“Nero è il nero”
di Danilo Mandolini
Guardo mio padre guardarmi,
negli occhi parlarmi.
Guardo mio figlio guardarmi,
negli occhi ascoltarmi.
Bari, 15 ottobre 1959
[…]
La partenza per Napoli si avvicina.
Domenica mattina alle due e trenta, infatti, lasceremo Bari.
[…]
Dicono che per andare a Capri, da Napoli, ci vogliono solo tre ore di vaporetto; sicché, volendo, si può andare anche tutte le sere.
[…]
Rispondimi subito.
[…]
I sassi neri nel buio sono bianchi
ed io parlo di mio padre che non c’è,
che due volte è morto e che mi manca,
che lo prego perché torni nei miei sogni
a dire cos’è stato del suo essere
e del mio che ne sarà già da domani.
Nero è il nero che qui si ostina,
che sembra sopravvivere alla vista.
La sera del ventuno dicembre del millenovecentosettantasette un treno si fermò (fu fermato) nei pressi di Faenza.
L’aria era calma e fredda, prima di partire, scossa soltanto dalla vertigine invisibile che il vento crea quando s’insinua tra due pareti prossime e senza luce nel mezzo.
Così… Rapidamente salendo e poi precipitando, come a tracciare i confini di una percezione che scappando ti stordisce.
Nel mezzo di un dicembre senza luce
la fessura di un sorriso che saluta
lacera e ferisce come un taglio
il volto di chi guarda e non capisce
che un lampo non dice chi è che resta
o chi muore e non sa cosa succede.
Tu cadevi in un fremito convulso
e con forza mi spingevano lontano.
Napoli, 9 novembre 1959
Mia cara, finora non ho potuto vedere Il musichiere perché alle nove di sera lo spaccio chiude.
Questo mi dispiace molto e tu sai quanto mi piaceva Il musichiere.
Purtroppo è così.
Pazienza.
[…]
Ti bacio con amore.
Tutto è fermo e il mondo corre
sotto l’azzurro luminoso e alto
dell’ambulanza che fende aria e vie,
che spinge avanti cancelli e case
fin dove il fiato si spezza, rovina
solo a pensarci vicini e nostri.
Altri come noi respirano l’assenza;
come te: morti e vivi dentro un corpo.
Sorride, sorride e serra gli occhi
mentre la suora che va e poi ritorna
implora di dormire e non stancarsi,
ripete con parole che non dice
che la pena è un passo da levare
incontro a un luogo senza nome,
qui, tra letti e foglie, oltre i vetri.
Sorride, sorride e serra gli occhi.
Arrivarono nel buio la mattina
mia madre col fratello dentro un’ombra
a segnare una dimora che si scorda,
che si scorge, si perde e che lascia
la memoria in pegno alla paura
nell’istante trafitto dalla quiete.
Poco di certezze conoscevo, poco
di città e distanze ricordavo.
Napoli, 29 settembre 1960
Mia cara, torno di nuovo a te per rispondere alla tua ultima lettera e per darti mie notizie.
[…]
Io sto sempre meglio, mangio molto e non sento più alcun fastidio.
Ancora mi seguitano le cure.
Credo ancora per poco, però, perché a me sembra di essere ormai guarito.
[…]
L’ospedale si trova in uno dei punti più alti e più belli di Napoli.
Da quassù, dal Vomero, si vede tutta la città.
[…]
(il figlio che insegna al padre a leggere e scrivere)
Ripete le parole che gli dico,
legge a voce alta e senza ritmo,
scrive con le dita che gli tremano
frasi che dell’essere raccontano
il muoversi in noi come la sabbia
di mattini, di nuovo tempo che verrà.
Tredici anni e non ero già più figlio;
un po’ padre, un po’ madre ero anch’io.
Senza data.
Sulla cartolina: la foto in bianco e nero del Tevere a Roma
Ti porto sempre nel mio cuore, ti abbraccio con amore.
(i morti sui campanelli delle case)
Fessure e riflessi che danno sul vuoto,
parole randagie che sono dei nomi,
folle a seguire che sono derive
e nulla che parli del dire che cade…
Ora li sfioro col dito e con gli occhi
quei segni che sanno di noi che giungiamo,
quei nomi tra i quali c’è anche mio padre
che vive appartato nel soffio di sé.
Napoli, 29 novembre 1960
[…]
Credevo di essere a casa in questa settimana; invece, non c’è niente da fare.
È tutto stato rimandato ai primi della prossima.
Ormai, però, è deciso.
[…]
Sapessi quanto sono lunghi questi giorni.
Non passano mai.
[…]
Mi ha fatto un bell’effetto, sai, vedere il mio paese in televisione.
Vedere gente che conosco.
Guardo mio figlio parlarmi,
negli occhi guardarmi.
Guardo mio padre ascoltarmi,
negli occhi guardarmi.
*
Stanno, le sagome degli oggetti ,
quelli noti e quelli sconosciuti,
nella gravità del loro stesso peso
e sotto il peso di onde dal suolo
si donano fattura e sembianze
di minima materia senza corpo.
Il ricordo atteso dai rumori
si sperpera, si spegne lentamente,
nel breve viaggio che oscillando va,
attraverso ciò che è già stato,
oltre i confini di ogni forma.
E si sta aggrappati ad un’attesa
quasi come a cercare una forma,
un modo per asciugare i ricordi
sotto il sole acceso d’agosto.
Transita una nuvola sul viso
e non è grande abbastanza, il viso,
per raccogliere, oltre alla nostra,
anche la bocca socchiusa degli altri.
E gli altri ci guardano in bocca
aspettando un cenno d’affanno
e una prossima, vivida età.
I ciottoli, ai bordi del cammino,
riflettono il seme delle frasi,
spingono il clamore delle parole
oltre la parte più scura dell’ombra.
Ed è un po’ come scappare dal tempo,
dal tempo che ci porta in inverno
e che ci lascia una coltre di neve
a custodia duratura del sole.
*
[I testi sono tratti da Danilo Mandolini, A ritroso (L’obliquo, Brescia, 2013)]
I commenti a questo post sono chiusi
Testi assolutamente fondamentali quelli proposti, vorrei forse dire, oggetto di amore. I versi sono visitati da una sapienza non unicamente relativa alla scrittura. Emerge il bisogno di lasciare una testimonianza, un segno che conduca alla riflessione, provochi scelte di maturità secondo un concetto di letteratura aperto e responsabile. La lettura presenta perciòtratti altamente empatizzanti, tuttavia si avverte la tensione di non eccedere mai, piuttosto si vuole abitare la lingua rispettandola, e seguendo con pudore i moti dell’animo. Bel repertorio insomma, da leggere… Marzia Alunni
mia cara, che belle!
Belle. Trovo molto interessanti i pezzi diaristici. Solo apparentemente datati.