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Zona d’ombra

di Nicola Fanizza

Percepire la civiltà greco-romana partendo unicamente dal suo mitico passato rimane un’abitudine tenace che è dura a morire, tanto è vero che è tuttora presente. Basti pensare all’Europa mediterranea immaginata dai teorici dell’école barisienne e da alcuni intellettuali della destra radicale. Un’entità mitica che non esiste poiché sia gli uni che gli altri confondono la rappresentazione della realtà – la sua immagine – con la realtà stessa.

Il Sud, oggi, appare come un’ombra, che, a sua volta, è coestensiva alle tenebre trasparenti che coprono il Mediterraneo, in cui signoreggiano da sempre i demoni meridiani. Il Mediterraneo assomiglia sempre più a una frontiera, che si estende da levante a ponente per separare l’Europa dall’Africa nonché dall’Asia Minore. Non è in alcun modo possibile considerare questo mare come un «insieme». Infatti, non si possono non tenere presenti sia le vecchie fratture e le antiche divisioni determinate dagli eventi storici del passato sia i recenti conflitti che lo dilaniano: in Siria, in Libano, in Palestina, in Egitto, in Libia, a Cipro, nel Magreb, nei Balcani.

Il Mediterraneo si è sempre configurato come un luogo di incontri, e, insieme, di scontri. Certo, sulle coste di questo mare hanno avuto luogo rare – ma anche significative e, a volte, preziose – coabitazioni fra culture diverse: la Sicilia normanna, la Spagna dei mori e la mitica civiltà catara. Nei porti di questo mare la «dimensione erotica» delle merci ha consentito, a dispetto delle scissioni e dei conflitti, di riannodare i rapporti fra i diversi popoli producendo contaminazioni nonché modi di essere e maniere di vivere comuni o avvicinabili. In questo senso, «i tenui prezzi delle sue merci» – dicono Marx ed Engels – sono diventate «l’artiglieria pesante con cui la borghesia abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero».

La storia di questo mare è costellata anche di scontri che hanno avuto come protagonisti sia gli Stati con la loro violenza organizzata sia gruppi di privati dediti alla pirateria. Di fatto nel Mediterraneo occidentale gli atti di pirateria – sia dei pirati tunisini e algerini sia dei corsari maltesi – sono terminati solo nella seconda metà dell’Ottocento in seguito alla colonizzazione europea delle coste settentrionali del continente africano.

La colonizzazione di quelle terre, col suo carico mostruoso di sfruttamento e di etnocidi, ha prodotto un risentimento che è tutt’oggi presente. Basti pensare all’attacco dei Senussi al consolato italiano di Bengasi del 17 febbraio 2006, in seguito alla provocazione messa in atto dal ministro leghista Calderoli. In quell’occasione, i Senussi si scagliarono contro un simbolo italiano poiché memori del genocidio compiuto nel 1930-31 dagli Italiani nei confronti del loro popolo. D’altronde, non va dimenticato che in Libia, dopo trent’anni di dominazione italiana, vi erano solo tre diplomati!

L’accelerazione della modernizzazione capitalistica, il conseguente venir meno dei vincoli sociali, l’esigenza di ricomporre il tessuto delle relazioni sociali e di ripristinare la comunità infranta, sono queste le situazioni che hanno contribuito a creare, nei Paesi che si affacciano sulla riva sud del mediterraneo, lo sfondo da cui si è originato il processo – innescato dalle insurrezioni della «Primavera araba» – di islamizzazione della modernità (fascismo islamico), che porterà alla compressione dell’effervescenza sociale.

Per di più, sulle coste africane del Mediterraneo è presente una popolazione in crescita, la cui età media è di appena venti anni e, viceversa, sulle coste europee del medesimo mare la popolazione ha un’età media di quaranta anni. Va da sé che gli abitanti della costa sud, visto il processo di desertificazione che investe le loro terre, cerchino una via di salvezza attraverso la migrazione in altri luoghi e, in particolare, attraverso i porti dell’Italia meridionale.

Qui la modernizzazione capitalistica ha ormai da tempo dissolto le forme di sociabilità della civiltà contadina. Il fantasma della merce signoreggia sulle altre ombre; combatte contro lo scambio asimmetrico; contrasta le attività ritenute inutili; dà valore solo al lavoro produttivo, a ciò che è omogeneo e commensurabile; cerca, infine, di trasformare gli individui in monete viventi. Si tratta di situazioni che costituiscono la struttura portante dell’immaginario che regna in modo sovrano nel mondo occidentale. In questo senso l’identità latino-mediterranea non è in alcun modo diversa dell’identità italiana in generale, poiché non ha alcuna attitudine autonoma ed è, comunque, riconducibile all’area della cultura occidentale.

Un giudizio questo che può imporsi con la sua limpida evidenza solo se si fanno i conti con il composito immaginario del Meridione: ossia col modo in cui la popolazione del Nord guarda al Sud; con il modo in cui gli abitanti del Meridione si autorappresentano; e, infine, con l’autentico modo d’essere del Mezzogiorno.

Gli abitanti del Nord ritengono che il Sud non appartenga alla modernità. Rappresenta ciò che di per sé è arretratezza. Il Sud è colpevole di: aver prodotto la mafia e la camorra; scarsa produttività; assenza di senso civico; familismo amorale; ignoranza; mancanza di pulizia sia fisica che morale.

Viceversa, gli abitanti delle regioni meridionali – pur riconoscendo i disservizi nella pubblica amministrazione e nella sanità – affermano che il senso della famiglia, dell’onore, della solidarietà e dell’ospitalità fanno parte della loro essenza. E pertanto perché dobbiamo, si chiede la gente del Sud, insieme ai suoi intellettuali, rinunciare a noi stessi? Dobbiamo vergognarci della nostra identità? D’altronde, fuori dal nostro mondo c’è solo l’individualismo che regna sovrano nelle regioni del Nord!

Da questo complesso di inferiorità e, insieme, di superiorità, scaturisce la coscienza latino-mediterranea. Un proverbio siriaco afferma: «Dimmi ciò di cui ti vanti e ti dirò ciò che ti manca!». Ebbene tanto più la gente del Sud rivendica sul piano fantasmatico gli ideali di solidarietà e di ospitalità, quanto più vuol dire che quegli ideali vengono negati nella vita reale. Di fatto non è in alcun modo vero che le pratiche sociali che signoreggiano nello spazio pubblico meridionale stazionino nell’atmosfera della solidarietà, dell’ospitalità e del dono. Gli abitanti del Sud, al pari di quelli del Nord, non avvertono alcun obbligo morale nei confronti degli altri e informano i loro comportamenti all’etica dell’utilitarismo e dell’individualismo.

Già agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso, quando ormai la civiltà contadina iniziava il suo definitivo declino, Rocco Scotellaro – il poeta contadino, sindaco socialista di Tricarico – denunciava la deriva utilitaristica con queste parole: «Ho perduto la mia schiavitù contadina, / non mi farò più un bicchiere contento, / ho perduto la mia libertà».

Contrariamente a quanto si pensa, il termine «comunità», in origine, non indicava l’appartenenza, ossia ciò che è caratteristico di un gruppo di individui, ma al contrario, il debito, la mancanza, l’obbligo, ovvero ciò che era non specifico, aperto alle influenze che arrivavano dall’esterno. A sua volta, il termine «libertà» non rimandava alle istanze più personali e individualistiche, ma a ciò che legava ciascun individuo agli altri, al legame con gli altri, all’obbligo nei confronti degli altri.

Il poeta lucano poteva dire di aver perso la propria libertà proprio perché la identificava con ciò che lo legava agli altri individui. Il rito del bere il vino assieme ai suoi contadini aveva ormai perso la sua capacita di addomesticare la distanza con l’altro da sé. Scotellaro, infatti, era disperato proprio perché coglieva nelle pratiche rituali del mondo contadino l’insinuarsi del germe dell’utilitarismo e dell’individualismo borghese, che sortiva una prossimità che diventava sempre più distanziante. Insomma abbiamo perduto l’obbligo nei confronti degli altri, ciò che sta a fondamento del legame sociale. Ciò che, invece, abbiamo conservato è il fantasma del nemico: ci consente di avere una ragione per vivere!

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1 commento

  1. Un bellissimo articolo, che mi costringe a riflettere su qual’è il mio, personale, ideale mediterraneo, dunque, quale schiavitù possa lasciarmi maggiormente libero come uomo e quindi possa desiderare.
    Uno dei più importanti teologi greci degli ultimi decenni; Ioannis Romanidis, sostiene la tesi che la civiltà greco romana, e a maggior ragione “romea”, quella che impropriamente si usa chiamare bizantina, è stata soggetta a due pressioni fondamentali, che lui indica come: “Francocrazia” e “Turcocrazia”, cioè l’invasione dei barbari dal nord europa e quella dell’impero, prima persiano, poi ottomano dall’oriente, entrambi, a ben vedere, originari delle steppe dell’Asia.
    Credo che si possa dire così, semplificando, o comunque cercando di far luce su come appare a me questo ideale, senza sovrapporlo come aspirazione edenica alla realtà dei conflitti di cui mai la storia sembra aver sentito la mancanza.

    Dunque, l’impero che si compone di cittadini e non di sudditi, che giunge a formulare nel quarto secolo un concetto come quello di libertà di culto, impero in cui vige il diritto e l’imperatore è soggetto alla legge e non è la legge, in cui l’istituzione religiosa non condivide il potere temporale, (ma avendo con questo pari dignità, ne è sostanzialmente libera), è pressato inesorabilmente da due forze opposte e complementari.

    Da nord, le dinastie indoeuropee che si mescolano alle tribù sciamaniche in cui l’appartenenza al sangue è fondamento, che sottomettono la religione a strumento del potere, che dividono la società in caste impermeabili e trasformano il cittadino in suddito e proprietà del leader, che da capotribù diventa imperatore, e nel nuovo ruolo fa ascendere l’origine della schiatta addirittura agli angeli e non più all’animale guida.

    Dall’oriente, invece, la teocrazia legislativa che impone l’osservanza religiosa e pone le basi normative della società e dell’individuo, sistema in cui il cittadino è un fedele e apartiene alla comunità o infedele e quindi nemico, in ogni caso sottomesso alla legge divina, univoca e immutabile.

    A me sembra che oggi queste ultime due forze, mutatis mutandis, siano le sole rimaste in campo e si fronteggiano in modo inconciliabile rivendicando, ognuna, la propria verità. Mi sembra che la libertà “romana”, quindi “mediterranea”, non possa più essere che una dimensione interiore, avendo le libertà individuali raggiunto il punto massimo di espressione e anche di insoddisfazione, tanto che molti invocano soluzioni “imperiali” nostalgiche di una schiavitù così diversa da quella che il luminoso poeta lucano ricorda, che contiene come un’identificazione della libertà con l’amore, cioè il farsi schiavo dell’altro come sistema di convivenza, sistema che si oppone tanto all’idea di progresso in regime di capitalismo, quanto all’oscurantismo in regime di califfato o di dinastia saudita, ottomana o come altro voglia chiamarsi un regime che sottomette l’uomo a una legge relativa concepita come assoluta.

    Chiedo scusa per la massimizzazione degli elementi storico sociali che ho espresso, come ogni partizione non è che un modello, non prende in considerazione le parentesi storiche, le eccezioni, i periodi di pace e le degenerazioni dell’esercizio del potere che sono presenti in qualunque forma di governo della società, anche il più giusto.
    Come ho detto questa non è che una personalissima sintesi e non certo un’esposizione storica, di quello che negli anni si è formato in me come “ideale mediterraneo” e che mi serve come macrobussola per cercare di capire, darmi una ragione del perché oggi, quanto più si rivendicano e si ottengono libertà civili e personali, tanto più ci lacera una nostalgia come quella del poeta lucano per una schiavitù che permette la libertà dell’offrire, della gratuità, dell’ospitalità, del condividere il vino, obbligandosi più che essendo obbligato, tutte cose che aleggiano persistentemente nei ricordi di chi ha viaggiato nel mediterraneo e le ha incontrate più o meno episodicamente, e che sembrano esser diventate leggenda.

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Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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