Viola Amarelli – Cartografie della pura presenza
di Daniele Ventre
Mappe per solitari*: questo explicit nominale in corsivo chiude, come suggello e anti-titolo, Cartografie di Viola Amarelli (Editrice ZONA, Arezzo, 2013): una trama di prose poetico-narrative dai titoli parentetici e parentetizzati che si presenta così con la facies di un testo implicitamente palindromo, in cui il tessuto del reale, riversato in un ordito disseminato di snapshots, diventa ologramma speculare di sé stesso. Dai postscripta che con quell’explicit si concludono, e che troviamo in clausula come potenziale fulmen e chiave di decrittazione del libro, è necessario cominciare nel tentativo di porre le basi di un’intelligenza del testo che vada al di là della retorica del critico diffusore, e cerchi di intuire, per quanto possibile, la sostanza del progetto poetico che l’opera definisce. La palindromia formale e concettuale di Cartografie si palesa, secondo il modo di vedere che abbiamo subito accennato e che tenteremo ora di illustrare il meglio possibile, in un punto focale dei poscripta, che recita: “il bello, il giusto. amenità avventizie per cecati. tu guarda, tu, il reale. e. il raddrizzo. tu guarda, tu, verso. il meglio che si possa. il meglio che ci tocca”. Campeggiano qui il tema dei fondanti assiologici, ridotti a trastulli fittizi per gli esseri umani fasciati di buio esistenziale (Il bello, il giusto –poco dopo “la verità: funzione. la classica o derivata…), e quello del reale, o per dirla in forma solo apparentemente ricompattata nell’esserci empirico, delle nudecrudecose della raccolta poetica della Amarelli che di poco precede Cartografie. Sul bello, sul giusto, sul reale, campeggia lo sguardo, Einblick, prospettiva di inquadramento, ma anche darśana, inneres Auge, occhio interiore e com-penetrante-si, fra riassestamento cognitivo, inquadramento corretto, ma non necessariamente quello della visione ordinaria e verso, versus come linea scritta e come “contro” opposto al raddrizzo. Si instaura così un rapporto riorientato fra realtà e rappresentazione letteraria, con a mezzo la pagina e la fruizione del lettore a fungere da diaframmi impropri e osmotici, e da specchi reciprocamente distorcenti: una rappresentazione implicita dell’esperienza del lettore, e dell’esperienza in genere come singolarità ermeneutica, sistema aperto in cui soggettività e oggettività si intersecano nel gomitolo inestricabile dei vissuti.
Non è un caso, è anzi fin troppo naturale osservare che tale intuizione volutamente a-lirica dovrà necessariamente presentarsi “in fin dei conti. in fondo. nel finale”. Accade così che il testo palindromo abbia, è scontato dirlo, nella sua fine, e nel suo fine, il suo principio –del resto “per principio è già una fine”, si preannuncia, ominosamente, nel capitoletto intitolato appunto (per principio). Le cose che si guardano fluire in ordine sparso, gli snapshots diegetici di schmidtiana memoria (ma qui siamo anche oltre l’Arno Schmidt che in Aus dem Lebens eines Fauns dissolve in sequenze brevi il flusso degli eventi narrati), acquistano ora un senso nella destituzione della pretesa di senso (del bello e del giusto), sostituita con la costituzione della vista come assistenza e presenzialità, come d’un essere umano chiamato a una parousía di fronte all’impermanente che comunque, sia pur effimero, sussiste davanti all’occhio che guarda. Un richiamo all’attenzione per tutto ciò che ha sorte d’inveramento: da Ciccillo, che “scrive sempre quello che gli pare importante, parole” e finisce poi “riaccecato come ogni indovino, come ogni poeta”, primo della rapida teoria di migranti che popolano (nostra patria) il mondo intero, anarchicamente diffusi sulla mappa del tempo e dello spazio, da Zurigo alla Napoli dove arrivano Jusepe, e Francesco, reduce invalido dalla Val d’Ossola, alla Roma di Mario P., già partigiano coi comunisti sulle montagne d’Albania, alla sarabanda di genti che invadono la penisola, la campata appenninica (“Palafitticoli, illirici, fenici. Ondate di greci: il 99% del dna ora adesso…); alla bimba che sgrida il gatto in (ride), e ogni momento del suo pensare e del suo agire è staccato in brevi membretti a ritmo binario, come per canterellamento in sordina di una petite promenade mussorgskiana; ai momenti quotidiani staccati, ritorno di già citate e narrate nudecrudecose e altre faccende, nel su ricordato (per principio); all’evocazione cosmogonica, orgonica e orgasmica di (six on sex), in cui la relazionalità implicita nella sessualità si trova rovesciata in unidirezionalità egoica ed egoistica, culminante nelle uniche forze residuali di un universo-uniflusso di dominanze: “Padrone e sotto. Restano sempre sotto, le macerie” –e necessariamente da questa cosmogonia, involta nel dolore desiderante e nel dolente desiderio, prorompono tagli di lame, fra roast-beef implicitamente cannibale, paradosso circense del lanciatore di coltelli, tagliatore di diamanti di (tagli), fino a sfumare nei tagli di luce del laser, e per converso la scena a intersezione multipla di memorie, fra ricordo e dialogo irridente, di (bellissima).
Il mondo presenziale senza soprastruzioni alienatrici della presenza e dell’attenzione si squaderna poi, progressivamente, da (proverbi) a una (voce) a (heure bleue) a (sordo), in un processo di dissolvimento-dissolvenza delle dinamiche della comunicazione, che muove dalla chiacchiera impersonale (man neo-heideggeriano) delle frasi fatte, opportunamente destrutturate al fine di esorcizzarne il potere nullificatorio, per approdare ai momenti ironicamente liberatori di (entrambi) e (o venturoso) protesi di passaggio in passaggio verso (lo sguscio), in cui il confronto con la mortalità viene evocato-avocato (“Morire è diventato difficile, ma capita ancora” – “Come se morire non fosse lo stesso una pulsione…”). Le diverse lasse narrative che si dipanano davanti agli occhi del lettore, lasse che non enucleeremo tutte per ovvie ragioni di trasparenza argomentativa, rampollano così l’una dall’altra, a volte per associazione di immagini concomitanti, a volte per effetto contrastivo, a volte per rimpallo laterale di parole chiave non capcaudadas –così ad esempio accade fra (pietas) e (flusso). Ne scaturisce il panorama atemporale e sincronico (come di mappatura) di una comedía ontologica, in cui non ci sono inferni e paradisi, non ci sono giudizi, ma solo accadimenti e presenza agli accadimenti, una presenza amorosa, d’un amore per ciò che semplicemente accade e si lascia accadere, e perciò si sente prezioso, perché portatore di una sia pur effimera fiaccola d’essere. Un’ultima notazione chiuderà per ora questa disamina, per necessità di vincoli comunicativi e di spazio insufficiente e cursoria, e come ogni mappa, ogni rilievo cartografico, sempre ridotta in scala rispetto al territorio mappato. Un ruolo comunicativo fondamentale svolge –e vi abbiamo già accennato di sfuggita a proposito di (ride) –il connotato soprasegmentale del ritmo: ora di battute ternarie per dattili e anapesti, specie in contesti argomentativo-narrativi, connotati sovente da catene di cumulazioni –si veda ad es. un capoverso di (flusso): “Son bràvi, gli dìce, l’amìco che lo accompàgna. Sì, sono bràvi, cattùrano i pièdi e i fianchi di chi li ascolta e tùtti irretìti, si làsciano andàre. È rìtmo al respìro, di fibrillaziòne, il tuòno del cuòre. Una spècie di fiùme, il sàngue che accèlera, risàle e sta a gàlla, ricàccia i pensièri. Un grànde rìto, da sèmpre assiepàto, le innùmeri rèpliche…”; ora, specie in sede di gnome, di consuntivo, di culmen e fulmen in clausula, endecasillabico, sia pur mascherato o sgusciante: così alla fine di (nostos) (“le lune non c’èntrano|| sarebbe || un buòn motivo”), o alla fine di tutto, “in fin dei conti. al fondo. nel finale”: un’orchestrazione timbrica che tra figure di suono (per lo più allitterazioni, assonanze e parisosi) e metrica ironizzata scandisce, nella mappa della pagina l’eco del tempo e il rumore del mondo.
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I commenti a questo post sono chiusi
un articolo assurdo. non si capisce niente.
confermo
Non capisco il non capire del primo commentatore ed il “confermo” del secondo. Passare, poi, dal “non si capisce nulla” a definirlo “assurdo” mi sembra, a dire poco, una contraddizione.
Per me la recensione segue, quasi pantograficamente, il testo. Alla premessa di Ventre, il suo non voler cedere alla “retorica del critico diffusore”, segue una disamina attenta ed intelligente dei testi. Il rimando, poi, ad Arno Schmidt, mi è parso particolarmente acuto ed utile.
Gentile Carla,
è presto detto. Di questo articolo non si capisce una riga, o mezza frase. Tra la “retorica del critico diffusore” e l’egocentrica oscurità naif, ce ne passa. Comunque, concordo sull’uso improprio dell’aggettivo “assurdo”. L’effetto tragicomico dell’articolo punta infatti direttamente al “grottesco”. Ma che ci possiamo fare, è un paese libero. Ciascuno può scrivere le corbellerie che più gli aggradano…
Gentilissimo laserta,
grazie per il Suo “presto detto”! Leggo che concorda sul giudicare improprio l’uso di “assurdo” nel Suo commento e me ne compiaccio. Concordo del tutto, poi, con l’ultima frase della Sua replica.
Quello che mi irrita è il Suo “si” al posto di un “io”. Perché, mi chiedo e Le giro la domanda, non scrivere “non ho capito nulla” invece di “non si capisce una riga”. Come poi, dal non capire nulla, si arriva ad un giudizio sugli effetti di un articolo, è, per me, Le ripeto, una contraddizione.
Parafrasando Ludwig Wittgenstein: di ciò che non si è capito nulla, bisogna tacere.
Cordialmente
Carla Pinto
Mi perdoni se non riesco a far fronte con citazioni dotte, ma non sono a un livello adeguato al suo. Comunque, “non si capisce una riga”, era un modo piuttosto felpato per dire che, secondo me (e quindi non in senso assoluto) il linguaggio astruso e fumoso nasconde molto spesso il vuoto di senso. Questo pezzo non è una recensione, ma una vacua esibizione di un supposto (nello scrivente) talento. Una manifestazione egocentrica, come dicevo sopra.
saluti
Gentilissimo laserta,
La perdono. Il Suo riconoscere di non essere ad un livello adeguato al mio è motivo sufficiente per tale perdono.
Siccome, però, Lei continua a confondere il soggettivo con l’oggettivo, riconosco un perseverare che mi induce a porgerLe i miei più cordiali saluti, senza citarle addosso qualcosa che potrebbe ferire la Sua ignoranza.
Personalmente ritengo che lo scritto dell’autore (intendo Daniele Ventre), recensione o cos’altro sia, richieda un’attenzione superiore alla media dell’attenzione che prestiamo alle cose che leggiamo per capirle. A ben vedere, lo scritto non ha in sé niente di contraddittorio, frettolosamente pensato o detto senza proprietà. Soltanto, è difficile. Valeva la pena leggerlo? Dipende anche se l’opera di cui parla vale in sé la pena di essere letta e presentata. Ventre ritiene di sì e ne ha scritto in proposito. Poteva essere più accomodante con i suoi lettori in fatto di perspicuità? Poteva. Doveva esserlo? E chi l’ha detto?