La mafia come il kitsch uccide solo in salotto

di
Francesco Forlani
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Partiamo da un presupposto. Non credo ( ma ne ho le prove ) che la letteratura, il cinema, l’arte “di qualità” non possa accedere al Grand publique, se non a patto di rinunciare a qualcosa. La storia ci propone moltissimi esempi di invenzioni, sperimentazioni, creazioni, opere in grado di sparigliare le carte in tavola di una pretesa incomunicabilità tra qualità dell’opera e fruizione popolare. In musica, per esempio, abbiamo visto come nel passaggio dall’underground al grande pubblico, molte band non solo non abbiano “perso”, ma a detta di molti ci abbiano perfino guadagnato, e non solamente skei. Mi vengono in mente i Cure, i Talking Heads, Lou Reed ma il discorso può valere per una nutrita compagine che va dalla new wave, passando per il punk fino al reggae di Bob Marley, tanto per capirci. Per quanto riguarda il cinema, più particolarmente quello italiano, esperimenti come La meglio gioventù o il recentissimo La grande bellezza ci dicono che un’opera può valere nonostante il suo successo.
Questa premessa mi è necessaria perché vorrei capire con voi che cosa di due film, che hanno avuto eccellenti critiche e buoni incassi ai botteghini, non mi abbia per nulla convinto. Sto parlando di:

La mafia uccide solo d’estate
di Pif

Un boss in salotto di Luca Miniero

#

“La precondizione del kitsch, una condizione senza la quale il kitsch sarebbe impossibile, è la disponibilità, a portata di mano, di una tradizione culturale pienamente matura, le cui scoperte e conquiste e la cui compiuta autocoscienza il kitsch può sfruttare per i propri fini. Esso infatti prende in prestito da questa trovate, trucchi, stratagemmi, regole empiriche, temi, li trasforma in sistema e scarta il resto. Esso trae la sua linfa vitale, per così dire, da questa scorta di esperienza accumulata.”
( C. Greenberg, “Avanguardia e kitsch”, in Arte e cultura, Allemandi, Torino 1991, pp.17-31 )

showroom_bastille_12Per molti anni, a Parigi, in un percorso obbligato che mi portava dalla Rue de la Roquette alla Place de la Bastille, per poi continuare sul Faubourg St. Antoine, mi capitava di passare un po’ di tempo, il tempo di una sigaretta, davanti alle vetrine di un negozio di mobili il cui nome, Romèo, suggeriva il tono delle cose esposte, la fede incrollabile nell’arte del salotto, di un vero salotto ricco all’inverosimile di marmi e cristalli, porcellane e specchi, in un’esplosione di generi e stili tanto impressionante quanto insostenibile per ogni tipo di sguardo che non fosse protetto da occhiali da sole. Kitsch, appunto, allo stato puro.

Due domande, allora, si ponevano di fronte a quell’inverosimile convivenza di pantere nere  ultralucide con sedie Louis XV, lampadari rococò e tappeti da mille e una notte (possibilmente bianca).  Innanzitutto chi erano gli acquirenti? e la seconda più personale, perché mi attardavo ogni volta davanti a quelle vetrine?

Nella Storia della bruttezza, Umberto Eco dedica al kitsch, nel capitolo XIV, una buona decina di pagine, fornendo una rapida ma efficace sintesi bibliografica che comprende tra gli altri, Schopenhauer, “quando delinea la differenza tra l’artistico e l’interessante, inteso quest’utimo come arte che sollecita i sensi del fruitore.” Concetto, se vogliamo, ripreso da Hermann Broch che alla tecnica dell’effetto – e dell’affetto aggiungeremmo noi- attribuisce le stesse caratteristiche. Scrive infatti: “Il Kitsch. Questa soddisfazione degli impulsi ottenuta con mezzi finiti e razionali, questa patetizzazione del finito ad infinito, questo mirare al “bello”, conferisce al Kitsch un che di falso dietro al quale si intuisce il “male” etico.”

In che modo questa inversione di canone e registro, che si traduce con il “raccontare” cose gravi attraverso un registro da commedia si fa cogliere impreparato rispetto a una domanda che ne interroghi il suo senso più autentico? Il più delle volte la risposta elude quel disagio e spesso si traduce nella reazione stizzita dell’autore ma ancor più del lettore spettatore che quel libro, questo film lo ha amato e che sbotta dicendo: ma in fin dei conti è una commedia!

In modi e obiettivi diversi, La mafia uccide solo d’estate e Un boss in salotto, trattano il tema della criminalità, e lo fanno attraverso un angolo di lettura per certi versi simile, ovvero dell’uomo e della donna qualunque che con ‘sta cosa devono comunque farci i conti. Il nostro immaginario contemporaneo si è nutrito in questi ultimi trentanni di migliaia di narrazioni, per fortuna, ( e per narrazioni intendo di ogni genere, teatrale, letterario, cinematografico) che si proponessero nel bene e nel male un punto di vista, un’analisi, un sentimento, condivisibile o meno che fosse sulla Storiasiamonoi del nostro paese. In particolare Mafia, Camorra, Anni di Piombo, hanno generato fiumi di pagine, polemiche a mezzo stampa, tavole rotonde, portando l’uomo-donna qualunque a sbottare: mo basta però con mafia, camorra, bierre.! Ach du marùn ! In cui risuona l’altrettanto reazione stizzita di molti, in questi nostri meravigliosi anni, quando si parla di deportazione e di shoah.
Così, l’unico modo che rimane di raccontare questo tipo di esperienza a un immaginario già precostituito è di liberare la narrazione da ogni senso del tragico, dell’ineluttabile, sostituire la causa con l’effetto, possibilmente quello di una risata liberatoria .

I due film adottano, in tal senso, strategie molto simili, per esempio nell’organizzazione del montaggio, televisiva, rapida, autosufficiente. Sequenze come capitoli autonomi parcellizzabili e godibili in rete. Quanto le due produzioni fossero legate alla rete si evince anche dalle due “promozioni” in rete dei film. Per Un boss in salotto è stata proposta la diretta streaming delle riprese, il 30 maggio 2013, senza l’utilizzo di filtri né effetti, cosa finora inedita per una produzione cinematografica italiana (wikipedia). E per “La mafia uccide solo d’estate” la produzione di ben 10 clip, trailer del film su youtube e altri social network.

E la sensazione che ho avuto è stata che i trailer, i video clip, fossero i migliori sketch di tutto il film. Come se di una partita di calcio uno vedesse prima la sintesi con i gol e poi la partita tutta intera. Sketch, dicevamo.

Umberto Eco ci racconta come “secondo alcuni la parola kitsch risalirebbe alla seconda metà dell’Ottocento, quando i turisti americani a Monaco, volendo acquistare un quadro, ma a poco prezzo, chiedevano uno schizzo (sketch). Di lì sarebbe venuto il termine per indicare volgare paccottiglia per acquirenti desiderosi di facili esperienze estetiche.”
Questa “partecipazione” alla gravità del tema è più palese in Pif, soprattutto per l’uso delle immagini di repertorio relative agli attentati mafiosi, e quelle sì senza filtri al tragico, però anche in Luca Miniero, il piano sequenza dei veri camorristi che denunciano l’estraneità dello zio (Rocco Papaleo) all’organizzazione citava le famose immagini del maxi processo napoletano.
Ci sarebbero molte cose da dire poi sulla recitazione degli interpreti dove sia che si tratti di prove attoriali ineccepibili come nel caso della commedia di Miniero o di pessimo “gioco” in molti punti del film di Pif ( tecnica di recitazione mediocre come nella maggior parte delle fiction televisive) si avverte come un’inadeguatezza o della storia agli attori o di quest’ultimi alla prima.
Ma torniamo in salotto.
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Sempre nel bel libro di Umberto Eco mi imbatto ad un certo punto in una “magnifica” sorpresa.
“Se si accetta la proposta di MacDonald, un buon esempio di midcult sono i ritratti femminili di Boldini, un pittore a cavallo tra XIX e XX secolo, ritrattista di fama, noto presso la buona società della propria epoca come “il pittore delle signore”. I committenti dei suoi ritratti volevano un’opera d’arte che fosse certamente fonte di prestigio ma che celebrasse anche in modo inequivocabile le grazie della signora. A questo scopo, Boldini costruiva i suoi ritratti secondo le migliori regole della provocazione dell’effetto. Se si osservano i suoi ritratti muliebri si nota come il viso e le spalle (le parti scoperte) obbediscano a tutti i canoni di un sensuoso naturalismo. Le labbra di queste donne sono carnose e umide, le carni evocano sensazioni tattili; gli sguardi sono dolci, provocanti, maliziosi o
sognanti, sempre capaci di sedurre lo spettatore. Le donne di Boldini non evocano l’idea astratta della bellezza, non prendono la bellezza muliebre a pretesto per divagazioni plastiche coloristiche; rappresentano quella donna, e al punto tale che lo spettatore è portato a desiderarla.

01Avevo letto da poco, di un appartamento disabitato dagli anni ’40 a Parigi . “Era di proprietà di Madame de Florian , attrice socialista che fuggì verso il sud della Francia durante la seconda guerra mondiale, lasciando tutto intatto, con la speranza di ritornare. Non ritornò mai più a Parigi, ma continuò a pagare l’affitto fino al giorno in cui morì all’età di 91 anni ” leggiamo nell’articolo. E scopriamo come in questo luogo in cui la patina del tempo aveva fissato per sempre un giorno, come in una villa pompeiana, nel salotto viene ritrovata un’opera di Boldini, si proprio il pittore citato da Umberto Eco. “Il dipinto era di Boldini e il soggetto un bella francese che si è rivelata essere l’ex musa dell’artista e la nipote era colei che aveva lasciato l’appartamento disabitato per più di mezzo secolo. La musa era Marthe de Florian , un’attrice con una lunga lista di ammiratori tra cui il primo ministro della Francia, George Clemenceau e lo stesso Boldini .”
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Era come se il kitsch, qui rappresentato dal ritratto di una musa, potesse vivere attraverso questa sua sospensione temporale, l’autenticità dell’opera d’arte che le era preclusa. Solo il “non tempo”, ovvero il tempo non vissuto e sospeso di quell’appartamento, rendeva giustizia all’amore di un uomo verso una donna.

In conclusione sento di dover rispondere alla domanda che viene spontanea a questo punto: ma i film ti sono piaciuti o no?
Li ho visti, ho riso, mi sono commosso, me li sono, seppure con moderazione, goduti. Come la sigaretta davanti alle vetrine dl Romèo, in Place de la Bastille. Ma soprattutto non ho applaudito alla fine del film di Pif. Come si applaude il pilota al momento dell’atterraggio.

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13 Commenti

  1. Sempre che tutto questo non abbia a che fare con quanto sostenuto mi pare da Hugo:
    “Il grottesco è il tratto distintivo dell’arte moderna, consiste nella convivenza di bello e brutto, carattere multiforme della realtà”

  2. è il sole che fa nera la neve. ne farebbe solo acqua, in uno sperduto borgo di montagna, ma siamo qui, e qui, cemento catrame veleno fanno nera la neve, quando il sole la neve illumina

  3. Spero vedere i due film, perché sono una parte della geografia mentale che mi fa capire la complessità italiana.
    L’Italia è il paese dell’ ossimoro.

  4. a me è piaciuto Pif, caro effeeffe. E mi hai fatto venir voglia di leggere Eco.
    Sul boss ho un insopprimibile pregiudizio, invece.

  5. cara francesca
    la questione che ho sollevato è proprio questa. Non tanto perché ci piaccia (e piaccia ad altri, a molti altri, tantissimi altri) ma come e perché ciò accada nonostante sia più o meno palese l’impianto estetico, il primo e secondo fine,- diciamola tutta, la presa per il culo- e come impianto e primi e secondi fini non mi (ci) appartengano (e le prese per il culo facciano assai incazzare). Il problema delle cose kitsch non è che non piacciano quanto piuttosto il contrario. Stamattina in libreria da Rocco non avendo assolutamente intenzione di acquistare due libri di autori considerati come fari della sinistra italiana kitsch (sik) aujourd’hui, gli ho chiesto di leggerne uno ( da scRocco). Pp 261, corpo carattere abbondante, casa editrice importante – tempo di lettura 40mm. A proposito del concetto di imitazione, riduzione, bignamizzazione, readersdigestizzazione, riciclo (a pedali) proprie delle opere kitsch ma applicabile anche alle produzioni intellettuali,varrebbe la pena ridare la penna a Umberto Eco ( ecografia dell’arnaque), restituirgli la parola (op.cit.) non senza aggiungere che a lettura compiuta dell’innominabile libro, non sai se sia maggiore la “disonestà in buona fede” dell’autore o quella del suo entusiasta lettore. Scrive l’Umberto:

    Per quanto riguarda l’imitazione dell’arte “alta”, in un suo celebre saggio Dwight MacDonald ha opposto alle manifestazioni di un’arte di élite sia la cultura di massa (masscult) che quella piccolo borghese (midcult). Egli non rimproverava tanto al masscult la diffusione di ciò che oggi chiameremmo trash (o “spazzatura” televisiva), bensì al midcult di banalizzare le scoperte della vera arte per fini commerciali – accanendosi contro Il vecchio e il mare di Hemingway, e denunciandone il linguaggio artificiosamente liricizzante e la tendenza a raffigurare personaggi apparentemente “universali” (non “quel vecchio” bensì “Il Vecchio”).”

    Non “quella sinistra” ma “la sinistra”, non Enrico Berlinguer ma l’Enrico. effeffe

  6. Bel pezzo, davvero. Hai espresso a perfezione i dubbi che mi erano venuti a fine spettacolo dopo aver visto Pif. Ma perchè certi film attraggono pubblico? solo questioni di strategia commerciale o il kitsch è ormai koiné?
    C. C.

  7. Interessante ed audace, soprattutto nell’incipit. Che un’opera “meritevole” culturalmente, non possa piacere “ai più” è materia assai discutibile, innanzitutto perchè bisognerebbe definire cosa sia “meritevole” e quanti siano “i più”, ma anche perchè esistono nell’arte, come nella letteratura opere che fuoriescono da questi canoni di elitarismo culturale. Mi viene da pensare al “nome della rosa”, del signor Eco da te citato, strutturato in manierà più che sapiente, proprio per piacere “ai più”, ma riconosciuto come opera letteraria di grande interesse (sono pronto a raccogliere le decine di persone che diranno trattarsi di carta straccia). In effetti quella “categoria” di cui un tempo ridemmo, “le verità assolute”, in cultura come nell’arte hanno vita davvero breve. Certo, il kitsch, in molti casi infarcito di trash, è di grande appeal, quando non diventi addirittura di moda, anzi forse non c’è moda senza kitsch, come in un certo senso dici tu. Dei due film ho visto “la mafia uccide solo d’estate” e sinceramente l’ho trovato gradevole, proprio come quella tua sigaretta, pur essendo convinto che la banalizzazione del male nella sua essenza di verità, trascuri la lacerazione che esso reca a chi lo subisce, sempre.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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