Tutte le madri felici si somigliano
di Helena Janeczek
“La nuca, quella parte anonima, angosciosa e arcana, la nuca fu ai miei occhi il volto di Giulia nei primi diciotto mesi di vita di nostra figlia”, confessa Glauco Revelli, Il padre infedele dell’omonimo romanzo di Antonio Scurati. Anita, la bambina, è venuta per salvare e per dividere: salvare da un’esistenza satura, dividere suo padre da sua madre. Accade con il terremoto di un parto indotto e attraverso il protrarsi di una sofferenza tanto più sconvolgente quanto è corollario di un legame affettivo mai provato prima. Giulia, la moglie, si è trasformata in una presenza muta, chiusa, senza volto. È diventata un oggetto del desiderio inavvicinabile, eppure quando Glauco la tradisce (poco importa se in un crescendo di fantasie sessuali o per davvero) si sente infedele a sua figlia. Il libro scandaglia la paternità con un’insieme di commozione e senso del ridicolo, attenendosi a un punto di vista che non concede spazio autonomo al personaggio della madre. Il romanzo di Scurati è una delle più recenti esplorazioni letterarie che negli ultimi tempi hanno convocato al centro la figura del padre, fenomeno affiancato per la saggistica dal grande successo di Il ritorno di Telemaco di Massimo Recalcati. Nulla di altrettanto evidente è accaduto dalla parte delle madri, dove non è il ruolo in sé a arrancare verso una ridefinizione. Però se per un padre la nascita di un figlio rappresenta un evento spartiacque che preme per trovare una voce singolare, come mai non insorge il bisogno altrettanto forte di raccontare il lato ancora più totalizzante di un’esperienza che scardina la vita di una donna abituata, pari al suo compagno, a sentirsi padrona del proprio tempo e spazio, nonché del proprio corpo? Ci ha provato Alina Marazzi con Tutto parla di te, film visto in una sala riempita di pubblico soltanto femminile. La regista ha cercato di fare molte cose in una: raccontare l’incontro tra due donne, comunicare ciò che può significare una maternità difficile, fornire aiuto, appigli concreti per le madri. Il senso veemente della rottura di un silenzio emerge proprio dalla scelta di non rinunciare a nessuno di questi aspetti, scelta che si ripercuote sul linguaggio cinematografico. Per tenere insieme le singolarità soggettive con una problematica accomunante e inoltre per trovare espressione a ciò che risulta quasi indibile, Marazzi sperimenta con un intreccio tra finzione e documentario, arricchito da scene di teatro-danza, fermo immagini, suggestioni di vecchie foto, persino filmini d’animazione. Emma (interpretata da Elena Radonicich) è una ballerina privata del suo lavoro e linguaggio espressivo da una bambina che piange sempre. Il padre c’è, ma per lei è come se vivesse su un altro pianeta. Invece un’estranea riconosce qualcosa del proprio destino nella disperata solitudine di Emma e prende a starle vicina come un ombra che segue un’altra ombra. L’ultima parte riserva una sorpresa. La donna interpretata da Charlotte Rampling non si rivela, come si era portati a immaginare, una madre che ha commesso un gesto irreparabile, bensì una figlia. Una figlia in là con gli anni che, per riattingere alla parte più oscura della propria storia, cerca di proteggere una ragazza. Un’invenzione narrativa che nella sua semplicità ricorda che tutti, a qualsiasi età, si portano appresso il lascito del rapporto primario con la madre e che quindi la maternità è un argomento che non riguarda solo chi l’ha vissuta. Forse proprio per questo spalancare la porta su una zona di ambivalenza assai più ampia e inevitabile di quanto si manifesta nella deriva della depressione post-parto, continua a apparire se non un tabù, almeno un gesto da evitare con gli automatismi benefici della rimozione. Ma è una perdita perché l’infelicità materna, non importa se protratta o passeggera, può riconoscersi come altra faccia dell’amore – quella imperfetta – soltanto se viene accolta e non negata. Altrimenti tutte le madri felici continueranno a somigliarsi (trovando la loro iconografia nella pubblicità per pannolini), mentre ogni madre infelice percepirà di esserlo esclusivamente a modo suo.
pubblicato su “La Repubblica”, 23 novembre 2013
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Alessandra Sarchi racconta il parto
http://www.alessandrasarchi.it/cosi_simile_a_una_morte/
Ho letto da pochi giorni il libro di Scurati. Forse anche per via di una fortunata esperienza esistenziale, quel suo padre mi è sembrato “sgradevole” oltre che sbagliato. Tardivo, occupato delle sue emozioni, esteta della crescita di sua figlia più che onestamente impegnato ad accompagnarla… Come altri padri di mia conoscenza invece sanno fare, perché figure centrali lo sono diventati davvero, in molte della piccole famiglie odierne.
Grazie mille di questo testo, Helena. Non conoscevo il film. Se mi è possibile cercherò di guardarlo.
Cara Virginia,
certo che può risultare sgradevole il protagonista di Scurati, anzi forse è proprio concepito per fare questo effetto (magari nemmeno solo alla lettrice donna e madre). E sono altrettanto certa che là fuori, nella “vita vera” esistono padri che sanno vivere con più serenità e gioia univoca il loro diventare padri e quindi anche essere validi compagni delle madri. Però a me interessava che quel romanzo rappresentasse il lato più oscuro, conflittuale,ambivalente di quell’esperienza.
L’intenzione era palese e l’avevo colta. Mi faceva piacere “liberarmi”, commentando, di quel padre malriuscito. E inconsapevole: nell’epilogo si mostra sicuro che la figlia adulta conservi ricordi affettuosi. i bambini colgono con istinto sicuro la criticità dei rapporti.
La tua presentazione è un invito a vederlo! lo cercherò…