Fare il bucato
(I Frisbees della vecchiaia di Giulia Niccolai vanno ben oltre la letteratura aforistica, sono densi di ironia, passione e commozione. Vedi anche qui e qui. a.s.)
Ancora sul linguaggio. L’espressione
“fare il bucato” che diciamo sempre
invece di dire “lavare la biancheria”
(senza però conoscere l’etimologia
del termine “bucato”), non fa pensare
che diamo tutti per scontato il fatto
di lavare un po’ di bianco e molti buchi?
*
Il francese, “faire la lessive” mette l’accento
sulla scrupolosa e difficile preparazione
degli ingredienti (idrati e carboidrati alcalini),
necessaria per poter lavare bene e mantenere
bianchi i tessuti. E così lo spagnolo col suo
“hacer la colada”. (Un po’ disgustosa questa
“colata”, se ce la figuriamo grigia di cenere
e di sporcizia, a fine operazione).
*
Il tedesco “die Wäsche waschen” tautologico
e pragmatico è anche un puro scioglilingua.
A differenza delle lingue che ho già citato
e dell’inglese “to do the laundry”, non contiene
il verbo “fare”. In Germania i capi da lavare
si lavavano da soli, per proprio conto, anche
in passato, come ora in una lavatrice dell’UE
che ci accomuna tutti e rende imprecisi e datati
in tutti gli idiomi (salvo che in tedesco),
i nostri modi di dire: faccio il bucato?
Questi pensierini devono essermi venuti in mente
perché mi si è rotta la lavatrice.
[da Frisbees della vecchiaia di Giulia Niccolai, Campanotto editore, Pasian di Prato (Ud) 2012, pp. 41-43]
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“Lo smoglio”: così, nelle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, è indicata la “colata” di cui parla Giulia Niccolai, “grigia di cenere e di sporcizia, a fine operazione”. Fu la presenza di questa materia nel calderone del bucato a fare accusare il barbiere Gian Giacomo Mora di diffondere volontariamente la peste, servendosi appunto di quella poltiglia.
“ Giovedì 2 ottobre 1997 – Ogni tanto, sfogliando qualche pubblicazione che si occupa di fotografia italiana – libri, riviste della fine degli anni Cinquanta -, trovo, sotto a immagini che spiccano fra le altre per un certo esotismo, un ché di « americano », dovuto anche allo sfondo dei soggetti ritratti – « Harlem », il « Carnevale di Monaco » -, il nome di quella che allora era una giovane promettente fotografa: Giulia Niccolai. Per una strana coincidenza – e anche perché ho conosciuto tanta gente – io l’ho conosciuta, vent’anni fa, cioè vent’anni dopo quelle fotografie. L’ho conosciuta in quanto scrittrice di poesia – « visiva » – e compagna di uno scrittore di poesia, cioè di un poeta, Adriano Spatola. Quello che mi ricordo è che Adriano Spatola è stato forse l’ultima persona di cui ho pensato di poter divenire amico. Ma allora, vent’anni fa, ero già stanco di desiderare di trovare amici e, soprattutto, di andarne in cerca. Ero stanco di viaggiare, come avevo viaggiato, sia pure su distanze risibili, finendo sempre nelle case degli altri a fare la parte dell’ospite che non può neanche essere ingrato perché lì dove si trova non ce l’ha chiamato nessuno ma c’è voluto andare lui. Ero stanco, soprattutto, di innamorarmi delle donne dei miei amici – con Giulia Niccolai non credo che sarebbe successo, ma non è mai detto – o, comunque, di desiderarle – i miei « amici » l’avevano capito e forse ci si divertivano anche. Ma, soprattutto, ero stanco. E stanco di essere stanco. Così, allora, ho smesso di cercare. E quello che mi succede ora è di trovare – perché qualche viaggio, sia pure soltanto fra le vecchie riviste, lo faccio ancora – e non è assolutamente la stessa cosa. “
la migliore conferma che esisteva qualcosa per cui valesse la pena dopo la giovinezza anche prima del viagra:le parole(meglio se quagliano raggrumate in poesia,ma anche in libertà non sono da buttare: “Wäsche waschen”
Divertentissime queste svagate riflessioni ad alta voce! e: sono totalmente d’accordo con diamonds!