da “L’abitante”
di Domenico Lombardini
chiara non è la luce,
ma la sua percezione. facile
sarà allora ricordare il rosso,
una palla, un fiore, se
lo sfondo era nivale
di bianco e albedo
(un quadro).
*
quasi non fosse a prevalere
quel rosso, ma quell’essenza nivale
di annientamento del resto; la tendenziosità
dei sensi, non la coerenza
(su quel quadro, anche, una grossa chiazza gialla non vista; mai).
*
si va al mondo allontanati presto,
esposti, ancora larve. qui è la luce,
è chiara, là il dolore,
brucia. ed è subito un apprendistato, un’abitudine,
un inesausto specchiarsi,
poi un rinunciare, un divezzare
continuo dal semplice pensiero d’esserci, dello stare;
poi, da fuori, un corpo in una stanza, un sembiante.
*
Entropia 2
e quello spazio crepato
sul soffitto? è affiorato
un po’ d’umido, là
stilla sul pavimento.
che buffo: crepano
le mura, e pure vene
sfioccano in proiezioni
insinuanti, pazienti, forti
nella cute, nel derma, nella carne,
crepati anch’essi, vivi,
e quasi morti.
chi resiste fa male; assecondare
nuoce come opporsi
alla natura, è uguale… fare: rimandato putrefare.
*
Osservazione 2
si erano dette cose del tipo:
ci sarà tempo per (seguivano ipotesi, progetti); oppure
se cercherai, troverai (mancavo pragmatica, teleologia);
infine: l’amore salva (si poteva dire tutto e il suo contrario).
si vide poi che il tempo non basta e l’amore consuma.
ma quella voce interna imperterrita continua,
inebetita dall’abitudine a crederci,
da nessi causali tanto chiari
(quanto fallaci).
*
Osservazione 3
un tavolo autoptico:
sul palmo è il nero del putrefatto,
prova sicura dello sfatto; docilmente
si mostrano a noi irrevocabili:
il privilegio di sentirci qui e ora;
e il compito di dimenticarlo.
*
si tratta di questo:
annullate sono le esperienze, rarificate
le risorse, inficiate le possibilità
di scambio empatico, reificato,
sprofondato in materia è il tutto;
ogni sentimento,
ogni gesto inchiodato alla sua irresponsabilità:
oltre lo sguardo di altri l’invidia, il sospetto
che altri stiano meglio, che dispongano del modo,
del trucco per aggiogarla infine la vita.
*
l’origine è cuna, non culla ma utero,
non otre, ma foglie, lettiera,
e sotto la fanghiglia, e oltre la sabbia,
l’arido, l’arsura di nessun labbro, nessuna lingua.
*
qui il dentro, là il fuori,
una spola che viene, che va,
senza pace, immemore
delle prove raccolte, dei segni lasciati.
questo viaggio dimentico di sé,
sperimentando sempre
l’oggetto come prima volta, vergine all’occhio.
lasciare segni: cos’è questo, se non amore?
segni: un’apertura al futuro,
una solidissima speranza, non una previsione
scalfita da un nonnulla, tenerissima, fragilissima.
figurarsi il futuro dal presente o dal passato,
questi i nostri vaticini:
degradare l’inconsueto all’impossibile,
escludere l’irripetibile.
una rima segnata timidamente sulla terra:
aspettare, lasciarsi visitare, non cercare.
*
non si abita immemori.
benché dal racconto di altri
si possano inferire
nostri atti e loro motivazioni, questi
apparirebbero una traccia non condivisibile,
un’estraneità,
un’incommensurabilità
al nostro tratto;
un’incongruità.
“l’origine è cuna, non culla ma utero,
non otre, ma foglie, lettiera,
e sotto la fanghiglia, e oltre la sabbia,
l’arido, l’arsura di nessun labbro, nessuna lingua.”
questa è poesia.
complimenti!
oh sì è poesia, ma è poesia di Sannelli, dai!
Ma Sannelli fa una sega a Lombardini, dai!
Oppure è quella di Sannelli a essere poesia di Lombardini? Oppure Le loro poesie sono poesie di Mesa? Oppure è Mesa a essere poesia di Spatola? Oppure, più semplicemente, basterebbe smetterla di giocare all’album delle figurine e dire che è Poesia tout court? Certo, rinunciare a questo significherebbe anche dare un bel colpo a quell’Ego che si vorrebbe espellere da molta scrittura, per lasciare la parola nuda, pura, così come è. Peccato però che, alla fine, ci sia sempre qualche poeta (o delatore in contumacia) a rovinare tutto.
Bravo Lombardini, dunque, ad aver saputo ascoltare la Poesia, che è matrigna di tutti e madre di nessuno.
Con vivissima cordialità, Elisa…
Paolo
A me “L’abitante” sembra un ottimo prodotto dell’ultimo decennio. Soprattutto per una ragione che definirei “La funzione Giuliano Mesa”. Grazie al lavoro sul web, sul cartaceo ed anche quello svolto da CameraVerde le nuove generazioni di autori si stanno relazionando con questo modello del decennio e gli esiti di questo confronto sono i più svariati. Quello di Domenico è, per l’appunto, un eccellente esempio di cosa sta succedendo nella poesia italiana contemporanea che smette di relazionarsi alle dicotomie novecentesche, aprendosi a zone di confine. Tutto ciò è anche possibile grazie alla dialettica con dei “maestri” che non sono più (solo) quelli canonizzati, antologizzati, “scolasticizzati”, ma autori considerati (un tempo) marginali o, come lo stesso Inglese li aveva definiti altrove, “insubordinati”. Se dico, quindi, si sente l’influenza di Mesa in questi testi, dico: si sente finalmente l’influenza di Mesa nella poesia italiana contemporaneissima.
Per concludere. Ottimi testi, Domenico.
Un saluto
Luciano
Lombardini è uno dei pochi poeti che supereranno l’acheronte putrescente dell’idiozia simulante: catadiottria di fanale resuscitante la segnalazione col rinforzo sovratecnico; poeti potabili e laureati (non alla maniera di Montale, prego); accademie del fasto di una religione economizzata; rinculo della retorica egoica; minorità di una prassi da neurormone-specchio (scusate l’eresia neurolettica).
Insomma Lombardini è poeta vero. Ed io che amo il massimalismo di un mondo antimoderno e possibile solo in amore, sangue e morte, dico che amo, pure, alcuni minimalismi poetici che uccidono senza lama, riportando ad essenza, ancora una volta a presenza, ma senza neanche rasoi filosofici, premure cartesiane, sciogliendo tutto quel che c’è da sciogliere. Direi soprattutto che amo ciò, che senza il sipario mitoglossante della retorica, fuori da finzione eteroflessa sulla scena, riproduce ciò che, è vero, è scena.
Ma scena del mondo.