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Zuppa di testa di capra

goatsdi Gianluca Veltri

 

Sì, sì, ora comincerete a dire: “Ah, il disco di ‘Angie’”; “Ma i veri Rolling Stones sono quelli di ‘Jumping Jack Flash’”; “Ma i dischi migliori dei Rolling sono ‘Let It Bleed’ e ‘Beggar’s Banquet’”, e via disprezzando. Non lo troverete mai nelle discografie consigliate, ma fermatevi un attimo: perché “Goats Head Soup è un album straordinariamente sottovalutato, che merita attenzione a quarant’anni esatti dalla sua uscita. È stato considerato il classico vaso di coccio in mezzo a un vaso di ferro (“Exile On Main Street”, 1972) e a un altro, se non di ferro comunque di qualche metallo (“It’s Only Rock’n’Roll”, 1974). Ma a essi “Goats Head Soup”, la “zuppa di testa di capra”, non ha nulla da invidiare. Anzi, ci offre una versione per molti versi inedita degli Stones, interessante, che non va trascurata. Un unicum.

Ed eccoci a “Angie”, una canzone che gioca sull’ambiguità. È dedicata a una donna (e se sì a quale? Alla fatale Anita Pallenberg o ad Angela, la signora Bowie?), o forse alla droga, l’eroina che stava dilaniando Keith Richards? Proprio attorno a lui ruotano diversi aspetti che riguardano questo disco dalla copertina gialla del 1973. “Angie” è soprattutto sua, anche se Richards partecipò poco alle session: stava tentando di riabilitarsi dalla tossicodipendenza. Non prese parte neanche alle session fotografiche, infatti si nota facilmente che la sua foto, sul retrocopertina, è diversa dalle altre ed è stata rabberciata alla meno peggio. È dovuto essenzialmente alla sua presenza a mezzo servizio, il volto inedito che la band assume: più spazio all’altro chitarrista Mick Taylor, Mick Jagger in forma strepitosa, la solita formidabile sezione ritmica della premiata ditta W/W (Wyman/Watts) e largo ai tre storici tastieristi stonesiani: Bill Preston, Ian Stewart, Nick Hopkins. Richards suona poco, ma c’è: il suo modo di comporre era cambiato, in quello scorcio di anni. Richards stravedeva per Mick Taylor come chitarrista, tanto da scrivere i pezzi prevedendo gli spazi che Taylor avrebbe riempito. Salvo rimanerne molto deluso sul piano umano, a causa della scarsa comunicativa dell’allievo di John Mayall. Ma questa è un’altra faccenda.

Qual è la sostanza di cui è fatto “Goat’s Head Soup”? È un disco decadente. Un miscuglio in cui si rileva una forte matrice blues, spruzzate di rock’n’roll – e fin qui… − ma anche ingredienti decisamente più sorprendenti. Il mantra chitarristico di “Dancing With Mister D”, la traccia iniziale del disco, è qualcosa più di un riff: incessante per tutta la durata del brano, diventa un ostinato che nella strofa danza sull’armonia di un solo accordo (La). Quasi un sabba modale. Quel modulo sembra parente di certe formule minimaliste alla Terry Riley, già entrate nel rock in quegli anni (tra gli altri, si pensi agli Who di Pete Townshend). “Dancing With Mister D”, laddove D dovrebbe essere d’iniziale di Devil, il diavolo, rimanda ovviamente al brano di qualche anno prima “Sympathy For The Devil”, del quale riprende, seppur con approcci differenti, un senso di possessione incalzante, dentro un crescendo dal vago sapore voodoo. I brani più sostenuti sono di ottima fattura: “Star Star”, il cui titolo originario “Starfucker” fu censurato; l’ovattato e ossessivo blues ferroviario “Silver Train”; il rhythm and blues di “Heartbreaker”. Il tono fondamentale dell’album, il colore prevalente, è dato però dalle ballad lente, pervase da un senso di malinconia invernale, di spoglio disfacimento. “Coming Down Again” è un pezzo ispirato (d)al vortice tossico di Keith Richards: ballata pianistica, di caduta e sperdimento, cantata dallo stesso Richards, il quale non si è mai ritagliato il ruolo di vocalist per brani men che rimarchevoli. Lenta e struggente, “Coming Down Again” inaugura un’ideale spina dorsale del disco, che prosegue con una romantic song un poco più convenzionale come la citata “Angie”, e soprattutto, sulla seconda facciata, da “Winter” e “Can You Hear The Music”. È un gioiello assoluto, “Winter”: una perla atmosferica, impressionista, con una chitarra ritmica sotto, utilizzata come bordone, un tappeto riverberato costante, e la chitarra solista usata in funzione fortemente vocalizzante (come già in “Coming Down Again” e in diversi altri episodi del disco). Introdotta da un flauto orientaleggiante, “Can You Hear The Music” è un’altra ballad ambientale, insistente, ipnotica. Le melodie ondeggiano su una base armonica che si mantiene mono-accordo (Do) per tutta la strofa, prima di intraprendere un ritornello a scala discendente fortemente melodico.

L’ascolto di questo disco, registrato in Giamaica e uscito giusto quarant’anni fa, ci mostra un volto meno noto dei Rolling Stones. Osservarlo con la lente del tempo attribuisce un fascino onirico ancora maggiore a questi solchi.

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8 Commenti

  1. Ok difendere, e anzi rivalutare, Goats head soup è cosa che solo un rollingstoniano di ferro può fare! E benvengano gli indefessi come Veltri. D’atra parte, quando io cominciai a farmi la discografia degli Stones – era l’epoca di Emotional Rescue – ingurgitavo tutto con lo stesso entusiasmo. Anche la Zuppa di testa di capra…

    • Andrea, “Emotional Rescue” è troppo tardo, per i miei gusti (e forse per la mia età). Ma fino a “Some Girls”, tra alti e bassi, i Rolling sono ok.

      • sono d’accordo, anzi io ormai mi sono ridotto a una forbice stretta e abbastanza classica: da Beggars Banquet a Exile, punto; ci ho messo vari anni a capire la grandezza di Exile, che la prima volta che ascoltai, scivolò via… ma ricordo anche un rollingstoniano di ferro che un giorno mi disse: i migliori rolling, gli unici che contino per me, sono quelli dei due primi album.

  2. Il migliore è sempre Beggar’s Banquet. Ma il tuo articolo mi ha convinto: appena riesco comprerò anche Goat’s head soup, di sicuro

    • Grazie per la fiducia, Carlo. Anche per me il migliore di tutti è “Beggar’s Banquet”. Trovo invece, in definitiva, sopravvalutato “Exile”. Anche per me, ai primi ascolti, scivolò via. Tornandoci sopra lo trovo un disco bello ma non il migliore. Continuo a preferirgli certamente, oltre a “Banquet”, “Let It Bleed” e i primi lavori originali.

  3. ma “sticky fingers”non lo considera proprio nessuno? per me fa parte della sacra triade con beggars banquet e let it bleed,e aggiungerei aftermath .

    • sticky fingers sta nella forbice d’oro, assieme a uno dei massimi live della storia del rock: Get Yer Ya-Ya’s Out! (avete presente la version di Midnight rambler, con il pubblico che urla a scuarciagola negli intervalli della canzone, nel passaggio rallentato e a singhiozzo…?)

  4. Io sinceramente per “Sticky Fingers” non ho mai straveduto (si dice così, giusto?). Se fossi costretto a comporre un podio ideale, ai due su citati (Let It Bleed e Beggars Banquet) aggiungerei Afetrmath.

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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