Processo
di Davide Orecchio
Tra il rantolo e il sangue c’è la tesi che muore. Seppellisci la sintesi in un cimitero di feti a Firenze. La tesi resta in coma due giorni, poi muore. Crema la tesi. Arresta l’antitesi. La giovane selvaggia sgraziata. Accusala: hai ucciso la tesi. Senza tetto né legge le cola il no dai capelli, dalle labbra le sorge, vibra nelle corde vocali. Dice sono innocente. Dice difendo me stessa. Sugli scranni maggiori il giudice e la giuria del popolo nostro. Poco sotto il procuratore e il pubblico del popolo nostro. Nell’orgia di legno s’alza l’antitesi: la tesi voleva cambiare, io sono quel che è, quel che resta e vuole restare.
Il pm si strozza e domanda (che parli più forte, che si faccia capire): adesso che lei uccide la tesi, che voleva cambiare, non cambierà e non resterà nulla.
L’antitesi: io – non ho ucciso – nessuno – la sintesi neanche era nata – chi non nasce non muore – la tesi è causa della propria rovina – dalla sua costruzione viene il buco nell’acqua – nel sangue.
Dubbi
La giovane ha l’irruenza del no che è una forma di vita e tra la mia corteccia e l’amigdala vive il dubbio in una casa di gnomi. Dentro al cervello e io appena m’accorgo e intanto maturo col dubbio che s’alimenta delle mie briciole: le percezioni del mondo che vivo. Il mondo che invecchio e m’invecchia. Ogni fatto nutre e vivifica il dubbio che mette famiglia tra la corteccia e l’amigdala del mio cervello. Adesso dubbio non più, ma dubbi. Dal singolare al plurale in quella terra di gnomi che mi staccherà la corteccia. Questo presente di dubbi è il futuro della demenza – mia. Orfano della sintesi, vedovo della ragione diventerò l’uomo nebbia, l’uomo foschia e altri decideranno per me. Altri decidono anche ora per me, ma almeno ho i miei dubbi (i miei gnomi presente, la mia tenebra futuro senile).
Processo, non vita
Sullo scranno l’antitesi giovane s’involucra nel no guscio, l’urlo di legno e l’architettura di unghie. Dopo il verdetto l’antitesi s’appende nella cella sgraziata sboccata ma non si spezza del tutto. Lo spezzo del tutto non c’è. Nella cella l’antitesi si rovina e poi scalcia. Ma la ragazza oggi non termina.
La storia è quel che vedo con l’occhio e poi la bocca racconta e il corpo sgusciato adesso in custodia statale l’alimenta la spietatezza del medico. L’antitesi è ora la tesi. La ragazza senz’animo è la costruzione di un mondo diverso; l’ipotesi. L’antitesi è il medico invece. L’antitesi è lo stato custode. L’antitesi ha la tecnologia della legge, della scienza, del tubo catetere, il mazzo di carte del plasma. La ragazza sgraziata sgusciata ex antitesi ora ipotesi pone le questioni seguenti al mondo dove io invecchio e che m’invecchia e che invecchio:
respirazione?
artificiale?
non morte?
non vita?
Qua dentro tra l’amigdala la corteccia Omero Ezra Pound il profetico Alzheimer amletico parlo –
parla
una voce
la mia?
– dico: più empatia. Carità. Compassione. Fate la grazia.
Esumiamo la sintesi dal cimitero dei feti a Firenze per l’autopsia. Il risultato l’esame ci interroga:
verità?
giustizia?
La ragazza sgraziata l’antitesi disse al pm: qual è il mio interesse? Il mio interesse è che io sono.
L’ipotesi si scagiona col ricordo
Nella cacofonia e col suono (an)estetico delle scarpette rosse m’è tornato il ricordo di un altro rosso che era il sangue di mia madre sulla tempia lo zigomo la guancia di mia madre, un rivolo. Colava dal punto dove l’aveva colpita la cornetta di un telefono Sip a rotella. Mia madre era nel suo sangue, umiliata. Tremava. Guardava. L’uomo che l’aveva ferita, guardava; guardato, umiliato. Da un pozzo lontano negli anni ottanta ero io la testimone. Dalle tubature retoriche ho spurgato il ricordo. Ma porca miseria poteva anche restare dov’era, il ricordo; ossia un non ricordo. Quei due, umiliati, il feritore e la donna: non vanno oltre. Si fermano. E’ il limite, il rivolo. Ma il sangue spezzò la famiglia. L’irrigazione del divorzio e dell’odio venne dal rivolo, che poi è la cisterna dove sono affogati il padre, la madre, la figlia. Sei anni, forse sette: la testimone si fece un’idea, un sentimento di non menare le mani? Di non alzare una mano? Di non causare rivoli che mettono al mondo cisterne? Dev’esserci un nesso. Perciò io, che sono quel che sono, non ho ucciso la tesi.
L’ipotesi vive il suo sogno
Io. Sulla branda. Nel biancore. Scendo sulla pista tra il rimorso e il rimpianto. Abbraccio gli abbracci. Accarezzo le carezze. Il coma è la litispendenza ed è escusso. L’udienza del sogno. Ascolto il mare, la cornacchia, il tuono, la pioggia.
La bambina.
Non processarmi. Non convocarmi. Resto in silenzio se tu sei il giudice zitto e la giuria riflessiva. Un processo di sguardi, di gesti, senza parole. Forse una nota. Una melodia. Nel nostro non rumoreggiare viene su la natura. Giudice, il ruscello lo senti anche tu? Scalpiccia sul cuoio del mondo, fa i dispetti della creatura vitale ed è entrato qua dentro nell’aula, nel sogno di me che: sono morta, e vivo. L’acqua. Due pecore si dissetano. Due pecore dormono sull’erba e le feci. Una roccia. Un campo di torba. Il mare, il faro, gli scogli.
Il gabbiano s’accosta e mi chiede: «Tu voli? Ti piacciono i granchi? A me piace cavarli di sotto le rocce, spolparli. Li assedio dove finisce la terra, dove il mare inizia. Li pinzo e stano col becco. Quando mi sazio li baratto al villaggio con acciughe e code di rospo. Io sono un gabbiano permutante. Io sono libero, e tu?»
Io sono viva, muoio. La ragazza che pensa pensieri e sogna il suo sogno. Sullo staccio mi sfibro e separo dalla pelle la carne, dalle ossa il decubito. Voltami, voltati. Il gluteo si guasta ed esulcera in un pezzo di carne che anche tu compatisci, nel vederla viola così. Un poco ancora di sogno ti va, gabbiano?
«Se ti capita assaggia i miei granchi nell’esosfera dove ti porto, ti volo, dove la necrosi è illegittima. Sono rari, prelibati, non paguri qualsiasi. Un tempo infatti erano uomini. I miei granchi nascondono la carne del giacobino. Il reduce. Che si ripara. Dalla civiltà. Che lui odia. È il mio granchio rintanato nella coccia; che la marea ipnotizza, che le alghe solleticano, che la fratellanza non smuove più, che libertà ed eguaglianza non incantano come l’eco della grotta dove lui fa la tana. Impaurita dal bambino dalla madre e dal gioco, dalla corsa del cane, dagli spruzzi del cavallo che scalpita, dal pescatore con l’esca la fiocina e il sacco: la granseola giacobina s’è andata a nascondere sotto lo scoglio. Un tempo era tutta un complotto per il mondo sottosopra col fanatismo e la fede. Oggi è l’imbelle. Che non sfugge. Al gabbiano permutante che la scova, trasvola e baratta. Non c’è astuzia nel rivoluzionario sconfitto che per sopravvivere s’è fatto granchio e quindi muore spolpato. A te che sei l’antitesi interessa la storia?»
Io non sono più nulla. Mi disfo. Le pupille, le palpebre, le saracinesche, la gota, una lacrima, la saliva, il labbro, il vento, l’ascesa, l’esosfera, il gabbiano.
La pigmentazione
del
desaparecer.
D
E
S
A
P
A
R
E
C
E
R
Io – ero – l’antitesi.
Immagini:
Henri-Georges Clouzot, La verità, 1960.
Jan Vermeer, Ragazza con l’orecchino di perla, 1665-66.