Spitfire
di Andrea Cortellessa
«Non è un romanzo storico, ma la vicenda di un uomo che si guasta». Così definiva un anno fa, Francesco Pecoraro, il libro cui da molto ormai attendeva – il suo primo romanzo – sino ad aver fatto, di quel manufatto riottoso e debordante, una vera e propria malattia. Un guasto aveva finito per essere, cioè, l’opera stessa che in quel guasto frugava – come un bisturi spietato. Il coltello e insieme la piaga, la cura che affligge e consola. Ora che il telo finalmente è caduto, e possiamo contemplare nella sua interezza La vita in tempo di pace, si capisce il perché di tanta ansia, di quell’insofferenza pungente.
Dei suoi scritti precedenti – i racconti dell’esordio tardivo (nel 2007, a più di sessant’anni) Dove credi di andare, i flash estirpati dal blog di Questa e altre preistorie – aveva potuto scrivere Massimo Raffaeli che erano sparati, contro il presente, «ad alzo zero». Quell’orizzontalità, quella frontalità erano la loro forza, e il loro limite. Già nelle poesie di Primordio vertebrale (uscite l’anno scorso da Ponte Sisto) si era cominciata a vedere, questa scrittura, finalmente nella sua terza dimensione: e si capiva allora come la dimensione “autobiografica” non ne fosse cifra unica e auto-appagante (come in molta, troppa scrittura odierna, ancorché “di qualità”). Ora in copertina figura, come in Questa e altre preistorie, un disegno dell’autore: un paesaggio di mare, irto di scogli aguzzi, visto però da una prospettiva “zenitale”, a piombo. E si capisce, così, la dicotomia psichica che è all’origine di tutte le altre: quella fra un demone della vicinanza alle cose, di una loro intrusione – a pelle e sotto pelle –, di un’empatia viscerale, attrattiva e repulsiva insieme, col mondo dei fenomeni (che gli detta la passione per gli elenchi, gli accumuli, i coaguli); e un’opposta ambizione, o meglio una coazione, a forma, ordine e distanza (che al contrario lo spinge all’economia, alla secchezza, all’astrazione). Non un «pathos della distanza» (come una volta, con formula nietzscheana, Cases infilzò Calvino) bensì un opposto, e simmetrico, piacere della lontananza: unica via di fuga dalla pesanteur dell’esistere, dall’«inferno della vita terrestre». Qui in direzione aerea, sublimante; altrove – per lo più, in passato – in direzione subacquea, autoannullante.
Non è un caso che emblema della tensione a una salvezza nella forma di Ivo Brandani – quasi-settantenne ingegnere-filosofo devastato da tutte le illusioni perdute del Novecento e ormai arreso a un «mondo ridotto a diorama di se stesso» (lavora, col sarcasmo che si può immaginare, alla costruzione di una falsa Barriera corallina in luogo di quella, ormai estinta, al largo di Sharm el-Sheikh) – sia un aereo: il «Sacro Inarrivabile Spitfire», il caccia perfetto della Seconda Guerra un cui relitto-monumento figura nella «Città di Mare» dei suoi più sacri ricordi estivi. Emblema del secolo coraggioso e sanguinario che quella forma invincibile ha espresso: un tempo al quale è seguito un Tempo di Pace fatto di rinunce e ripiegamenti, un tempo «che non crede a niente» e s’è ridotto a «denaro allo stato puro» (mentre la violenza, rimossa dalla coscienza d’Occidente, nella sua quotidianità vi si moltiplica microfisica, molecolare). Un altro emblema di quel tempo è l’Uomo della Guerra, colui che Ivo odia col nome di Padre: e i cui lineamenti tormentosi, ogni giorno di più, spia affiorare dallo specchio. Ed è in aeroporto prima, in aereo poi, che Ivo consuma le proprie ultime ore riavvolgendo, come si dice facciano i moribondi, la pellicola della sua vita. La sua nevrosi, il panico che gli lacera le viscere, come aveva capito Winnicott non ha rimedio perché la catastrofe che teme è già avvenuta. E quel che resta della vita di Ivo, ormai, non è altro che un avvitarsi a ritroso, un risalire a «prima e prima»; scavando sempre più, alla radice di se stesso, l’origine di quella ferita che lo uccide.
In questo modo Pecoraro ha però scritto, forse al di là delle sue intenzioni, davvero un romanzo storico: agli antipodi, s’intende, della cartapesta di consumo. Il mareggiare della sua scrittura travolgente riesce a catturare, nella filigrana delle ossessioni di un singolo, il trauma storico di quel «groviglio» che chiamiamo Italia: sprofondando dal «tutti-contro-tutti della vita in Tempo di Pace» sino al cuore di tenebra della Guerra (il buco nero, la «Buca di Bomba» di un Assoluto Passato che, nella psiche, non è mai davvero passato), transitando per le contraddizioni del Sessantotto (bellissima la scena di guerriglia a Valle Giulia, durante la quale Ivo prova il primo dei suoi attacchi di panico: e che riscrive il tòpos di Archiloco che getta lo scudo nel fuoco della battaglia) e il disincanto, il cinismo di quelli che, dopo gli anni di piombo, hanno meritato l’epiteto di «anni di merda» (e trovano una sintesi memorabile, trasudante imbarazzo e vergogna, nell’episodio della vacanza in barca offerta a Ivo dal persecutorio manager per cui lavora).
Si sono già fatti, per questo libro mirabile e spaventoso, tanti nomi, tanti possibili modelli. Ma uno solo mi appare l’etimo di questa cognizione, dolorosa quanto progressiva e inesorabile (questo l’aggettivo-stimmate che perseguita Ivo): l’ingegnere-filosofo che nelle trincee dell’altra Guerra si diceva «annientato» dal «pasticcio» e dal «disordine» (così come Ivo prova una sofferenza fisica a «vivere nella privazione dell’ordine geometrico, nell’inesattezza diffusa, in un disordine a cui tutti sembravano abituati e non parevano farci caso»). Impressionanti le coincidenze – tanto più sorprendenti considerando la non meno che longitudinale distanza stilistica: dall’invettiva contro il gliuòmmero urbanistico della Città Eterna, il suo «tracimare […] immense colate di palazze, palazzine, villine» (che non può non ricordare la sfuriata della Cognizione del dolore su Pastrufazio-Milano… «Di ville, di ville! di villette otto locali doppi servissi») all’immagine della stessa Roma, nel capitolo meraviglioso intitolato alla «Città di Dio», come sprofondamento geologico, immane stratificazione di memorie «lungo le radici del Tempo Profondo»: risalendo (nel Pasticciaccio) giù, giù, sino al «suggerimento cristallografico di Dio». Soprattutto analogo è l’algoritmo, il pantografo storico appunto, che – applicato a un’intolleranza individuale, a un’epidermide di continuo urticata dai «microtraumi della vita quotidiana», a una «perenne vulnerabilità preventiva» (per tempo diagnosticata, in Pecoraro, da Daniele Giglioli) – progressivamente ne fa, lungo i circoli concentrici d’una sofferenza sempre più iperbolica, la diagnosi – esattissima proprio in quanto irriducibilmente idiosincratica sino alla visionarietà – del «male oscuro» di una Nazione.
A differenza di Gadda, però, che nel Barocco del Mondo finiva per tuffarsi, orripilato e insieme euforico, per meglio aderire alle cose, al pari del suo personaggio Pecoraro si ostina ad aggirare le sue volute, a esecrare nauseato il suo sperpero e la sua «volontà di stupire», appunto per fuggire dalla persecuzione delle cose: così tuttavia ripiombandoci dentro, affogandoci ogni volta di più. Perché davvero la scrittura, le parole hanno qualcosa di inesorabile. E noi, infine, non possiamo che arrenderci.
Una versione molto più breve di questo articolo è stata pubblicata il 2 novembre su «Tuttolibri»
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“Fuggire dalla persecuzione delle cose”: una chenosi degli oggetti intramondani e della loro gettatezza, espressa attraverso l’aggiramento comunicativo?