindi in un certo senso sarebbe bastato limitare gli schiamazzi e la confusione. Quando una signora, una habitué dello stabilimento ben nota anche al nonno, si prese la briga di fare capolino molti credettero che sarebbe partita immediatamente una chiamata alla polizia. Era la classica signora di mezza età che, pur non disdegnando di riuscire ancora attraente (indossava un pareo molto elegante che le fasciava i fianchi), abbassava immediatamente gli occhi o inforcava gli occhiali da sole quando le capitava di sentirsi addosso lo sguardo di un uomo. Eppure al cospetto di quella scena non indietreggiò di un passo, e non si lasciò scappare neanche una frase di disapprovazione. L’unica cosa che riuscì a dire fu: «Schifose». Il nonno a quel punto si girò in direzione della riva. Avrebbe dovuto tenere d’occhio la nipote, in fondo gliel’avevano affidata solo per il primo pomeriggio: un compito facile da portare a termine, se non fosse successa quella cosa assurda. Rimase qualche istante incerto sul da farsi, poi trotterellò a malincuore in direzione del mare.

 

Rosa stava disegnando sulla sabbia indurita e idratata dalle onde il suo nome con un piede.

«Vedi?» disse al nonno appena lo vide. «Il mio nome non piace neanche al mare.»

«Perché?»

«Altrimenti non lo cancellerebbe.»

Il nonno guardò la nipote, ma senza farsene accorgere anche l’ingresso dello stabilimento. Cercava di fare del suo meglio per tenere disperatamente sotto controllo tutt’e due i fronti.

«Guarda laggiù,» osservò Rosa fissando l’orizzonte. «L’estate è finita.»

Effettivamente il colore del cielo in un punto ancora lontano ma già visibile, quasi a pelo d’acqua, si stava scurendo come se qualcuno avesse squarciato un tendone.

«Sai che ti dico Rosa?» fece d’improvviso il nonno.

«Cosa?»

«Che hai ragione tu. Se il tuo nome non ti piace perché dovresti tenerlo? Per quali stupide convenzioni uno non può scegliersi il nome che vuole?»

«Posso cambiarlo?»

Il nonno annuì molto velocemente con la testa. Adesso sembrava avere fretta, una fretta terribile.

«Ma tu prima avevi detto che non potevo,» osservò Rosa aggrottando le sopracciglia.

«Sbagliavo.»

«E papà e mamma non avranno nulla da ridire?»

Il nonno guardò precipitosamente in direzione dell’ingresso dello stabilimento. Era successo qualcosa? Le avevano fatte smettere, magari rivestire?

«Perché non decidi il tuo nome nuovo e poi non lo scrivi sulla sabbia?» propose alla nipote.

«Però le onde mi cancellerebbero anche quello nuovo.»

«Ok, tu intanto sceglilo, io torno subito.»

Il nonno percorse ad ampie falcate la distanza che separava la riva dall’ingresso dello stabilimento. Il capannello di persone era ancora lì, e anche le tre nudiste ormai completamente sopraffatte e forse anche incredule e spaventate rispetto a quello che avevano innescato. Il nonno ricominciò a osservarle: non ne aveva puntata nessuna in particolare, sarebbe sceso semplicemente sulla prima disponibile, la prima che si fosse liberata. Ci pensò su ancora un istante e poi si fece largo tra gli uomini. Appena inginocchiato l’avvolse subito un odore molto intenso di genitali, crema doposole e sabbia intrisa di sudore. La ragazza che aveva sotto se ne stava immobile, con gli occhi socchiusi e le labbra tremolanti. Forse sussurava qualcosa. In ogni caso parole straniere di cui non avrebbe saputo stabilire il significato. Alzò la testa giusto il tempo per rendersi conto che stava temporeggiando troppo. Per un momento ebbe il timore che quel raptus l’avesse abbandonato. Per un momento pensò anche dall’altra parte della spiaggia, con ogni probabilità, sua nipote si stava scegliendo un nome nuovo. E chissà quale mai avrebbe scelto di darsi. Ma doveva muoversi, non c’era più tempo da perdere. Fece leva sulle braccia come per prepararsi a uno scatto.

Poi sentì i polpacci da ciclista indurirsi, e ne fu fiero come quando si alzava sul sellino per una salita.

 

Questo racconto è contenuto nel libro Toscani Maledetti (Piano B Edizioni, 2013, a cura di Raoul Bruni), antologia che raccoglie alcune tra le migliori nuove voci della Toscana: Vanni Santoni, Pietro Grossi, Emiliano Gucci, Fabio Genovesi. 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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