Moby Dick, storie di mare e resistenza
testo e foto di Dario Coletti
Sono in mare in prossimità di Porto Paglia, vicino Gonnesa, imbarcato su un vascello. È il dieci giugno 2010 e compio cinquantuno anni. Respiro profondamente. L’aria è fresca, il sole è tiepido, guardo l’orizzonte e sorrido. Guardo, respiro, sorrido. Sono esattamente dove ho voglia di stare con l’ambizione di fare quello che mi piace, sono io che ho voluto e progettato questo momento. L’ho desiderato tutte le volte che ho attraversato il mare per raggiungere quest’isola o per tornare a casa, ogni volta accompagnato da un’emozione diversa, o spinto da obiettivi e speranze sempre nuovi. Il bello del navigare è che da quando ci si lascia alle spalle la costa, anche di pochi decine di metri, si comincia immediatamente a rievocare storie universali che anche se fantastiche diventano plausibili e ti riconciliano con le motivazioni dei viaggiatori leggendari: Ulisse, Achab, Santiago, il vecchio uomo di mare o il cambusiere Ransome. La distesa dell’azzurro e il ritmo delle onde mi guidano in un altro viaggio, più profondo, in un luogo dell’anima dove tutto si annulla e dov’è possibile riscoprire l’andamento del moto universale. Inizio il mio viaggio nel tempo. Se sono qui nel blu e se respiro avidamente è perché il mio corpo ha bisogno di ossigeno quanto la mia mente di pace.
Tempo: due anni prima. Luogo: una stanza di ospedale con circa quattordici letti. Il protagonista sono io in un doppio ruolo: un primo io è in sospensione magica, intento a osservare un secondo io seduto su una poltrona accanto a un letto disfatto. Delle due presenze, la prima si manifesta come un flusso di energia trasparente, antropomorfa, la seconda ha una consistenza materiale, non sembrano dialogare tra di loro; c’è molta luce ed è tutto bianco in questa camerata. Gli altri abitanti di questo luogo si muovono dentro ai loro letti, lo fanno lentamente, sembrano immersi in un tempo che si chiama attesa. L’io seduto, quello ferito, legge un libro. Sembra che la lettura riesca a placare il dolore, quanto quel liquido trasparente che attraversando un congegno idraulico scorre nel suo sangue. Effettivamente sembra che le avventure dei balenieri riescano a portare la mente dell’io seduto fuori del corpo, a sospingerlo su ignote rotte alla ricerca di verità. A un tratto l’io seduto guarda verso il luogo dell’io sospeso ancora intento a osservare. Quando i due sguardi s’incontrano, una forza prepotente sembra attrarre l’ombra verso il corpo, l’aria verso la terra, fino a farli corrispondere, fino alla fusione. C’è una smorfia sul viso dell’io unificato, mentre nella coscienza affiora la promessa d’intraprendere, se salvo e appena possibile, la vita del mare, sia pur per breve tempo, sia pur solo per fotografare. È questo il pensiero che balugina nella mente dell’io unificato; luccica come il dorso argenteo di questi pesci stesi sul ponte del vascello al sole.
Riemergo dal passato e mi trovo in un’agitazione fatta di movimenti sincronizzati, urla e comandi, un caos che confluisce in un clamore unico, un boato che mi risveglia e ritorno di nuovo pienamente cosciente. In mare. Sapientemente, rispondendo agli ordini di un capo giovane dagli antichi saperi, uomini di mare ritmano il destino di un centinaio di tonni incanalati nelle reti. I tonnarotti a ritmo tirano le funi e chiudono definitivamente ogni via d’uscita a questo banco di tonni, escludendo qualsiasi spazio alla speranza. Urla ritmate e movimenti sincronizzati che caratterizzano l’azione sulla superficie del mare si contrappongono sotto il pelo dell’acqua a disperazione e disordine. Le pinne cominciano ad affiorare, il quadrato di mare che si stringe nella schiuma, emergono dorsi argentati; annaspando pesci di cento, duecento chili tentano di sfondare il perimetro di questa gabbia mortale. Cerco con gli occhi il vecchio rais siciliano dagli occhi chiari di normanno. È sul ponte della barca, lo colgo mentre scruta quel quadrato di mare agitato. L’aspetto è fermo ed eccitato, deciso e compassionevole. Sembra un giovane di 70 anni, consapevole del suo ruolo. Mi appare come un antico cerimoniere. Quando la camera della morte è chiusa, per un attimo tutto si ferma, i tonnarotti stanno immobili ai bordi delle imbarcazioni con rampini e ganci pronti alla raccolta. È un momento solenne che sa di preghiera, di richiesta di perdono per l’eccidio previsto e immanente. Un grido rompe quest’atmosfera, seguito da un clamore di voci. Comincia la mattanza. Le reti affiorano e i primi tonni vengono issati sul ponte. Si dimenano in un ultimo desiderio di vita. A breve tutto è sangue, il mare si colora di rosso, il ponte della barca e tutti noi siamo imbrattati di sostanza vitale.
Gli uomini scattano a un ritmo che ricorda la catena di montaggio: affondano ganci e funi nella vasca e tirano su enormi pesci. C’è eccitazione, esaltata dal clamore delle code che sbattono sulla superficie dell’acqua e sulle murate delle imbarcazioni e dal rosso del sangue che dilaga. Emergendo dal caos infernale che domina la scena, mi appare, come in un sogno, un tonnarotto: è saldamente ancorato sulla murata della nave e aggancia pesci medi e li trascina sulla barca. È la storia di un passaggio, un distacco dal proprio ambiente vitale, inteso come smarrimento, stupore per tutti, per il carnefice e la vittima. È qui che tutti comprendiamo il dolore.
A ogni arrivo, per suggellare la fine della storia, il vice rais affonda il coltello sotto la pinna del tonno a cercarne il cuore. Qualcuno s’immerge nel mare e nel sangue per far durare il meno possibile questa mattanza. L’eccitazione del sangue pervade i sensi, l’istinto è quello di gettarsi in acque limpide per purificarsi, e poi tornare verso la terraferma, pulito dal sangue degli animali sacrificati. Il pensiero è una via d’uscita per allontanarsi dal rumore della morte, per tornare alla normalità del calore del proprio focolare al buon vino bevuto al bar con gli amici di sempre. L’imperativo è allontanare il pensiero della morte.
Non è ancora il rosso e non è più il blu che comanda il pensiero dell’uomo seduto con il libro sulle gambe e gli occhi chiusi. Ora è il bianco della schiuma marina, dei ventri di questi pesci ammassa- ti nelle stive del vascello. È ancora il bianco della balena, simbolo dell’irrefrenabile istinto di libertà, indomito, che diventa vendicati- vo e terribile al solo pensiero di subire limitazioni. È il bianco del mistero che, quando diventa assoluto, quando ci circonda in ogni parte del nostro essere, quand’è fuori e dentro di noi, ci riporta all’immagine del mare bianco, immerso in un’immota nebbia che inghiotte Gordon Pym nel suo ultimo misterioso viaggio.
Ora nello stanzone è sera, l’uomo unificato è nel letto, poggiato su cuscini che lo tengono eretto, il capo all’indietro, gli occhi chiusi, e nella mente oscurata da questo buio cercato si affaccia una frase che sa d’incoscienza: io sono la balena bianca, indomita, se vuoi prendermi morte, fallo, ma non chiedermi il permesso.
Dopo la battaglia, durante il rientro, l’orizzonte blu ci accompa- gna discreto, ipnotico, catartico, conclusivo. Lo osservo, senza mai abbassare lo sguardo, per tutto il tragitto.
Al largo di Portoscuso, 10 giugno 2007
[Dario Coletti è fotografo professionista e coordinatore del Dipartimento di Fotogiornalismo dell’ISFCI a Roma. Il testo e le foto sono tratte da: “Il fotografo e lo sciamano, dialoghi da un metro all’infinito”, Edizioni Postcart, Roma, 2013]