La fila

di Giovanni Dozzini

«Più che altro l’ho fatto perché per una volta vorrei vincere. Non che non abbia avuto dei dubbi, altroché, soprattutto all’inizio, ma oramai è talmente chiaro che non ci resta più alcuna scelta. Il passato è stato sconfitto, hanno ragione, ma in questo modo credo sia possibile guardare in avanti senza archiviarlo del tutto. Perché, diciamocelo chiaramente, anch’io faccio parte del passato».

La fila non scorre, e qualcuno, dietro al vecchio che ha appena parlato, comincia a innervosirsi. C’è una donna sudamericana dall’età indefinita, un’india dagli zigomi quadrati e gli occhi come pozzi neri, che resta immobile appena alle sue spalle e non dà l’impressione di guardare da nessuna parte in particolare. Ma poi viene un’altra donna, un’africana un po’ grassa con i capelli quasi a zero e le unghie variopinte, e lei sbuffa e mastica qualche parola in una lingua che potrebbe somigliare all’inglese ma non è davvero inglese. Ha in mano due succhi di frutta, due bottiglie di succo alla pera della Coop, un involto marrone che potrebbe contenere pane o affettati, e una confezione di carta assorbente. Stringe tutto contro il seno prosperoso, scalpita, solleva gli occhi, non si dà pace. Il vecchio si gira verso di lei e le sorride, passando sopra la testa della piccola peruviana, ma non ottiene risposta.

«Vedi» riprende a parlare «Non hanno pazienza. Non ce l’ha più nessuno, la pazienza. Una volta chiamavamo pazienza ciò che adesso chiamano passività, o rassegnazione. Per fare le cose serve tempo. Per farle bene, intendo. Quando c’è gente che lavora come in questo caso, poi, ancora di più. Se la cassiera ci sta facendo aspettare, ci sarà senz’altro una ragione che noialtri non possiamo conoscere».

E così dicendo si sporge un po’, arrivando quasi a toccare col mento la spalla dell’uomo che gli sta davanti. Prova a vedere meglio cosa sta succedendo alla cassa, ma la fila è lunga e lui è troppo lontano. Gli occhi, poi, non sono più buoni come erano.

«Bisogna avere rispetto dei lavoratori. Tutti. Quella donna nel corso del tempo ha acquisito delle competenze, delle conoscenze, che a noi non appartengono. Sa come si fa il suo lavoro, sa che valore e che funzione ha ogni suo singolo gesto. Spesso siamo orientati a pensare che quello della cassiera di un supermercato sia un mestiere semplice, alla portata di tutti, e invece non è così. O almeno, per essere una buona cassiera occorre tempo, ed esercizio. Per questo noi ci dobbiamo fidare».

In effetti la loro fila è l’unica che non si muove già da qualche minuto. Naturalmente ci sono dei problemi alla cassa, ma solo quelli più vicini riescono ad afferrare di cosa si tratti. Le altre colonne di clienti, parallele e sbilenche, scorrono a velocità differenti, ma scorrono. La donna africana per un attimo smette di imprecare, e si guarda intorno, sembra un animale che ha fiutato una traccia, per capire se non gli convenga cambiare. Potrebbe darsi, ma per qualche motivo si sente ancorata a quella cassa e a quella fila, e quando si volta e vede che dietro di sé stanno sostando altre tre o quattro persone si decide a restare lì dov’è.

«Questo, devo dire, è ciò che mi spaventa di più delle nuove generazioni. La fretta. Adesso li vedo, stanno sempre a comunicare e interagire, quasi in tempo reale. Una cosa non fa in tempo a succedere che già lo devono far sapere a qualcuno, col telefonino, col computer, a voce, con internet, in qualsiasi modo. Le cose oramai succedono per essere raccontate. E nessuno conosce più il gusto di passeggiare. Camminano, ma camminando fanno altre mille cose. Non si guardano intorno, non ascoltano, non cercano gli odori delle stagioni. C’è questa smania. Lo trovo un tale spreco».

Il suo carrello in realtà è un cestino rosso con un lungo manico e delle piccole ruote di plastica nera. Gli sarebbe bastato anche un cestino di quelli che si portano al braccio, come una sporta o una borsa da signore, perché tutta la sua spesa è una confezione di ravioli di Giovanni Rana, uno spezzatino di maiale incellofanato e un cartone di vino rosso. Ieri ha comprato un panettone della Coop in offerta, il pane se lo è dimenticato e se ne ricorda solo in questo momento.
«Accipicchia» dice.

Si guarda alle spalle, la sudamericana è imperturbabile, la bocca ridotta a uno sbrego bruno. Gli fa venire in mente un film western, indiani e cowboy, John Wayne e Robert Mitchum. Sorride, poi vira sull’africana, al momento assorta in un canticchiare più ridicolo che molesto. Sembra più calma, più distesa, e scuote leggermente la testa da cui penzolano due fili sottili e bianchi. Ascolta la sua musica, pensa il vecchio, la musica è sempre un ottimo balsamo per la fretta. Prova ad andare oltre, ma la mole della donna è imponente e gli impedisce di capire quante siano, di preciso, le persone dietro di lei. Calcola mentalmente la distanza e il tempo da lì al reparto panetteria, o come si chiama, e mentre è assorto in questi ragionamenti sente un pungolo che preme sulle costole. Si desta, e il pungolo diventa quasi una spinta, ma si rende conto solo con qualche fatica di ciò che sta cercando di dirgli la peruviana, e cioè che la fila ha ricominciato a scorrere, e può fare qualche passo in avanti. Le sorride, ma quella donna minuta ha già distolto lo sguardo, sempre che glielo abbia mai davvero rivolto, così lui torna ai suoi pensieri, non prima di aver compiuto i passi che ci si aspettava da lui. Dà un’occhiata al suo cesto, ed è evidente che uno spezzatino di maiale senza pane non abbia alcuna dignità. Domani, prova a dirsi, ma si blocca subito.

«Non arriveranno a tanto» dice «Non anche il giorno di Natale».

Oppure il forno, più tardi, proprio sotto casa. Però c’è una differenza, nel prezzo, e non capisce perché dovrebbe accettare il prezzo più alto per una semplice dimenticanza. Ecco, si dice, forse è proprio il caso che mi vuol mettere alla prova. Parlavo di tempo e di pazienza, e adesso potrei barattare un po’ dell’uno e un po’ dell’altra con pochi spiccioli. D’altronde cosa avrà mai da fare, stamattina?

«Oggi pomeriggio ci sono quelle commissioni da sbrigare, ma in effetti questa mattina mi pare di essere abbastanza libero da impegni. Potrei anche rinunciare al mio posto in fila e andare a prendere un pezzo di pane».

Tuttavia non si decide. Una volta era più risoluto, ma non vuole essere troppo ingeneroso con se stesso: una volta lavorava, e sul lavoro essere risoluti è fondamentale. Ora che il tempo si è dilatato, gli capita di tornare su una decisione anche molte volte. Questo non ha a che fare con la pazienza, pensa, piuttosto con una forma di insicurezza che con gli anni s’è accresciuta, anziché contrarsi.

«Non sono un vecchio saggio e pacificato» sentenzia, ridendo un po’ di sé.

Tutt’altro. Ma la fila è di nuovo ferma, e qualcuno, dietro all’africana, ha deciso di rompere gli indugi e indirizzarsi verso un’altra cassa. Lui ha questo problema del pane, acuito enormemente da quest’altro problema, più generale, dell’indecisione.

«Ecco perché in politica serve gente giovane» sbotta, quasi illuminato. «I giovani hanno le idee chiare e non si lasciano impantanare da troppe ubbie. Magari sbagliano, ma vanno dritti per la propria strada, con risolutezza. Ecco, i giovani sono risoluti, hanno spirito, e coraggio. Mettono in conto qualche passo falso, ma non se ne curano. I vecchi, almeno quelli come me, prima di rischiare di cadere in errore ci pensano mille volte. E così si paralizzano».

Questo, lo capisce subito, forse è un po’ in contraddizione con le sue considerazioni sulla pazienza. Meglio la pazienza o la fretta, quindi? Ma essere pazienti non significa essere indecisi. Anzi. Essere pazienti significa saper decidere avendo molti elementi – averli tutti è praticamente impossibile – per poterlo fare. Tuttavia, fretta, superficialità e risolutezza a volte possono andare a braccetto. Che guaio.

«Però bisogna anche riconoscere che non ci ho messo poi molto a decidere cosa comprare per il pranzo di domani. Ravioli, spezzatino e vino. E poi panettone. Non è un cattivo pranzo di Natale, questo. E io sono stato piuttosto risoluto. Non frettoloso, ma deciso, sicuro. M’ha aiutato la gola, indubbiamente, m’hanno guidato i sensi. Ma cosa c’è di male, in questo?»

Niente, pensa. Proprio niente. Ha una grande considerazione dei sensi. Spesso gli capita di pensare che siano ben più di cinque. Non li conta, non gli dà un nome, questo non gli interessa, ma ha la chiara percezione di dipenderne molto di più che dal ragionamento, certe volte. E questo gli piace. Non perché sia vecchio: è sempre stato così, da che se ne ricordi.

«Il ragazzo ha i sensi allerta, mi pare evidente. È anche per questo che l’ho votato. Si vince tenendo le antenne dritte, poggiando l’orecchio per terra, come gli indiani dei film di John Wayne, come la signora qua dietro, e mettendo le mani tra le viscere della gente. Un politico deve essere un aruspice che rimesta tra gli intestini del popolo. E lui ha capito tutto. Per questo vincerà».

Per questo vinceremo, pensa. Va bene la storia, va bene il passato. Va bene quella sua vecchia passione. Ma ora si tratta di vincere, finalmente. Quegli altri magari hanno studiato di più, hanno riflettuto di più. Ma la politica non può più essere solo speculazione. In politica bisogna agire. Fare le cose. In fretta. L’uomo davanti a lui, un piccoletto vestito come uno studente universitario con pochi capelli e un’ingombrante sciarpona che gli copre quasi metà della testa, si volta nervosamente e sembra sul punto di abbandonare la fila. In realtà non avrebbe molto senso, ormai la cassa è vicina e tempo pochi minuti sarà il suo turno. Però c’è qualcosa che lo turba, e il vecchio vorrebbe quasi chiedergli di che si tratti quando è lui a parlare.

«Mi scusi» gli dice l’uomo «Le dispiacerebbe se m’allontanassi brevemente per andare a prendere del pane? Mi sono appena accorto di essermene dimenticato».

Ah! Il pane. Anche lui. Che fatto curioso.

«Per me va benissimo» gli dice «Però forse dovrebbe chiedere anche a chi sta dietro di noi. La fila è lunga».

L’uomo, che deve avere non più di quarant’anni, annuisce, e scruta la coda della coda.

«Scusate» dice cercando di richiamare l’attenzione delle due donne straniere e degli altri clienti incolonnati. «Faccio un salto a prendere del pane. In meno di un minuto sono di nuovo qui».

La peruviana solleva le sopracciglia in una smorfia difficile da interpretare, ma nessuno penserebbe che voglia davvero opporsi. L’africana canticchia e non gli dà considerazione, mentre quelli dietro farfugliano qualcosa e uno di loro fa anche cenno con la mano di andare pure. Va bene. Così l’uomo abbandona il suo carrello davanti al vecchio, e si affretta ad andare a prendere il pane. Il carrello è pieno di molte cose che il vecchio non sa nemmeno riconoscere, a casa ci sarà sicuramente una moglie che sta aspettando la spesa per cominciare a cucinare, o quantomeno a preparare, in vista del pranzo di domani. Magari ci saranno i loro genitori a cena, magari ci sarà anche un bambino, o due. Il pranzo di Natale, un pranzo di Natale come tanti.

«Ha fatto quel che doveva fare, senza pensarci su troppo. Io me ne sto qua da un quarto d’ora, e non ho ancora deciso un bel niente. Ecco, è per questo che servono i giovani. Loro afferrano al volo i bisogni, i loro e quelli degli altri. E agiscono di conseguenza».

Avrà proprio ragione? I suoi bisogni stanno davvero a cuore a qualcuno? Questo non lo può dire. Però la risolutezza gli piace, non c’è niente da fare. Gli piace molto. Qualcuno potrebbe scambiarla per fretta, magari anche per superficialità. Però questo è l’unico modo per fare andare avanti il mondo. La gente le sa, queste cose. Per questo lo voteranno tutti, la prossima volta. Vinceremo, pensa il vecchio, e poi il ragazzo si metterà subito a fare quel che c’è da fare. Di che cosa si tratti, questo a essere onesti non lo ha ancora ben chiaro. Ma deve essere la vecchiaia, e la sua malattia dell’indecisione. Sa di dovere avere la pazienza di lasciarlo fare, di fidarsi.

«Fidarsi di chi sa come fare. È questo il punto».

Quando l’uomo con lo sciarpone ritorna, un paio di minuti dopo, la fila non s’è mossa di un millimetro. Aveva pensato di prendere un pezzo di pane anche per il vecchio, ha sentito tutto il suo rimuginare, ma poi ha deciso di farsi gli affari propri. Appoggia il suo pane nel carrello, e non si volta a ringraziare chi gli stava dietro. Il vecchio, se non un grazie, si sarebbe aspettato almeno un sorriso d’intesa, ma ormai s’è abituato a fare i conti col mondo. Non fa niente. E per oggi e domani, niente pane. Il tempo è prezioso, e le mattine sempre troppo corte.

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1 commento

  1. Ci vorrebbe anche pazienza per scrivere, ma é una di quelle cose che speso viene meno quando sono in vista facili guadagni. Ecco questo é un estremo triste dell´editoria.

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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