Ὀδυσσεύς (Παίγνιον)
di Daniele Ventre
Χρή με φάναι μὲν ταῦτα, καὶ ἀτρεκέως καταλέξαι,
οὐ κεχρημένος ἦα θαλάσσης, εἶπερ ἔμοιγε
ἄλλο ἐπεκλώσαντο θεοὶ οἳ Ὄλυμπον ἔχουσι
θνητοί τ’ἄνθρωποι, καὶ ποντοπορεῖν μ’ἐκέλευσαν.
Ἀυτὰρ ἐγὼ νῆσον μὲν ὀρῶν κραναήν περ ἔουσαν
καί γουνοῖσ’ἐπὶ πᾶσιν ἐλαίας μῆλά τ’ἔχουσαν,
τὴν δὲ μάλιστα ἐγᾦδα φιλεῖν ἐν ἀγήνορι θυμῷ,
τὴν φρένεσιν δ’ἐν ἐμοῖς ἀγραύλων ἔργα φιλοῦσι,
νῆσον ἀρώτροισίν τ’αγαθήν γε καὶ ἄλφισι λευκοῖς,
-οὐ γὰρ ἔχουσ’ἀλιεῖς αὐτὴν οὐδ’ἴστια νηῶν-
τῇ μὴν ἀργυριᾶ τ’ἵδρως καὶ δῶρον ἀρουράς,
τῇ δ’ἐμοί ὧσπερ χρυσὸς ἔην οἶνος καὶ ἔλαιον.
Ἀλλ’ὅτε μὴν ἐς ὄρη ποτιδέρκεαι ἀντιόωντα,
δὴ τότε καὶ τόδε γ’οἶσθ’ὅτι ἔλκεαι οὖρος ἐς ἄλλο,
νήσου ἀπ’ἀμφιρυτῆς προυκλήθης νῆσον ἐπ’ἄλλην.
Εἰδώλοις μορφὴν τότ’ἐγὼ καὶ ὀνείρασι δῶκα,
καὶ νῆας ποίησα ἐυσσέλμους εὐπήκτους
εἰν ἁλὶ δ’αὖ κοιλῇς μέλαν’ἴστια νηυσὶ πέτασσα,
αὔτικ’ἀμειψάμενος βίοτον φίλον, αἶψά μ’ἔμαρψε
ἅλς ἀμελής, ᾔδειν δ’ὅτι εἰν ἁλὶ πότμον ἔνισπον,
ὡς τετελεσμένος ἔσται, ἀεὶ φρεσὶ μερμηρίζων
εἴ μοι ποντοποροῦντι ἅ ἔλπισα πάντα τελέσσει.
Αὐτὰρ δὴ πρὸ τ’ἔοισι καὶ ἐσσομένοισιν ἔοντα
συμμίχθη καὶ ὔδωρ τε καὶ ἅλμυρα θυμὸν ἔκαυσε
καὶ πάντεσσιν ὄδοισι νέα τοι ὔφανται ἀοίδα
καὶ μόρφαν ἐν ἀοίδᾳ ἀμείβετο πέρρατα γαίας
καὶ γεύσας τὰ μὴ εἶεν ἐοίκοτα ἆδύ γ’ὄλεθρος
Λευκοῖσιν δὲ πόρευσα ἐπ’ἤμασι μύδρῳ ὁμοίοις
ἡελίου, ἄνεμός τε χέρες τ’ἐρετῶν ἐκυβέρνων,
χεὶρ ἐπὶ πηδαλίου, αἰεὶ ἔχον ὄμμ’ἐπὶ πρώρην
νύκτα δι’ὀρφναίην ἐλθὼν καὶ ἐπ’ὄμμασι λεύσσων
ἄστρα τε λαμπετόωντ΄ἀργήν τε Λυκάονος Ἄρκτον,
ᾔειν ἐς πόλεμόν τε τύχην καὶ πότμον ἐπίσπον,
θυμὸν ἀτάρβητον μὲν ἔχων, ἴνα οἴκαδ’ἴκοιμι
οὐ κατὰ μαντοσύνας καὶ ἀθανάτων ἀέκητι.
Ἤλυθον ἠγαθέας τ’ἐπὶ νήσους ἠδ’ἐπ’ἔρωτας
ἄλλους θαυμασίους τε πόνους, ἐτάρους τ’ἀπέβαλλον,
νῆας ῥηγνυμένας τε -καὶ ἥματα πολλὰ μετῆλθεν
μηνῶν φθινόντων τε περιπλομένων τ’ἐνιαυτῶν.
Μνημοσύνη μίχθη καὶ λησμοσύνην παρέδωκεν.
Ποῦ δὴ Ναυσικάα, ποῦ Σειρῆνες λιγύφωνοι,
Κίρκη, τὴν ἀπέλειψα, Καλυψώ τ’; Αὖ δέ μοι αἰὲν
οὔασι φώνεε Ὄσσα μεμιγμένη ἐκλελαθόντι.
Οὐδὲ γὰρ οὐδὲ ἔειδον ἅμα πρόσσω καὶ ὀπίσσω,
ἀλλά με ἔκλαθε πηδάλιον τ’ἴστον καὶ ἐρετμόν,
ποῦ τε βόα Πολύφημος ὃν ὀφθάλμου ἀλάωσα,
οὗ ἄπο ποντοπορῶν ὑπερέκφυγα κῆρ’ ἀλεείνων.
Οὐ δ’αὖ κῆρα μέλαιναν ὑπέκφυγα κῆρ’ἀλεείνων
ἀλλ’αἰ πάντα σίγᾳ πέλεται, θάνατον μὲν ἐσέρπει
ἐκ πόντω, καὶ ἄρα γε τύχα, οὔ πῃ ἔστι δὲ λῆξις
-οἴος γάρ τοι ἔγων, τὸ πρὶν οὔ γε δὲ χεὶρ τρομέοιτο
καί τοι ἶσα θέοισι θέλον, πτέρυγές μοι ἔρετμα.
Ψευδεῖς μέν τοι ὁδοί τε θαλάσσιοι ἠδὲ κέλευθοι,
ψεύδουσιν πόντου γε πορεύματα, αὐτὰρ ἀοιδαὶ
νύκτα δι’ἀμβροσίην ὑπερέκφυγον, ὅστις ἄειδε
ἆθλα ἐμοῦ ἔπεσιν, δῶκεν κλέος ἄφθιτον αἰεί
ῤυθμοῖσιν φωναῖς τε, ἀοιδαῖς κῦδος ἕδωκε
ἀγνωτούς ὀρμοὺς τε θιγεῖν κοὐ γνωτὰ ἰδέσθαι.
[Pseudotraduzione:
Questo bisogna lo dica e lo affermi in tutta chiarezza:
io non sentivo mancanza del mare, anche se per me poi
hanno filato ben altro gli dèi che posseggono Olimpo
come le genti mortali, e vollero che navigassi.
Ecco che io rimirando quell’isola che era petrosa
e che ne aveva di olivi e di greggi sopra ogni colle,
sì, più di tutte ero conscio di amarla in quest’animo fiero
dentro il mio cuore che è amante delle opere dei contadini,
l’isola buona agli aratri, nonché alla bianca farina
(non la posseggono, no, pescatori o vele di navi):
erano là come argento il sudore e il dono del campo,
erano simili all’oro per me tanto il vino che l’olio.
Quando però con lo sguardo ti volgi a una vetta che è avanti,
ecco che allora lo sai che a una nuova vetta ti spinge,
d’isola cinta dal mare chiamato ad un’isola nuova.
Ecco che allora io donai una forma a sogni e illusioni,
e costruii quelle navi dai solidi banchi, ben fatte,
quindi alle concave navi spiegai vele nere sul mare,
subito la trasformai la mia vita, a un tratto l’incuro
mare mi prese, e sapevo che in mare inseguivo il destino,
come doveva compirsi, ma in cuore ero sempre nel dubbio,
se compirà nel mio viaggio ogni cosa come speravo.
Ma il passato si mescola insieme al futuro e al presente
l’acqua e i flutti salati nell’anima m’hanno bruciato
e per tutti i cammini si tesse una nuova canzone,
e cambiavano forma nel canto i confini alla terra,
e gustando di cose non debite dolce è la morte.
E per giornate abbaglianti e pari alla vampa del sole
quindi viaggiai, vento e braccia dei miei rematori a guidare,
mano al timone, ma sempre tenevo i miei occhi alla prua,
lungo la notte nerigna passando, e con gli occhi miravo
gli astri che splendono e sacra a Licàone l’Orsa lucente,
verso la guerra e la sorte andavo e seguivo il destino:
animo senza paura forgiai per raggiungere casa,
contro malie di indovini, a dispetto degli immortali.
Si mescolò la memoria e ci ha tramandato l’oblio.
Isole chiare di dèi io raggiunsi allora ed amori
nuovi, e mirabili imprese, e quei miei compagni li persi
e le mie navi spezzate -fuggirono via molti giorni
e declinarono i mesi, si volsero gli anni correndo.
Dove Nausicaa, dove il bel canto delle Sirene,
Circe e Calipso che indietro ho lasciate? E intanto a me sempre
pur nell’oblio, ritornava alle orecchie incerta la Voce.
E non lo vidi non più quel che unisce il prima col poi,
ma mi sfuggirono allora il timone il remo e la vela,
come gridò Polifemo che io ho privato dell’occhio,
lui, da cui io navigando fuggii, per sfuggire alla chera.
Né la nera mia chera fugii, nel fuggire la chera,
se ormai tutto in silenzio riposa e la morte serpeggia
dal mare, è maleficio la sorte e non c’è mai respiro
-solo infatti io rimango -né prima tremava la mano:
gesta degne dei numi cercai, ebbi i remi per ali.
Sono menzogne le vie del mare e così le sue strade,
mentono certo i cammini dell’onda -e così le canzoni
lungo la notte immortale fuggirono, chiunque cantasse
opere mie coi suoi versi, mi offrì gloria eterna per sempre
con i suoi ritmi e le voci, e mi diede il trionfo nei canti
sì da concedermi approdi ignoti e un ignoto mirare.]
Testo originale
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Il mare
Il mare. Il mare giovane. Il mare d’Ulisse
E di quell’altro Ulisse che la gente
Dell’Islam appellò famosamente
Il Sindbad del Mare. Il mare di onde
Grigie di Erik il Rosso, alto sulla prora;
Quello del cavaliere che scriveva
A un tempo l’epopea e l’elegia
Della sua patria, nella palude di Goa.
Il mare di Trafalgar. Quello che l’Inghilterra
Cantò per tutta la sua lunga storia,
L’arduo mare che insanguinò di gloria
Nel quotidiano mestiere della guerra.
Quell’incessante mare che nel sereno Mattino solca l’infinita sabbia.
L’oro delle tigri
http://qohelet.altervista.org/pagine/Borges_mare/Borges_mare.htm
questo post contiene qualche mistero: sembra Odissea ma non lo è, e poi perché “pseudotraduzione”? Il titolo scherzoso, giocattolo, fa pensare a qualche tuo calembour, caro Daniele, dacci qualche lume, su!
Il testo in questione è la mia retrotraduzione poetica in greco della canzone di Guccini Odysseus che ne è l’originale italiano. Le quartine di endecasillabi dell’originale corrispondono agli esametri epici. I ritornelli, che nell’originale italiano sono strofe saffiche rimate (ABAb), sono stati volutamente resi non con le saffiche, ma con esametri eolici, un verso lirico isosillabico dallo schema: XX _UU _UU _UU _UU _X (struttura che, secondo Gentili e Nagy, è alla base dell’evoluzione dell’esametro classico come noi lo conosciamo) -mi sono altresì premurato di collocare sistematicamente due lunghe nella base hermanniana (normalmente libera) degli esametri eolici, in modo da attuare una metaritmisi (struttura ritmica equivoca) fra verso lirico e verso epico, per non creare dissonanze dovute a uno stacco troppo netto nel ritmo del testo originale. L’alternanza fra esametri eolici -epica primitiva- ed esametri epici veri e propri che contaminano formule omeriche e stilemi tardo-attici ed ellenistici, mi permette altresì di restituire in greco antico un equivalente stilistico della caratteristica del testo gucciniano, che di fatto evoca tutti i livelli della tradizione odissiaca, da Omero a Tennyson. La pseudotraduzione è un’autotraduzione isometra del mio testo greco. In essa gli esametri epici sono resi con la tipica struttura costituita da un ottonario seguito da un novenario, con i tipici accorgimenti (sinalefe o troncamento in cesura, soluzione spondaica, ponte di Hermann) mentre gli esametri eolici sono versi costituiti di un settenario anapestico (con accenti di 3a e 6a) e un novenario dattilico classico (accenti di 2a 5a 8a) senza alcuna sinalefe fra gli emistichi. Si tratta di una pseudotraduzione perché è appunto una traduzione specchio quasi letterale del significato specifico del testo greco, che a sua volta riproduce il testo gucciniano nei limiti consentiti dallo stile poetico dell’epica greca.
meraviglia, Daniele, non m’ero proprio accorto, grazie assai assai.
Daniè sei un mostro
effeffe
sottoscrivo.
sottosottoscrivo
Meraviglioso! Grazie!
Very impressive. Ormai quando esco la sera mi bullo di conoscerti, Daniele.
Mo’ non esageriamo mo’ :)