Roma e Treia nei Sogni di Dolores Prato (I)
di Elena Frontaloni
Parto da Nabokov, dalle Lezioni di letteratura: “Non dimentichiamo che l’opera d’arte è sempre la creazione di un mondo nuovo”; e ancora: “l’arte dello scrivere è un’attività assai futile se non comporta anzitutto l’arte di vedere il mondo come potenzialità narrativa”. Il problema individuato da Nabokov era se ci si potesse aspettare o no, da un romanzo, e in generale dall’opera di un vero autore, informazioni affidabili su un luogo o un periodo storico, e la risposta era sostanzialmente negativa, o almeno negativa in prima battuta: da buoni lettori, infatti, occorrerebbe anzitutto osservare da vicino questo nuovo mondo creato dal grande autore, se lo ha creato, poi chinarvisi sopra, vederne la miracolosa unità sotto le metamorfosi, le ricostruzioni, le effrazioni e rifrazioni derivate dall’atto del narrare. Solo dopo, dice Nabokov, sarebbe il caso andare ad analizzare i legami con altri mondi e settori della conoscenza.
Mi sembra un approccio adeguato ai testi di Dolores Prato: pochi autori, infatti, hanno voluto vedere più di lei il mondo, e la propria vicenda nel mondo, come autentica “potenzialità narrativa”; pochi hanno preso tanto sul serio il dato di realtà col solo scopo di eluderlo continuamente, sprofondare nella descrizione dettagliata di oggetti, paesaggi, episodi esistenziali per farne perdere le tracce, e quindi ricreare un mondo nuovo, con pochi punti di riferimento certi al di là delle decisioni imperiose della narrazione, queste ultime versate sempre dentro opere che potremmo definire “aperte”.
Il cumulo di carte lasciate da Dolores Prato, se da un lato mi sembra testimoniare una lotta estenuante con l’autobiografismo e la prima persona (rifiutati con una certa costanza, emarginati nell’appunto estemporaneo e solo alla fine della vita, per necessità anche biologico-esistenziale, accettati come modalità di organizzazione dei contenuti pienamente letteraria, nonostante quel che ne potessero e ne possano ancora dire critici letterari, studiosi e recensori), ecco, se da un lato mi sembra il frutto del lavoro di un’autrice che combatte con idiosincrasie letterarie insieme proprie e del suo tempo e alla fine capitola davanti al proprio eccezionale modo di scrivere e di guardare, al proprio modo di creare artisticamente un mondo (anche perché la fine della vita si avvicina e in ultimo giunge), dall’altro ha tutto l’aspetto di una donazione di fiducia alla potenzialità narrativa di questo mondo, e nella fattispecie del mondo in cui si vive, del mondo in cui si è vissuti.
Dolores Prato ha creato più di un mondo, nelle sue diverse opere aperte, e lo ha fatto con anni di lavoro sulla memoria, sul quotidiano e sulla documentazione che possedeva al riguardo degli oggetti dei suoi testi (come attesta il carteggio con Giorgina Morbidelli durante la messa in pagina di Giù la piazza non c’è nessuno). Ma un simile lavoro che si è concretizzato anzitutto in scrittura, e in scrittura letteraria, dentro testi che, più o meno finiti o ritenuti tali, inclinano sempre verso la forma della narrazione, anche quando assumono l’aspetto del saggio, dell’articolo del giornale o sarebbe forse meglio dire del pamphlet (i pezzi giornalistici di Dolores Prato erano sempre troppo lunghi, imprevedibili, recitati come da un pulpito, e infine di taglio non adeguato ai giornali dove pure è riuscita a pubblicarli).
Per farsi un’idea di questa testarda trasformazione in racconto perlopiù “narrato” e quasi “parlato” (sta proprio nei Sogni il desiderio di scrivere un libro recitandolo a registratore) dei dati di realtà, è sufficiente prendere anche un laboratorio a caso tra quelli lasciati aperti dalla Prato – consiglio vivamente però, a chi volesse, di porre l’attenzione su quelli, di antica fondazione, intitolati “Luoghi” o “Io”, dove peraltro si troveranno passaggi e descrizioni direttamente riversati nelle opere tarde, quelle in cui prende forma il narrare “per lasse” dell’autrice.
Il libro dei Sogni, in quest’ottica, rappresenta un caso particolare: a lungo infatti Dolores Prato pensa alla registrazione delle proprie esperienze oniriche come a un filone di scrittura buono sostanzialmente per operazioni di riuso nelle grandi opere a venire che progetta. Alla fine della vita, però, donando le proprie carte al Vieusseux, ne parla come di un’opera in sé coesa, seppur fatta di racconti autonomi, di tasselli che possono anche esser pensati come indipendenti, infine come una raccolta di “racconti onirici” (la definizione è della stessa Dolores Prato).
Le due anime, i Sogni come materiale di riuso e come raccolta di “racconti onirici”, rimangono compresenti nel testo dai primi pezzi agli ultimi, così che è possibile osservarlo in una doppia dimensione: come un laboratorio in cui Treia e Roma diventano quel che sono nelle opere pubblicate in vita o ereditano l’aspetto già assunto in Sangiocondo o in Giù la piazza o in Le Ore (il primo sogno è degli anni Venti, la maggioranza degli anni Cinquanta e Sessanta, gli ultimi sogni sono posteriori alla confezione di questi volumi), e come opera a sé stante, dove Treia e Roma, in ogni racconto, sono componenti del “mondo nuovo” che Dolores Prato riesce a costruire attraverso la registrazione letteraria dei propri sogni; un mondo che non assomiglia in tutto e per tutto a quello organizzato in altre opere.
Vale la pena di seguire il filo di questo secondo aspetto, tenendo però sullo sfondo, e sempre presente, il primo, vista la natura anfibia dell’opera di cui sto parlando. A livello generale, Roma e Treia convivono nei sogni con un numero impressionante di altri luoghi, da Barvica ad Acquatraversa a Cortona a Perugia alle molte piazze, campagne e città nuove immaginarie o non meglio identificate da scoprire o dove si muove l’azione del sogno: non hanno, in una parola, quella centralità che si può osservare in altri testi, dove Treia e Roma (ma anche San Ginesio) diventano autentici protagonisti, con altri luoghi a far da comparsa o da puntello a riflessioni ed epifanie decise dalla memoria che si trasforma in narrazione. Roma e Treia, all’interno dei sogni, non hanno lo statuto dei protagonisti, ma di semplici personaggi tra gli altri – uomini e luoghi –, al pari di tutti gli altri personaggi immessi in una macchina onirica che prende il via da una realtà qualsiasi (una parola, un nome, un monumento, un ricordo) e la deforma per ricostruirla.
In genere, nei Sogni Roma è la città dell’età matura, la città dove è morta la zia Paolina e, per stare sulle soglie reali del sogno, quella in cui, senza avvertirne il lettore, si sogna e si abita (i “qui” del testo sono sempre riferiti alla “città eterna”), mentre Treia è la città dell’infanzia, quella che non si è più riveduta e che tuttavia nel sogno è viva, presente, ancora come la zia Paolina: il luogo dove si torna o si vuol tornare ad abitare o a camminare dopo molto tempo, in compagnia di personaggi dell’infanzia, dell’adolescenza, della maturità.
Per dire più nel dettaglio, la Roma che entra nei sogni è quella di San Pietro, uno spazio che ricorre spesso, e poi quella “vecchia” delle viuzze e delle stradine, ma anche quella già labirintica ed inondata dal traffico di gente e mezzi degli anni Sessanta che sperde e disperde Dolores Prato, e soprattutto quella delle case di amici e conoscenti, di luoghi del passato come l’ospizio di Santa Galla, distrutto sotto il fascismo per dar posto all’anagrafe, o molto frequentati come la Casa di Dante, di nuovi supermercati e di antichi o vecchi negozi e botteghe in via di sparizione (da Moriondo a Angelino di Tor Margana alla sperdutissima parrucchieria dove si incontra il diavolo alla latteria “il grappolo d’oro”, poi divenuta bottega): spazi chiusi dunque, in primo luogo. I posti “nuovi” sono guardati con sospetto e pronti a durare, quelli noti e antichi sono sempre minacciati di finire, o di diventar altro, a tal punto da trasformarsi in ricettacolo di misteriose e inquietanti manifestazioni di presenze o di assenze tra le più dolorose. In tutti i casi, questi luoghi subiscono violente trasformazioni, come accade nella prima apparizione di San Pietro, dove l’io che sogna perde una borsetta e perde la zia Paolina: sulle prime si è dentro una chiesa enorme, non meglio specificata, questa chiesa si trasforma in San Pietro, con dentro però una sorta di mercato (la stoccata contro il mercanteggiare del Vaticano, sebbene banale da annotare, è presente), infine si arricchisce di uscite per accogliere e far passare la gente che annuncia all’io che sogna la morte della zia Paolina, quasi immolatasi in onore della borsetta dell’io che sogna – la morte della zia è elemento ricorrente nei sogni (da ricordare almeno il pezzo La scala).
Di Treia si sogna in tempi non sospetti (negli anni Cinquanta) lo spaccato che s’incontra alle prime pagine di Giù la piazza non c’è nessuno (“ecco il duomo, la piazza, San Marco, ecco tutte le sue stradette, quelle più alte non coprivano con le loro case quelle più basse, ecco San Girolamo, ecco la guglia, ecco la strada che si biforca, un ramo va a Bell’amore, uno al cimitero”). Ma senza alcun dubbio c’è un sogno, in particolare, a dimostrarla come città recuperata per via di un’immagine onirica di forza parziale, torturante, che sminuzza e trasforma quel che ben si conosce, e lo fa diventare racconto. Il pezzo è del 1968; nel sogno si è visto, di scorcio, un pezzetto di Treia: “non in realtà”, sottolinea ancora l’autrice, ma “in riproduzione fotografica”. In un’esposizione di fotografie grandi come quadri, si scorge una foto “strana”, presa da “una porta socchiusa”: ecco San Marco di Treia, riconosce Dolores Prato, che era sì “senza ripiani” nella foto, ma nello stesso tempo è riconosciuta come San Marco nel sogno (dunque non semplicemente gli “somiglia”).
Questo meccanismo di trasformazione e riconoscimento dei luoghi, tanto facilmente riscontrabile nella pratica del sognare comune, è il dispositivo letterario pressoché unico e per nulla banale cui vengono sottoposte tanto Roma quanto Treia nei sogni. I paesaggi noti sono sempre coperti da una lente che ne rende incerta l’identificazione (per esempio lo sguardo è compromesso da un ostacolo) e inoltre non sono come sono nella realtà, ma sono quei luoghi (a San Marco mancano i ripiani, a Piazza San Pietro si aggiunge un’entrata, a Piazzale san Giovanni si toglie il traffico). Quel che ne discende è il tradimento di ciò che Roma e Treia rappresentano, rispettivamente, nel mito tanto storiografico e nel mito della memoria costruiti su questi luoghi da Dolores Prato. E ciò che ne esce è ovviamente una diversa mitologia, luciferina, in questo caso, sulle due città, fondamentalmente unite da un sentimento di odio-amore da parte della Prato, di desiderio e rifiuto, molto vicino a quel che possiamo dire l’autrice imbastisce, a livello letterario, con il personaggio della zia Paolina, che è la presenza più ossessiva nei sogni, per ammissione della stessa autrice, nonché la figura che in Giù la piazza, lo ricordo per inciso, raccomanda alla nipotina di non raccontare mai i propri sogni.
Dunque i due oggetti narrativi hanno molto in comune: nei sogni, sono due città cui ci si rivolge con desiderio di accoglienza e di comprensione e che si trasformano sempre in prigioni o labirinti.
[continua]
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[L’immagine è tratta da www.romasparita.eu]
I commenti a questo post sono chiusi
Bene la presentazione. In qualche modo, a suo modo, dunque originalissimo, la Prato recupera (proustianamente)il suo passato. Doveva dargli volto per dare a se stessa un volto. In questa ricerca (disperata)di un sè non connotato dai soliti archetipi (familiari etc.)la scrittrice era naturalmente sola, solissima. Ci voleva la morte dopo la sua ostinazione a rigettare i drastici tagli in vista della ‘leggibilità…Oggi quell’ostinazione, quella coerenza protratta, quella solitudine non condivise da alcuno incominciano a fare breccia. Dolores Prato sembra indicare una delle poche vie percorribili….
[…] [Qui la prima parte del saggio] […]