Il trosco
[Prosegue la pubblicazione di alcuni passi del romanzo inedito Memorie di un rivoluzionario timido. Prima puntata qui.]
di Carlo Bordini
E lì cominciò nel part. Una crisi profonda e siccome io la voglio raccontare poi
Parte finale
Così ci spaccammo. Ci disintegrammo come un melograno maturo, o un jet che supera la barriera del suono, o un vietnamita che incappa in una granata, o un corteo di studenti. Improvvisamente ce ne andammo tutti e ciascuno per la sua strada. E’ come quei pranzi d’addio che ci si ritrova tutti a bere una birra insieme, vecchi compagni di scuola, vecchi giocatori di rugby; tutti reduci nel giro di un anno. Diventammo improvvisamente tutti Vecchi, tutti coi capelli bianchi e una divisa da Reduce con i nastrini sulla giacca a vento. Io lo capisco soltanto adesso: io credevo di essermene andato. In realtà io non me ne andai, partecipai al pranzo d’addio e poi ce ne andammo tutti insieme, chi la mattina, chi il pomeriggio, chi restò in albergo un altro giorno, chi ci mise di più a rifare i bagagli, a comprare dei souvenirs. E chi partendo fece un giro turistico più largo. E non ce ne accorgemmo, o almeno io non me ne accorsi, la situazione era così confusa che nessuno si accorse che la cosa stava smobilitando, perché lo striscione era ancora appeso e la tavola dei banchetti e tutto il resto per cui come in un gioco degli specchi o in un labirinto nessuno si accorse cosa stava facendo l’altro, come quei giapponesi che sono sbarcati su un’isola deserta e non sanno se la guerra continua ancora, o se gli altri se ne sono andati, probabilmente desidererebbero andarsene anche loro, ma non importa ciò che desidererebbero, l’importante è che non sanno più, tra i palmizi, distinguere quali sono loro e quali sono le ombre dei loro compagni. Ciascuno viveva la sua crisi personale, e chi era all’opposizione, chi era in disgrazia, chi era in auge, chi aveva altre prospettive e chi semplicemente pensava di suicidarsi; semplicemente che il Giocattolo si era rotto. E il Giocattolo lo ruppe il ’68. Come una cosa troppo vecchia che non regge il peso delle acque, o un vecchio che esce un giorno d’inverno e gli prende la pleurite, e avrebbe potuto resistere chissà quanti inverni standosene a casa. Come successe al padre di C., che uscì un giorno d’inverno per andarsene a giocare alle corse, e siccome era vecchio, e malandato, non tornò più. O meglio tornò, accusò un leggero raffreddore, poi si sentì male; lo portarono all’ospedale alla tenda di rianimazione perché ormai era mezzo spacciato, e io e B. andammo a trovare C. all’ospedale, con il fratello, e aspettavamo per ore nel freddo corridoio aspettando che morisse o che avvenisse il Miracolo, ma in realtà era un modo per stare tutti insieme, per vivere tutti insieme quell’avvenimento. Il giocattolo lo uccise il ’68 con tutta la sua carica di crudele novità, la crudele carica non prevista da nessuno, che scardinava tutti gli schemi, creava basi nuove per futuri sociologi e futuri rivoluzionari, anche se nessuno se ne accorse perché lo rivestirono subito con un cappottino di vecchio rivoluzionario, gli misero in mano un fucile e una stella rossa sul berretto, cercando di esorcizzarlo e sussurrandogli: è vero che vuoi bene al papà e alla mamma?, e cercando di insegnargli a dire mam-ma, mam-ma, e lui invece lì a dire parolacce. E quelle parolacce si sarebbero sentite per molto tempo ancora, e avrebbero formato una nuova generazione di maledetti, come prima c’era stata una generazione di maledetti che vivevano imprecando sotto il livello del parquet, ma con la differenza che i maledetti questa volta si erano moltiplicati come topi, e cercarono di accamparsi sul parquet sporcando tutto, e adesso sono sparsi dappertutto irridendo e facendo sberleffi. E fu il ’68 che ci fece schizzare tutti da una parte e dall’altra come le biglie di una granata, ognuno cercando di salvare i pezzi di sé, la maggior parte continuando a fare le stesse cose di prima, o cercando di farlo, molti con ossessioni paranoiche che davano la colpa ora all’uno o all’altro se il giocattolo si era sfasciato e in definitiva prolungando fino all’infinito quel clima di paranoia che si era creato mentre il giocattolo si stava sfasciando, e che cominciò con crisi, espulsioni, e battaglie a colpi di documenti da una parte all’altra dell’Oceano, e interpretazioni dell’Intervento sovietico in Cecoslovacchia, e rapido rapido ripiegamento di fronti che si acquartierava alle soglie della burocrazia, odiando gli studenti e facendo l’occhiolino a Breznev, ripiegamento che provocava ire e rivolte e sussulti nelle file dei troschi velenosi e più sanguigni, e stranamente non nei vecchi, ma nei Nuovi, perché i vecchi erano ormai adagiati in un Sonno mortale, e del vecchio trosco velenoso e inacidito non rimaneva che una traccia romantica, un alone come quello di una macchia pulita con la benzina.
E il trosco rivelò la sua vecchia origine bolscevica e comunista, e l’essere stato a capo dell’Armata Rossa, e l’aver fatto parte delle risoluzioni del comitato Centrale, perché di fronte all’ondata del ’68 tutti i troschi di tutte le razze e di tutte le sette e di tutte le nazioni presero una posizione moderata, e una collocazione intermedia, nessuno seppe riconoscersi veramente nella nuova rabbia, in cui non soltanto si sentiva l’eco della sua origine bolscevica e leninista, ma anche il profondo senso di morte che in definitiva ha sempre caratterizzato il trosco, questo portarsi sempre la morte addosso, la morte di trotsky, movimento nato nel sangue. Questo profondo desiderio di morire che anima sempre il trosco, e con lui spariva l’ultimo dei rivoluzionari vecchio stile, l’ultimo Rivoluzionario vecchio stile con giacca di velluto, l’ultimo degli anarchici, l’ultimo dei rivoluzionari isolati, l’ultimo dei Che Guevara della storia dell’Ottocento, e il legittimo desiderio di riposare dopo avere incarnato per tanto tempo questo ruolo che qualcuno doveva pur incarnare, prima di passare la fiaccola. Ormai esaurito. Di qui quel suo che di particolarmente patetico nel breve tentativo di fare da balia asciutta al bambino ’68, Figlio degenere della rivoluzione. Necessità della rottura, perché era stato per tanto tempo irrigidendosi su se stesso, che non era più capace di trovare quella duttilità che ha permesso ad altri movimenti di vampirizzare il bambino succhiando il suo sangue e nutrendosi di esso per continuare la storia del Progresso Umano. E io mentre scrivevo queste pagine mi chiedevo che cosa sarebbe successo se il movimento non si fosse spaccato, se sarei rimasto anche io lì, ad invecchiare con la giacca di velluto ed il bocchino in bocca, e se sarei ancora lì adesso, ma ora mi rendo conto che questa domanda non ha nessun senso, perché sarebbe come chiedersi che cosa avrei fatto io e quali sarebbero state le mie reincarnazioni se non ci fosse stato il ’68, ebbene chiaro che non lo so, ma il ’68 c’è stato, e io l’ho vissuto in modo profondamente vitale, nel senso che mi ha scardinato addosso tutta la corazza che avevo, permettendomi di aprirmi a nuova vita. Certo non l’ho vissuto come assimilazione immediata delle cose che esso portava, ma, inconsciamente, perché non me ne rendevo conto, come disposizione a lasciarmi scardinare tutto e a prepararmi a nuove reincarnazioni. Doveva essere qualcosa di profondamente vitale in me, per sentire seppur alla lontana questo vento, preparandomi ad entrare nella bufera. Perché mentre la maggior parte dei troschi con cui avevo vissuto e con cui avevo spartito, sempre provvisoriamente come sempre mi è successo nella vita, una parte della mia vita, preparandomi poi con la mia sacca a ripartire e ad iniziare un nuovo cammino. E a spartire ancora una volta provvisoriamente una parte della mia vita con qualcuno (ed è qui il centro della questione, come si vedrà più avanti, e scusatemi ma non è colpa mia se sono così e certo ho fatto del male a un sacco di gente e ne sono angosciato, completamente angosciato) – mentre la maggior parte dei troschi, dicevo, adoperò tutte le sue residue energie per esorcizzare la catastrofe dovuta alla distruzione della stanza dei Giochi – la stanza dei Giochi non è più! Sciagura! – per continuare a fare le stesse cose di prima, come animali ormai divenuti notturni ed assuefattisi all’oscurità sorpresi dalla luce che vanno a rintanarsi in qualche altro posto per continuare le antiche abitudini; e ci furono molti che si iscrissero al PCI continuando una loro sorta di inconscio personale entrismo, magari divenuto così entro da identificarsi completamente nelle sue posizioni e di terminare il ciclo del rivoluzionario che rientra nel suo luogo di origine, ed altri che invece cercarono di continuare la vita di prima, reimmettendosi in altre organizzazioni trotskiste e continuando a fare e a dire. Le stesse cose di prima come se niente fosse accaduto, e qualcun altro infine dei migliori e dei pochi che siano rimasti vivi che hanno sentito i nuovi tempi e si sono messi con l’autonomia – io voltai completamente le spalle alla Politica e imboccai completamente una strada diversa, e in questa maniera attuavo la mia resurrezione o la continuazione della mia morte vivente. Fu in definitiva in occasione di quel cataclisma, sospinto dai venti della storia, e probabilmente senza rendermene conto, e forse stanato dal tanfo di morte che c’era là dentro, che Io, che avevo sempre vissuto maledicente e urlante nello spazio che stava sotto il pavimento di Legno, mi issai con la forza delle braccia e sporsi tutta la testa sopra il pavimento, e mi misi a guardare stralunato il mondo che c’era al di sopra del pavimento di legno, per poi strisciarvi sopra cercando nuovi nascondigli. E la politica rimase da allora sempre per me un incubo, qualcosa che tanto profondamente mi ha toccato da odiarla per tutta la vita – un mio amico poeta diceva una volta stai zitto tu tu che sei un ex – e il fatto di odiarla significa che non l’ho superata. Comunque le voltai le spalle, e questo significò per me bene o male l’inizio di una nuova vita, o di nuove reincarnazioni; ed è per questo che io dico che io sono nato due volte.
E in questo lento volgere di meriggio che fu la dissoluzione e l’esplosione al Rallentatore della Stanza dei Giochi, come in Zabriskie Point di Antonioni e lui ha ragione perché le più terribili esplosioni avvengono spesso al rallentatore, come si vedrà più avanti, quelle scardinanti, Catastrofi. Che durò tre anni, più o meno, e per me furono due, ma già nei primi due l’Esplosione si era consumata. La Cosa cominciò con una furibonda lotta all’interno del Partito, tra il partito e un gruppo di compagni, “i tre compagni”, che sentivano che non si poteva stare là ad odiare gli studenti e a dire che erano piccolo-borghesi e proporre per gli operai le stesse cose di una volta, cioè niente, e puntare tutto sul PCI in un momento in cui tutto avveniva fuori e contro il PCI. E sentivano il terremoto che avveniva nella società, e la necessità di rispondervi. Proponevano insurrezioni tipo Battipaglia, o un massiccio inserimento dei compagni in fabbrica per fare agitazione. Io mi schierai con la parte conservatrice, obbediente. In quel periodo sentivo in genere i compagni, tutti i compagni, quelli frastornati e che non sapevano che fare, e giravano in tondo, e quelli che facevano lotta e opposizione, come degli ostacoli. Non più come esseri umani. Fedele come sempre, facevo un’attività frenetica per superare la crisi, e cominciai a diventare un burocrate. Anche in Algeria mi ero comportato come un burocrate, ma ora la cosa diventava più incarnita. I compagni nuovi non dovevano sapere con esattezza la crisi che stava scardinando il partito, ma nello stesso tempo dovevano essere immunizzati e attivizzati contro i pericoli della crisi. Andavo spesso a Firenze in quel periodo, dove c’era un nucleo di compagni su cui si poteva contare nella lotta contro gli odiati oppositori. Mi innamorai perdutamente di una ragazza di Firenze, e ne fui terribilmente respinto.
I tre furono naturalmente respinti, dopo una seria di convulse riunioni, e dovettero andarsene. Io mi ritrovai in un partito spopolato, agitato da crisi convulse, con i compagni che cadevano come mosche. Era estate. Erano nove anni che non mi prendevo una vacanza. Inconsciamente sentivo un po’ di vergogna per le manovre cui eravamo stati costretti, per i sistemi brutali, per il braccio di ferro e la lotta a morte che si era scatenata fra compagni che una volta si ritenevano amici, per il clima di violenza che si era instaurato. Mi trovavo di fronte una prospettiva più dura, rinserrare le file, colmare i vuoti, ridarsi una dura disciplina e stringere i denti. Speravo che qualcosa nel partito sarebbe cambiato, ma il clima di isteria che si era determinato rendeva i rapporti interni ancora più duri, atroci, dissacratori. Una sera A. disse che sarebbero state necessarie riunioni tutte le sere, per elevare i quadri, stimolarli, rimetterli in carreggiata moralmente. Mi sentivo stanco, e pensai seriamente di andarmene. Ma non sapevo dove andare. Credevo che nel mondo, al di fuori della IV Internazionale, esistesse soltanto la controrivoluzione, o imbecille empirismo. Non sapevo dove andare. Non immaginavo la mia vita al di fuori se non come seguito incessante di depravazioni e di abiezioni borghesi, e ne ero atterrito. Non mi rendevo conto allora della tristezza da cui erano circondati quadri che conoscevo di altri paesi, e che in quel periodo erano a Roma, e che stavano nell’Internazionale da tredici anni, quindici anni, e che erano stati destinati come il legame dello zar alla terra in una perpetua servitù della gleba, intimamente accettata e assaporata, al lavoro tecnico, e che avevano consumato tutta la loro vita così, zitelli, guardando all’interno, con un’ingenua gioia tutta rivolta a fatti interni di partito, pieni di ingenuo entusiasmo, e pieni di una sottile tristezza e di una sottile angoscia. Ma la decisione di andarne perdurava.
Stranamente fu un periodo più tardi che mi accorsi della cosa. Per uno di quegli strani scherzi del caso per cui fattori infinitesimali riescono a far precipitare una situazione che era maturata da tempo, elementi marginali, senza importanza, o forse non fu un elemento marginale, forse fu proprio la cosa giusta e io non me ne rendevo conto, perché era quello che mi mancava, perché in definitiva era quello la cosa veramente importante, fu una volta che stavo a casa mia e vedevo la televisione, e probabilmente guardavo Carosello, e c’era una di quelle scene piene di ottimismo e vitalità e di falsa gioia di vivere che in quel momento mi apparve così Vera, e piena di vitalità, e si vedeva il primo piano del viso di una donna che rideva, credo che probabilmente fosse la Raffaella Carrà, o cose del genere, e io capii in quel momento che tutto quello a cui io avevo rinunciato era la Gioia di Vivere, e che mi ero rinchiuso in una vita mortificata e attraverso la mortificazione della carne, che era soprattutto la mortificazione dello Spirito, e cose del genere.
E un’altra volta più tardi o più o meno nello stesso periodo mi capitò un altro fatto, che doveva avere per me profonde ripercussioni. Stavo all’Istituto Italo-Latinoamericano, dove facevo delle ricerche a pagamento per conto di un Professore di Napoli, e all’ora di chiusura doveva essere circa l’una e mezza venne una ragazza una di quelle impiegate e dato che io ero rimasto fino allora lì mi disse senta noi facciamo una riunione se lei vuol venire. Come una riunione? Sì una riunione ci riuniamo e beviamo qualcosa dato che adesso chiudiamo. E io risposi: no…no, ho da fare, vado molto di fretta, e me ne andai. E più tardi pensavo: perché me ne sono andato? Perché non sono restato? Certo anche non erano dei compagni almeno per curiosità poi può sempre capitare qualcosa di Interessante, che ne sai. E mi accorsi allora che io tutte le volte che mi facevano qualche proposta che non mi interessasse in modo particolarmente ed estremamente vitale dicevo sempre No No No ed era il mio modo istintivo di rispondere il modo di una persona colta nel fallo e mi dissi: “Io dico istintivamente di no alla vita, ormai è un riflesso condizionato”. Ed era una cosa come nascondermi e se mi offrivano di andare a mangiare una pizza dicevo no devo leggere e pensavo che qualsiasi cosa che avessi fatto per me stesso e che non avrebbe comportato un vantaggio immediato per la rivoluzione o per la causa che avevo in quel momento per le mani era tempo sprecato. E decisi di dire Sì alla vita, e di dire sempre Sì Sì Sì qualunque cosa mi domandassero, come una sorta di fame arretrata, perché in qualunque cosa avrebbe potuto esserci un utile per me e qualcosa di interessante e qualcosa che mi potesse aiutare a vivere. E da allora l’ho sempre fatto, e mi sono sempre buttato su qualsiasi cosa come un coprofago frenetico,
E mentre stavo ancora indeciso se andarmene o non andarmene me ne andai a lavorare in un’Agenzia di Stampa, dove facevo l’archivista. Là feci amicizia con delle ragazze che lavoravano lì, e riscoprivo il valore dell’amicizia senza nessun fine dietro, fine a se stessa, e questo mi riempiva di una gioia profonda. Cominciai a desiderare di avere un lavoro mio e una donna. Non furono cause ideologiche a spingermi ad abbandonare la politica. Per la Politica, ero d’accordo su Tutto. Ma volevo avere un lavoro mio e una Donna. Ero stanco. Volevo vivere. Furono ragioni biologiche che mi spinsero ad andarmene. Mi ero accorto che restando nel partito non c’era nulla da fare, non avrei mai potuto avere né un lavoro mio né una donna. E così dissi ai compagni che intendevo andarmene. La mia fu l’uscita più dolce che ci fosse mai stata, senza inimicizia; decisi anche di restare tre mesi dopo averglielo detto per dare loro il tempo di sostituirmi. Ci furono riunioni, colloqui, tentativi di dissuadermi, ma fui irremovibile. Nel frattempo continuavo a funzionare più o meno normalmente.
In Ufficio le ragazze mi dicevano. Tu hai 32 anni! Non è possibile! Ma non li dimostri! Ce n’era una che mi piaceva; aveva qualche anno più di me ed era straordinariamente interessante. Discutevamo sempre. In quel periodo avevo ricominciato a scrivere poesie e gliele feci leggere. Un giorno era piuttosto in crisi e ci mettemmo a chiacchierare e quando venne l’ora di chiusura giù a chiacchierare e perbacco andiamo a mangiare a casa mia. Andammo a mangiare a casa sua, stavamo seduti, io le guardavo le mani e le dissi: Senti, io voglio fare l’amore con te. Come? Stavamo lì a discutere e non si decideva. Teneva la testa bassa. E se ti dicessi che non stiamo sulla stessa lunghezza d’onda? Bè pazienza, risposi. Non lo so…disse. Mi prestò dei libri. Poi io dissi: bè, mi si è fatto tardi. Mi accompagnò alla porta. Senti, dissi, amici come prima. Mi pareva che si avvicinasse per chiudere la maniglia, e invece mi abbracciò e cominciò a baciarmi. Stemmo a baciarci per un po’ proprio sulla porta, e poi mi accorsi che mi dava dei colpi sulla mano con cui tenevo i libri, e mi diceva: che fai stupido. Abbracciami! Poi andammo sul letto, e passammo tutto il pomeriggio e la sera a scopare. Era l’autunno del ’70. L’ultima volta che avevo baciato una ragazza era stato nel capodanno del ’62. Era una festa della FGCI, e io mi ero ubriacato, e poi avevo vomitato e mi ero risentito bene, e avevo rimorchiato una francese favolosa che stava là, e ballavamo abbracciati mentre uno del PCI che stava là mi diceva tra i denti: che cazzo fai là! Portatela fuori. Scopatela. E io ballavo con questa ragazza che mi piaceva moltissimo, e dopo ci vedemmo ancora per qualche giorno, e poi lei partì. Ed era la prima volta che scopavo, se si eccettua due o tre volte con le puttane, al casino, ci andavamo coi compagni di scuola e loro facevano un sacco di casino nel casino e poi arrivava la vecchietta col flit e li cacciava via, ma era sempre andato male, o non ci riuscivo o non provavo nessuna soddisfazione. Poi lei mi disse, la sera: senti, se tu impari solo a rilassarti un po’, diventerai un amante eccezionale. E io stavo benissimo, tornai a casa prendendo il notturno e dormii sei ore e mezza, perché ero rilassato, e dimenticai l’orologio da lei e lei l’indomani me lo ridette in ufficio. Quel pomeriggio avevo una riunione. L’indomani A. mi chiese: perché non sei venuto alla riunione? Perché sono stato con una ragazza – risposi. E tu per andare con una ragazza non vieni alla riunione del buro politico? Dico Sì.
In quel periodo io abitavo in una casa del partito a San Lorenzo. Avevo deciso io di prenderla, perché mi piaceva il Quartiere, invece di prenderne una a San Giovanni; e quella fu una delle poche decisioni importanti che presi durante la mia attività politica. Dissi ai compagni che avevo bisogno di un materasso, e domandai se potevo prenderlo. Mi rispose uno: no, non puoi prenderlo, non possiamo dare il materiale del partito per un uso personale. Ma io lo presi lo stesso.
Così un mattino, dopo nove anni, me ne andai dalla casa del partito per trasferirmi in una nuova casa, portandomi dietro un materasso e tre stampelle. Li legai sul motorino e partii. Non ci tornai più. Permisi però ai compagni di fare qualche riunione a casa mia, e loro ci portarono delle sedie, che ho ancora con me.
Caro Carlo, ho finito di leggere questo tuo libro. Come sai, non sono un critico né sono capace di dissezionare la letteratura. Sono un banale lettore. Mi ha commosso per questo tuo muoverti nella vita con grande delicatezza. Con grande dolore.