Emergenza, raptus e delitto passionale
> Tavola rotonda sulla costruzione mediatica del femminicidio in Italia <
Domenica 22 settembre ore 10.30 presso la Sala Berti del Nuovo Cinema Nosadella a Bologna si svolgerà, nell’ambito del festival internazionale di cinema lesbico Some Prefer Cake, la tavola rotonda “Emergenza, raptus e delitto passionale” sulla questione, oggi più che mai attuale, della rappresentazione e costruzione mediatica del femminicidio sui media italiani.
Alla tavola rotonda, organizzata da Fuoricampo e Comunicattive, parteciperanno Elisa Coco di Comunicattive, Anna Pramstrahler e Cristina Karadole della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, curatrici del blog Femicidio, Barbara Spinelli dei Giuristi Democratici, Barbara Romagnoli della rete nazionale delle giornaliste unite libere autonome Gi.U.Li.A., Enrica Tullio e Chiara Rossini di Un altro genere di comunicazione e le attiviste del collettivo femminista e lesbico Quelle che non ci stanno.
Da anni realtà eterogenee e singole donne si mobilitano, producono informazione e sensibilizzazione e premono sugli organi di stampa per far passare il tema della violenza di genere e per decostruire gli stereotipi e le categorie interpretative con cui questo tema viene tradotto in notizia. E’ merito di questo lavoro se è stata smontata la costruzione, razzista e securitaria, della violenza come stupro e aggressione praticati in strada da uomini migranti su donne italiane. E’ ancora merito di questo lavoro se in Italia si è diffuso il termine “femminicidio“, nato dai movimenti femministi sudamericani per comunicare la complessità della violenza maschile contro le donne. Ma i concetti complessi, nel momento in cui sono “lavorati” dalla macchina mediatica, vengono semplificati, appiattiti, svuotati. L’impegno di tante giornaliste (ad esempio delle centinaia che hanno aderito alla rete Gi.U.Li.A.) e blogger e la costante attività comunicativa dei centri antiviolenza hanno permesso la nascita di tanta buona informazione. Nonostante questo, ancora troppo spesso le cronache dei quotidiani o le trasmissioni televisive continuano a riprodurre chiavi di lettura emergenziali, voyeuristiche, spettacolari, sensazionalistiche, morbose. E razziste, come nel recente caso di Marilia Rodrigues, ridotta a “la brasiliana” su molte delle testate che hanno parlato del suo assassinio.
I racconti mediatici hanno un grande potere performativo, contribuiscono a costruire la realtà sociale, orientando la percezione collettiva e di conseguenza anche le scelte politiche. Crediamo ad esempio che ci sia uno stretto legame tra “l’emergenza femminicidio” costruita dai media italiani negli ultimi mesi e l’impostazione emergenziale del recente decreto femminicidio, duramente criticato da centri antiviolenza, associazioni e collettivi di donne.
Some Prefer Cake ha ospitato lo scorso anno Zanele Muholi, artivista lesbica nera che con il proprio lavoro combatte gli stupri correttivi subiti in Sudafrica dalle lesbiche nere dalle parte degli uomini della loro comunità. Massacri sostenuti da una cultura diffusa che perseguita le donne che si sottraggono al primo e più radicato ruolo di genere, quello eterosessuale di moglie (e madre). A queste lesbiche è dedicata l’edizione 2013 di Some Prefer Cake, che ha voluto proporre questo incontro nella convinzione che la violenza lesbofobica abbia profondamente a che fare con la cultura che nutre il femminicidio in tutto il mondo. Per un festival che nasce dalla passione per il potere trasformativo dell’immaginario, questa tavola rotonda vuole essere un contributo al quotidiano intreccio di relazioni e azioni tra donne e gruppi di donne che lottano contro la violenza sulle donne (e su lesbiche, trans, gay, prostitute): un’occasione per ricalibrare nuovamente le strategie comunicative comuni, con l’obiettivo che i media continuino a parlare di femminicidio e violenza di genere, ma che ne parlino meglio, senza strumentalizzazione, senza stereotipi, ribaltando quelle logiche narrative che, troppo spesso, velandolo come neutro, assumono il punto di vista maschile.
#spc2013 #femminicidio www.someprefercake.com
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E’ giusto costruire mediaticamente un genere ‘uomo’ e più o meno potenziale o effettivo ‘femminicida’?
Non si rischia in questomodo di catalogare le persone, gli esseri umani, in nuove e generiche categorie astratte?
NChe differenza c’è fra il dire ‘uomo’ e ‘femminicida’ e il dire ‘nero’ e assassino, o gay e pedofilo e altre fantastiche associazioni a cazzo del tipo ‘islamico’ e ‘terrorista’? Come la vedrebbero gli organizzatori di questo incontro una costruzione mediatica dell’infanticidio perpetrato dalla categoria ‘madre’ sul modello mediatico dei casi italici di cronaca nera? O un modello ‘Erba’ del tipo: il vicino di casa invidioso del mio benessere economico?
Educazione mediatica all’irrealtà, a parole d’ordine, a Balotelli e a Belen…E’ questa la strada?
Io ho molti dubbi su questa tendenza al mediatico, ovvero a ridurre tutti i problemi attinenti agli esseri umani a questioni di uso corretto del linguaggio e lotta all’hate speech, cioè ai rappers, a testi come Permsfrost dei Magazine, o ai vecchi blues femmincidi che cantava Jimi Hendrix (Hey Joe, un traditional, alla pari di Me and the devil blues di robert johnson, sono testi femminicidi questi? E dei libri che sarebbero femminicidi? Ne vogliamo parlare? Vieteremo di leggere American psycho di Ellis? Censureremo?).
Non amo le identità collettive, ci sono donne e donne, e ci sono uomini e uomini, e ci sono anche gli ermafroditi se è per questo…
Ora a parte i paradossi, oggi le donne sono discriminate su base identitaria, sicuramente è vero, ma la risposta è davvero costruirsi un’identità a sè in quanto ‘donne’, e magari direttrici di giornale o gioranliste in carriera che ti fanno discorsi di parità sulle soldatesse usa che vogliono andare al fronte come i maschi nella guerra in iraq? Ma ci rendiamo conto di quali deformazioni assurde del problema della parità si producono, riconducendo l’ugualgianza fra uomo e donna nel mero alveo delle ‘oppurtunità di carriera’, o di ‘uccisione di civili in Iraq?’
Tornando al c.d. femminicidio: esiste certamente una specificità ‘maschile’ e spesso identitaria in alcune forme di uccisione di donne, o in fenomeni maschili come lo stupro (che assume addririttura connotati etnici e programmatici in alcune zone del mondo).
E’ vero inoltre che lo stesso linguaggio maggioritario in molte parti del mondo compresa la nostra è omofobo, già quando si parla di ‘uomini’ per indicare genericamente le ‘persone’ di ambo i sessi, o l’umanità, o si dice ‘ministro’.
Però mi spaventa molto l’assioma secondo cui l’assassino potenziale di una donna, il femminicida mi vivrebbe dentro in quanto Uomo, e spero che non si arrivi a quello, a furia di costruzioni mediatiche calate dall’alto da donne in carriere in tutto pari a uomini in carriera.
Ecco a tutto questo mare di carta preferirei una riflessione pubblica sul tema delle ‘identità’ e della ‘scelta’ che coinvolgesse persone, esperienze, e non solo peni e vagine.
Io credo che una società matura sia quella che non avrà più bisogno di ‘differenziazioni di genere’ marchiate su gruppi più o meno antagonisti. Ci si arriverà davvero attraverso le’ducazioen meditatica all’uso della parola femminicdio in cronaca nera?
Non vale la pena riflettere un minimo sul rapporto fra un supposto ‘genere femminile’ e il ‘potere’, già a livello mediatico, e liberarsi dal superfluo e dal vano e arrivare ai contenuti, alla realtà delle cose?
Ci tengo a essere chiaro su questi temi perchè sono molto delicati: non sto dicendo che non esistano questioni tout court legati alle donne nella loro specificità, ovviamente, o che non ci siano uomini che ammazzino donne per possesso, testosterone o quant’altro, o che non ci sia tutt’ora una cultura della donna-oggetto sessuale. Però quantomeno nelle società c.d. occidentali esiste anche un uso del corpo femminile come forma di potere, o un desiderio sessuale tutto femminile per l’uomo di potere che ho sentito a volte spacciare da emancipatissime femministe come una conquista di libertà, pari pari all’uomo a cui piacciono le modelle, insomma… Allora la mia ultima doamnda è: per che cosa lottano oggi le donne? Per sostituire un surrogato al femminile del razzismo di certi uomini, e di certi contesti culturali impernianti su culture patriarcali e da donna oggetto? Non mi si risponda per cortesia: le donne lottnao per non essere picchiate, uccise dal partner, stuprate etc, quello lo so già da me…
Un saluto e in bocca al lupo per la vostra manifestazione. Marco Mantello
Ecco appunto, siamo alla censura…ma che modi sono?
marco, non si agiti, nessuna censura, è che quando fioccano “peni” e “vagine” la piattaforma va in agitazione da sé e mette il commento automaticamente in moderazione – io in questo paio d’ore sono andata a prendere il figlio a scuola e a fare la spesa, per questo il mio ritardo nel ‘liberarla’
riguardo il suo intervento ci sarebbe molto da dire, ma di esso soprattutto mi colpisce la scarsa lucidità: lei dice “a tutto questo mare di carta preferirei una riflessione pubblica”, ed infatti il post qui sopra dà notizia di una tavola rotonda pubblica, a cui partecipano persone e associazioni, non “peni” e “vagine”; persone e associazioni riunite insieme per parlare del femminicidio e della sua rappresentazione per, certo, fermarlo, cos’altro? mi sfugge perché la infastidisca tanto che *come minimo* non si voglia essere uccise.
“Femminicidio” non è una parola buona quanto la causa. Al contrario di “violenza di genere” rimanda al biologico, alla femmina insomma. E mi pare controproducente. Non è un problema di gameti, ma di cultura. Oltretutto riproduce sul piano del linguaggio la differenza che è causa del problema. Insomma, non ci aiuta.
Renata, non mi allarmo, non mi pare affatto che mi infastidiasca il perchè una donan non voglia essere uccisa, lo ha letto il commento o no? Anche il riferimento ai peni e alle vagine non mi pare fosse riferito al convegno, o ai suoi partecipanti. Sulla scarsa lucidità che mi si imputa: mi premeva (e su questo punto credo che la direzione del suo post non sia poi così dissimile), mettere in rilievo i rischi di una deriva puramente linguistica,e mediatica nel senso di calata dall’alto, cioè dalla carta (stampata e dalla tv, per esser e più chiari) di un problema che riguarda in primo luogo la formazione delle persone, fin dall’infanzia. Quindi si, quello che mi piaceva poco nel post, e qui concordo condb pienamente, era l’insistenza su espressioni come femminicidio. Quell’espressione, oggi, rimanda a un tipo di immaginario, di approccio al porblema e di mentalità che ho cercato di descrivere nel commento, e di criticare. Un saluto e grazie per aver sbloccato il mio commento.
La Francia è anche il paese delle donne violentate.
Oggi una donna è morta a Ceret, piccolo paese nelle montagne del Roussillon.
Viveva un inferno da anni. Era spaventata.
Era costretta a vivere come un animale braccato.
Una donna muore tutti i tre giorni in Francia.
Una domanda: perché mettere in relazione omosessualità femminile e iniziativa contro la violenza contro le donne?
La riflessione riguarda tutte le donne e in particolare gli uomini.
Uno spirito cattivo potrebbe ritrovare l’argomento facile: omosessualità femminile: odio degli uomini. E dunque poco credibile.
io mica ho capito bene l’intervento di mantello. mi pare che l’articolo postato da Renata dia informazioni su una tavola rotonda tra associazioni che da anni ormai si impegnano per promuovere la cultura del rispetto pure attraverso una narrazione corretta della violenza degli uomini sulle donne. cioè non si può prescindere dal fatto che sono uomini in quanto soggetti di una cultura patriarcale, che si auto riproduce per stereotipi sessisti, a violentare, menare, acidare uccidere donne in quanto oggetto della stessa cultura. perdonatemi la scarsa lucidità ma esco da una sessione di inserimento di dieci dico dieci fanciulli di tre anni in una scuola dell’infanzia. Nessuno afferma che in quanto maschio tu sia un potenziale stupratore né che io in quanto femmina sia per forza una vittima. Non stiamo al femminismo della differenza. qui si ragiona da anni (ma è più semplice confinarci allo stereotipo della femminista incazzata in lotta perenne con la cosiddetta altra metà del cielo) sulle responsabilità di politica, istituzioni e religione che pochissimo fanno per evitare la violenza. qui si parla di potere e della volontà di mantenerlo attraverso una cultura del dominio che prevede l’attuazione di una serie di norme e regole e pure leggi il cui unico obiettivo è tenere il genere femminile in una condizione di sottomissione. e certo che siamo tutti d’accordo sulla necessità di superare i generi e che ci stanno donne che accettano di buon grado lo stereotipo della madre santissima o della femmina oggetto sessuale. ci mancherebbe altro: so’ anni che il femminismo di piazza dice questo. ma mi pare che il testo di renata dicesse pure altro: la sacrosanta volontà di trovare parole nuove per raccontare questa violenza. non più raptus, follia d’amore, dramma della gelosia. sticazzi. ma femmincidio: un termine che fa storcere il naso a molti ma che ha un significato ficherrimo. tu non hai il diritto di correggermi. tu non puoi decidere per me. per le mie braccia. per le mie zampe. per quello che mi resta tra le anche. io sono prima di tutto una persona. né madre. né moglie. né santa né puttana. non sono la brasiliana la marchigiana la brunalpina. io sono alessandra. e prima che l’avvocato campione di tennis in porche mi buttasse una bottiglia d’acido addosso c’avevo pure una faccia. e sì che è centrale l’educazione fin da piccinissimi al rispetto dell’altro. ma pure prendere coscienza che la violenza sulle donne è un problema degli uomini ‘nn è poco. grazie. a.
Appaio immediatamente maschilista se osservo che, forse, se “il primo e più radicato ruolo di genere [è] quello eterosessuale di moglie (e madre)” ci sarà magari una ragione? Biologica, su cui si innesta poi una codificazione culturale. Non capisco cosa ci sia di così fastidioso in ciò da dover essere etichettato come un “radicato ruolo di genere”.
Io non sono padre ma mi pare che certi istinti e ruoli siano piuttosto naturali (su quegli istinti poi, lo so, si sono sommate un’infinità di stratificazioni culturali. Ammesso che la distinzione cultura-natura abbia un senso, visto che la natura pura non esiste, perché è sempre culturalizzata, e la cultura pura neanche, perché di fatto tutto è natura: la cultura è solo una continuazione di questa. Sì, in effetti la distinzione è solo concettuale e non fattuale).
Insomma se una donna non è moglie e madre, che è? Ma il fatto che si chieda il diritto al matrimonio e all’adozione anche per le coppie omosessuali mi pare che dimostri che questi due ruoli sono altamente desiderabili per tutti.
A me pare che, troppo spesso, l’approccio dei Cultural studies radicalizzi un certo spirito emancipatorio illuministico (contro cui le riflessioni sulla dialettica dell’illuminismo dovrebbero aver messo in guardia: occhio che ciò che pare superato è invece sempre e solo represso. E il represso ritorna), per cui si crede possibile superare, posivitiamente o, più realisticamente, all’infinito – comunque superare – schemi di pensiero e codici culturali, per giungere ad un non ben chiaro campo di neutrale libertà.
Gadamer ha mostrato, per quanto mi riguarda assai persuasivamente, che la connotazione negativa del termine pregiudizio sorge proprio durante l’illuminismo e che invece il pregiudizio (la precomprensione heideggeriana) è conoscitivamente assai produttivo, e ineliminabile, perché è poi solo il nostro radicale e costitutivo essere storico. Direi che persino i pregiudizi nel senso di giudizi cattivi e limitanti sono insuperabili, sono il nostro sguardo fottutamente corto sulla realtà. Possiamo e dobbiamo sforzarci di ampliarlo e di mescolarlo ad altri, ma molto di più non ci è concesso. E’ proprio il dispositivo di pensiero che parte lancia in resta allo scopo di togliere incrostazioni e parzialità culturali che rischia di far fallire tutta l’impresa.
Perché dovremmo rimuovere il “pregiudizio” che le donne sono mogli e madri?
Perché, per affermare il diritto all’esistenza di un amore gay o lesbico devo per forza lasciar intendere che i generi e i ruoli siano qualcosa di orripilante?
E’ questa la via per la tolleranza? Assottigliare e limare fino ad arrivare all’indistinto così ognuno è libero di essere quel che gli pare? E com’è paradossale questa lotta per decostruire i generi e i ruoli che si fissa a tal punto sul concetto di genere e ruolo da renderlo quasi una categoria metafisica e ipostatizzata.
Non possiamo aggiungere invece che togliere? Costruire invece che decostruire? E guardare con eguale simpatia umana la lesbica e la etero che magari si trova a proprio agio, che so, nel ruolo di bambola fatale attaccata al braccio di un palestrato muscoloso e col colorito del pollo arrosto per le troppe lampade? (peggio per lei, magari, però prova a tirare a campare come tutti).
Il resto delle considerazioni è del tutto condivisibile (quello sulla povera ragazza uccisa che è diventata “la brasiliana” a causa degli orrori retorici, concettuali e linguistici dei media in particolare), proprio per questo spiace l’eccesso di zelo della frase da me citata.
@mantello, confesso: ero ironica. se lei mi dice che non desidera che si forzi la nuova e generica categoria ‘uomo’ (nuova?!?) o tantomeno femminicida, e poi mi chiede “cosa vogliono le donne”, tirando fuori una generalizzazione vecchia come il cucco, io le rispondo: che cosa vorranno mai? forse non essere uccise, soggiogate, intimidite, mobbate?? ah, ma questo lei lo sa già! e allora si chieda piuttosto cosa vuole lei. che non si parli di cultura dei generi e di lotta alla violenza sulle donne solo in termini linguistici? benissimo, PARLIAMONE anche danzando, a gesti, coi pennelli, suonando, facendo laboratori nelle scuole, scrivendo storie nuove, protestando, parliamone in tanti modi. siccome QUESTA tavola rotonda si svolge all’interno di QUESTO festival del cinema è un po’ “naturale” che QUESTO discorso sul femminicidio verta sulla sua rappresentazione mediatica.
@dm & mantello: la parola “femminicidio” disturba? allora vuol dire che è giusta. pensate che è insultante perché riduce alcuni soggetti al loro “femminile” (una formazione tutt’altro che biologica, peraltro)? E’ PROPRIO COSI’: è insultante per chi lo perpetra, per coloro che riducono un interlocutore-donna ad un bersaglio-femmina. è azzeccata perché riesce a perimetrare una affezione grave della società italiana tutta: l’uso della violenza per il mantenimento dello status quo maschilista-patriarcale.
@daniele lo vetere: “Insomma se una donna non è moglie e madre, che è?” – le confesso che a questa domanda sono allibita. Una persona, forse? Una cittadina? Un essere umano? Boh, un sacco di altre cose, immagino, le stesse che potrebbe immaginare lei se io le chiedessi “Insomma, se un uomo non è un padre e marito, che cos’è?” – BASTA con la pseudo-filosofia della biologia e della natura e dei ruoli tradizionali e del che-c’è-di-male-se e tutto il resto: per quanto mi riguarda sì, ognuno deve essere libera/o di essere QUEL CHE LE/GLI PARE, e se c’è bisogno di un po’ di teoria di genere andate a comprarvi i libri Butler e Irigaray che sono in giro da trent’anni. Comunque sia, QUI si vuole discutere della pochezza della rappresentazione pubblica del femminicidio per arginarlo. Non è chiara la differenza tra stare al bar a discutere di “Uomini e donne” by Maria de Filippi e tentare di fermare un massacro?
@veronique: la relazione tra omofobia e violenza sulle donne è presto detta e il riferimento all’opera di Zanele Muholi a questo addita: gli stupri punitivi nei confronti delle lesbiche, che gli aguzzini perpetrano con l’idea di “correggere” il loro orientamento sessuale, sono l’espressione più estrema di una logica eterosessista dominante per cui una donna non può permettersi di non amare un uomo.
morresi
Lei mi vuole disturbato e mi incasella nella categoria ‘maschio disturbato’…A me non disturba proprio nulla, trovo riduttivo, come ho cercato di spiegare nel primo post, che un problema così complesso come quello della violenza sulle donne sia inquadrato in un problema di comunicazione mediatica di nuovi modelli di linguaggio. Danzare? Perchè no? Poi ci sono i bambini e le bambine che vanno a scuola, c’è l’ufficio, ci sono le giornate lavorative, n c’è un lavoro da fare sul territorio, certo che si, quindi ben vengano le sue associazioni, meno mi convince, le ripeto con questo uso del lei un pò’ stantio, il richiamo al femminicidio e alla rappresentazione mediatica, e alle categorie ‘uomo’ e ‘donna’ normalmente correlate a quella parola. In questo l’impostazione del vostro incontro è per me carente, e si presta a grossi fraintendimenti.
p.s. cerco solo di riflettere e di ragionare, vuole provarci anche lei? Quali sarebbero per esempio le ‘categorie vecchie come il cucco’ che avrei utilizzato? Parliamone senza slogan, per cortesia, e senza ridurre il maschio gelido e insensibile di turno a uno che si sente attaccato e disturbato, perchè così i rischia di ficcare un’intera categoria di esseri umani in una specie di casellina, associata alla parola femminicidio e non credo che sia il modo giusto di parlare di violenza sulle donne. Al massimo posso usare toni provocatori per sollevare un dibattito su questioni a cui tengo
@ Morresi, perché ha scelto due soli aspetti del mio discorso per rispondermi con questa violenza? Guardi, se la mette così, sono allibito anch’io, ma mi dispiace.
Ad esser sincero sono anche un po’ offeso, perché nessuno ancora mi aveva mai detto che faccio chiacchiere da Uomini e donne, ed è sempre spiacevoli vedersi messo in un generico voi (“andate a comprarvi”) che, presumo, sia quello degli ignoranti e non so che altro, e di peggio.
Chiaro, lei parlava di una tavola rotonda sul femminicidio e sul modo che i media hanno di raccontarlo. Però il suo discorso ha uno sfondo teorico e a me quello interessava, su quello volevo dialogare.
La frase incriminata voleva poi solo dire che se ciascuno di noi non è qualcosa (e, insisto: un ruolo, un genere, un transgenere e quello che preferisce, comunque qualcuno e qualcosa), non è niente, nel senso che non esiste questo fantasmatico piano neutro della libertà (E POI scelgo cosa e chi essere). Ho scelto le parole madre e moglie solo perché sono quelle da lei proposte come ruoli (probabilmente, se leggo bene fra le righe) oppressivi, codificazioni da cui ci si deve liberare. L’elenco ovviamente può essere lungo, e sul fatto che un uomo e una donna siano anche cittadini e persone ed esseri umani non ho nulla da eccepire, e riformulo senza problemi la mia domanda: “se una donna non è moglie, madre, persona, cittadina, essere umano, che è?”.
Sulla biologia e il tradizionalismo. Se nelle mie parole vede difesa di una “natura” immodificabile e, dunque, di una tradizione culturale che più di altre la preserva, mi scusi, ma il secondo paragrafo del mio primo intervento che significa?
Io credo che, qualunque cosa sia la “natura” (e per noi esseri umani, così vincolati a schemi percettivi, interpretativi, culturali è impossibile giungere a toccarla, possederla, definirla), essa comunque e nonostante tutto esista. Ma, per esser chiari, visto che a passare da rozzo non ci sto: l’affermazione “essere eterosessuali è secondo natura ed essere omosessuali no” è un’affermazione falsa e, ovviamente, ipso facto, omofoba. Così come è falsa l’affermazione “ogni ruolo e genere è culturale, dunque una costruzione storica di cui ci possiamo liberare e di cui ci dobbiamo liberare, perché è una prigione”. Rimossa con la chirurgia del pensiero ogni prigione siamo sicuri che gli uomini saranno liberi e felici? In quale deserto della neutralità?
Mi dispiace, ma non possiamo decidere di essere quello che ci pare. Abbiamo un genoma, un’educazione, esperienze e tante altre cose che ci danno una forma. E, mi creda, non dico affatto che ciò sia una cosa che mi piace tanto, ma tanto. So benissimo di essere stato vincolato arbitrariamente e senza la mia scelta e ogni tanto anch’io vorrei essere “libero”, per esempio, di avere più muscoli o più intelligenza logico-matematica o di aver ricevuto un’altra educazione. Ma stare in terra significa questa cosa qui. Il pensiero occidentale è arrivato, io credo, a una peculiare forma di hybris per cui crede di poter mettere tra parentesi il fatto di essere puntellato a un qualcosa che gli è esterno (lo chiami, natura, realtà, non so come) e pensa di autofondarsi.
Per concludere: sarò al suo fianco nella difesa della pluralità di qualsiasi esperienza e identità e infinita varietà umana: moglie, marito, figlio, figlia, etero, omo, trans, italiano, romeno, tedesco. Ma le chiedo se, almeno, posso essere in radicale disaccorso sul fatto che per arrivare a questa tolleranza e pluralità si debba per forza passare dalla colpevolizzazione di ruoli storicamente più attestatisi di altri (posso dire tradizionali?). Non vedo perché chi sta dentro una storia e una continuità storica debba sentirsi per questo in colpa. Io farò ogni sforzo, ovviamente, perché non la si cristallizzi, non la si ipostatizzi in una fantomatica natura che pensi, da quel parziale e imperfetto essere storico, di giudicare tuti gli altri.
Saluti
Mantello, ma no, io la voglio sereno, figuriamoci. Le spiego meglio la contraddizione che ho visto nel suo intervento: lei non apprezza le categorie, che peraltro questa tavola rotonda si prefigge esplicitamente di decostruire, però mi chiede “cosa vogliono le donne”, come se “le donne” fossero una entità monolitica cui io in quanto donna abbia speciale accesso. Non funziona così; così come io non posso chiedere a lei cosa passa per la testa agli “uomini”.
Le rispiego meglio anche il resto: questo incontro, che non è “mio”, come non sono “mie” le associazioni che lo animano – io ne sto semplicemente dando notizia – ha luogo all’ interno di un festival del cinema, per questo si concentra sulle rappresentazioni mediatiche. Che il femminicidio richieda azioni legali, educative, culturali, sociali, ecc. siamo d’accordo, mi pare.
Sull’uso del lei invece si sbaglia: è rasserenante, soprattutto tra persone che non si conoscono e discutono di temi così brucianti.
Ok però questo imputarmi di parlare di ‘donne’ in modo monolitico è un argomento quasi retorico, visto il titolo del suo post e il tema del dibattito in corso. Mi spiego meglio (senza spiegarLe coem fa lei): non è che per me le ‘donne’ non abbiano una loro specificità, innaztuttto corporea, come del resto gli ‘uomini’ (poi certo potremmo parlare di gender, di transessualismo e di tutto quello che vuole lei che certamwente elide le categoire classiche, ma non credo sia questo il punto che interessa qui), il punto proprio quello che a lei non piace sentirsi chiedere quando si parla di rappresentazioni mediatiche del ‘femminicidio’. Specificità femminile è concetto diverso da identità di genere. Lei ci crede ad esempio alla logica delle cosiddette azioni positive in favore di ‘donne’? Io si, nei contesti geografici in cui le donne siano effettivamente discriminate, la specificità esiste, in un contesto che discrimina le ‘donne’, certo che si, ma una cosa è la consapevolzza di questa specificità quando si parla di ‘donne’, altra cosa è la teorizzazione o la costruzione mediatica di un’identità collettiva’ cui faccia da specchio rotto la figura del maschio femminicida, o della soldatessa americana che lanca bombe su KKabul alla pari dei marines maschi. Ugualgianza di che cosa, allora? Domanda importante credo: per cosa lottano le donne oggi?
Sono felice che le distanze si siano ridotte, anche se personalmente non pretendo di spiegarle nulla, non amo le cattedre come la mia storia personale ‘insegna’…In bocca al lupo ancora e un saluto.
Ecco non riesco a scrivere bene la parola ‘uguaglianza’ e ho alterato la g e la l…E una parola così difficile, del resto
Lo Vetere, sono stata brusca, lo ammetto, ma la sua affermazione, senza le specifiche che ne ha dato nell’ultimo intervento, era sconfortante… ho capito, ora, che cosa intendeva: che non esiste un neutro assoluto, un non-sesso, un non-genere, e che comunque bisogna fare i conti con quel che ci ritroviamo in termini di storia ricevuta e limiti fisiologici. Dunque, a me pare che la sua sia una posizione deprimente (tanto più di così non possiamo cambiare, ecc), e storicamente poco esatta: il dimorfismo sessuale in fondo appartiene alla storia recente, nell’epoca d’oro dell’ Islam i generi erano 5, oggi si può riorientare l’identità esteriore di una persona perché si armonizzi con la propria percezione di sé, e così via dicendo fino ad arrivare a discussioni molto più ampie e profonde del nostro, quello sì, limitato sapere. Non credo sia semplice dirimere tutto questo, credo senz’altro che le identità sessuali non siano delle scatole bensì un continuum. E su di esso, si, noi abbiamo responsabilità e possibilità. Mi sembra inoltre fuorviante che ogni volta che si tratta della questione della violenza – ben precisa – di genere e del femminicidio si debba ricominciare da zero a stabilire cosa mai sarà una donna, cos’è in fondo l’umano, dove arriveremo di questo passo eccetera. Infine: io sono madre e le assicuro che non me ne sento affatto in colpa, anzi, spesso mi girano le palle (o, per essere precisi, le ovaie) poiché vivo in una civiltà che lustra il mio onorato e atavico ruolo mentre fa di tutto per azzerare la mia esistenza sociale e la mia sussistenza economica.
@ Morresi. Sì, riconosco di non essere troppo ottimista sulla storia e gli esseri umani. L’Ecclesiaste è un libro che continua a affascinarmi e turbarmi. Ma davanti al pessimismo della ragione continuo a esercitare l’ottimismo della volontà e a cercare di fare un po’ come la ginestra.
Sul benaltrismo del ragionare ogni volta ab ovo, del “di questo passo dove si va a finire”, ci rifletterò, forse ha ragione. In ogni caso, mi creda, non lo uso per impedire, in modo peloso, che non si parli di ciò che si deve parlare, specie se è importante. Dunque non mi vedrà comparire alla tavola rotonda a fare il guastafeste (anche perché comunque vivo in un’altra città!). Consideravo NI un preliminare a quell’incontro.
Comunque (ultima osservazione) mi pare che esiste una generica koiné di pensiero diffuso, anzi direi proprio una vulgata, che ha attecchito in massa in Occidente, secondo la quale l’individuo è tale solo se si libera dall'”oppressione” di ogni condizionamento e ciò, purtroppo, spesso significa “posso fare un po’ come cazzo mi pare” (come recitava uno sketch fulminante di Guzzanti sulla Casa delle libertà). Lungi da me il credere che sia colpa dei C. S., ma mi pare che l’aria che si respira sia questa. Per questo mi scatta forse un riflesso condizionato. Comunque, dicevo, ci rifletterò.
Forse il paradosso dei nostri giorni è che questa licenza totale si sposa al ritorno di idee forti, identità esclusive, intolleranza per la diversità.
Auguri per la fatica di essere madre nelle condizioni socioeconomiche in cui la mette il “cattolico e familocentrico” Stato italiano (sono d’accordo con lei, sull’analisi).
Saluti
errata corrige: “di ciò che” = “di ciò di cui”
premetto che sono convinto che esista una guerra, una micro-guerra se vogliamo, violenta come una grande guerra, ma che è semplicemente circoscritta alla mura domestiche e alla sfera della coppia uomo-donna. Non è l’unica micro-guerra che esiste, c’ anche quella adulti-bambini ad esempio, ma partiamo da questa. In questa guerra, l’uomo è prevalentemente l’aggressore e la donna prevalentemente vittima. Non è una lettura simbolica, è una lettura fattuale e statistica. La donna ha tutto il dovere di fare un casino mostruoso per difendersi, di fare politica per difendersi, di sperimentare tutti i possibili strumenti di difesa.
Il fatto che la donna sia prevalentemente vittima nella micro-guerra di coppia non significa che la donna sia in altri contesti “sempre vittima”. Le analisi dei rapporti madre-figlia mostrano livelli di violenza e aggressività estremi. Ma questo è un altra faccenda. Nella guerra d’aggressione quotidiana tra uomo e donna, i ruoli di carnefice e vittima sono resi espliciti dai “fatti”.
Se leggo quanto scrivono i due commentatori maschi, tiro una conclusione generale. Parto da questa frase di Marco Mantello:
“trovo riduttivo, come ho cercato di spiegare nel primo post, che un problema così complesso come quello della violenza sulle donne sia inquadrato in un problema di comunicazione mediatica di nuovi modelli di linguaggio.”
Ora mi sembra che quel che viene contestato da Mantello è che un problema come quello degli uomini che ammazzano le donne dovrebbe essere riservato a conversazioni tra persone civili e non dovrebbe avvalersi di strumenti e modalità politiche, che da sempre hanno bisogno di parole d’ordine, di accesso ai media e al discorso pubblico, ecc. Finché se ne parla tra persone per bene, uomini e donne, tutto ok, ma se si fornisce dimensione politica al discorso, ossia conflittuale, allora le cose non vanno bene e le donne “esagerano”.
Penso che le donne debbano esagerare di molto prima di giungere a un rapporto di forza minimamente equilibrato con gli uomini che ammazzano a colpi di pistola, martello o calci.
Quando poi Daniele Lo Vetere scrive: “Insomma se una donna non è moglie e madre, che è?”, direi che bisognerebbe mettere la nostra cultura un bel po’ a bagno nei cultural studies, almeno per evitare di fare figuracce a cena.
(Mi si perdoni il fatto che mi sono riferito solo ad alcuni commenti, e non a tutte le precisazioni successive.)
Lo Vetere ho letto le sue precisazioni sulla frase che ho sopra citato e ritiro la mia battuta. Sono d’accordo che non esiste identità senza determinazioni positive. Ma sono anche d’accordo con Renata Morresi che non ci sarebbe bisogno di fare ogni volta una discussione filosofica sui generi (o di mettere in guardia contro gli estremismi di certe teorie di genere), per schierarsi a fianco delle donne nella campagna contro il “femminicidio”.
Ha ragione. Infatti, a posteriori, non interverrei, visto che ho contribuito a scatenare un vespaio. Dico solo più una cosa (ormai sono in ballo, poi taccio, perché ha ragione lei: quando si passa all’azione, i distinguo diventano incomprensibili).
Spiego solo le ragioni del mio invito a non “colpevolizzare” i ruoli tradizionali con un breve aneddoto.
Bel concerto di musica gitana: senti che davvero la musica, poiché non discetta come le parole e non inciampa come queste spesso fanno, scalda l’anima dei tuoi vicini. Quel concerto non ha certo risolto il razzismo verso i rom, ma, invece di prender di petto la questione, l’ha lavorata ai fianchi. Come, “quelli lì” producono questi ritmi che invitano al ballo, “quella lì” canta da strapparti le viscere dalla malinconia?
Poi, una persona che lavora da una vita nei campi rom, parla. Con le migliori intenzioni e con quel po’ di comprensibile risentimento di chi spesso lavora nell’indifferenza di cittadinanza e politica, fa un lungo discorso. Ha ragione, ma, in modo a volte esplicito, più spesso implicito (è una risonanza delle sue parole), accusa un “voi” di razzismo, di stupidità, di incapacità di capire, infine dice che il suo maggior rimpianto nella vita è non essere rom, e sembra quasi accusare quelli che le stanno davanti di essere quello che sono, non rom.
Io fra me e me pensavo che si stava avviticchiando in una spirale pericolosa, che era meglio che s’interrompesse, che il discorso era controproducente (vedevo le facce dei miei vicini, li vedevo agitarsi sulla poltrona e sbuffare).
Insomma: credo che la lotta contro la violenza e l’intolleranza sia molto difficile, e ho sempre il forte timore che insinuare, anche con la raffinatezza di teorie filosofiche e critiche, che per rispettare l’altro devi rinunciare alla tua identità, sia sempre a rischio di convincere solo chi è già convinto, e che fortifichi ancor di più quelli che non vogliono capire.
Saluti
Renata Morresi scrive:
“sì, ognuno deve essere libera/o di essere QUEL CHE LE/GLI PARE, e se c’è bisogno di un po’ di teoria di genere andate a comprarvi i libri Butler e Irigaray che sono in giro da trent’anni.”
Le parole di Renata vanno interpretate perché mi pare abbiano due sensi differenti:
1. Le persone scelgono la propria identità sessuale all’interno di un infinito spettro di possibilità.
2. Ogni individuo possiede una propria innata identità sessuale, dunque deve essere lasciato libero di esprimerla/realizzarla secondo una forma/modo che ritiene congruente.
Nella seconda ipotesi l’identità sessuale (mi riferisco più che altro a identità e ruolo di genere, orientamento sessuale) è un bias (inclinazione, pregiudizio), che ovviamente viene definito interagendo con le aspettative sociali sul genere.
Direi che è questo il significato delle parole di Renata, perché l’altra interpretazione si basa su un’idea di libertà astratta che pare più che altro una drammatizzazione. E costruirci una critica sopra va contro il principio di carità interpretativa.
Caro Andrea Inglese
Certo che bisogna avvalersi di strumenti e modalità politiche, non farmi passare per quello che non sono, un benpensante che vive sull’Aventino…Il problema è come venga influenzata oggi l’opinione pubblica su questi temi dai media, il problema è quanta società civile seria e bene informata sia coinvolta o partecipi alla formazione dell’opionione pubblica (o di una’società politica’).
Sui media la doamnda è: c’è un problema di qualità della comunicazione, e dei suoi contenuti quandosi parla di violenza sulle donne? Si. Ma questo problema secondo me riguarda non solo il fatto di dire ‘brasiliana’ invece di ‘persona’ come riportato nei commenti precendenti,ma anche l’analisi di parole come ‘femminicidio’ e ‘violenza di genere’. Esiste o no una tendenza degenerativa nei ragionamenti da articolo di giornale o quant’altro effettuati sovente in termini di lotta al ‘femminicidio’, a banalizzare il tema della violenza delle donne come violenza di genere tour court? Esiste o no una tendenza mediatica molto più generlae a ridurre tutto a slogan, o ‘parole d’ordine’ (femminicidio, beni comuni, precariato) o a mere finalità di educazione dall’alto di maggioranzae che si imbevono solo di parole senza conoscere un emerito nulla? Ecco su parole come femminicidio e violenza di genere a me pare che o ci si interroga su un linguaggio a cui, purturoppo automaticamente, mi viene da collegare i ‘se non ora quando’ in manifestazione con diretta su repubblica.it con battito di mani a tempo e coretto capitananto dal palco ottenere chissà quali enormi effetti politici sulle masse di omofobi che popolano le coste italiche, oppure si fa riferimento a quelle ‘parole d’ordine’ zenza pensarci troppo, come in parte avviene nel post che commentiamo, a mio avviso. Ecco io di quelle parole, a livello politico, non posso ignorare non tanto l’origine quanto l’uso egmenonico che ne fanno i media, e credo ce qualsiasi rifelssione sulal violenza sulle donne dovrebbe porsi questo tipo di problemi. Questo mi pare un punto importante, a livello di riflessione politica. Quindi confermo la frase che mi imputi come ‘impolitica’, che andrebbe letta, peraltro, in relazione all’intero primo commento e non estrapolata, a mio avviso. Un saluto
Ovviamente all’ultima riga intendo dire, intendo dire confermo la maatrice ‘politica’ della frase che mi imputi come ‘impolitica’, nonsono contrario a priori al commento su un excerpt, ma inquesto caso la frase andrebbe letta in relazione a tutto quello che ho detto, prima e poi
Scrive Andrea Inglese:
“sono anche d’accordo con Renata Morresi che non ci sarebbe bisogno di fare ogni volta una discussione filosofica sui generi (o di mettere in guardia contro gli estremismi di certe teorie di genere), per schierarsi a fianco delle donne nella campagna contro il ‘femminicidio’.”
E’ un argomento basato sul realismo (i femminicidi sono reali nonostante le vostre discussioni teoriche).
Il problema è che coloro che sollevano l’obiezione “la violenza sulle persone transgender ha la stessa logica oppressiva di genere del femminicidio”, hanno perfettamente ragione.
Quindi direi che proprio l’esigenza di realismo spinge alla riflessione sui generi (non per negare il femminicio ovviamente, ma per comprendere quanto sia vasto).
Purtroppo a darmi ragione c’è l’inaudita decisione del parlamento che ha considerato il concetto di “transgender” un “mostro giuridico”.
argomento molto, molto interessante, Andrea, grazie
Per spiegare meglio ancora quello che mi preoccupa e su cui non vedo chiaro, e per riallacciarmi alle connessioni fra la frase estrapolata da Andrea e il mio primo intervento, mi pongo questa domanda, che è volutamente massimalista e estrema e mi fa tremare i polsi:
che differenza c’è fra dire “violenza” procurata a una “donna” dagli appartenenti al genere “uomo” (con relativo superamento dello stereoptipo del “marocchino”), e frasi come: tutti i “negri” spacciano; tutti gli “islamici” sono omofobi; tutti gli “omosessuali” sono pedofili?
Rendiamo la domanda meno estrema, adesso: che differenza c’è fra il dir con linguaggio più consono: “Le donne sono spesso oggetto di violenza da parte di uomini per queste e talaltre ragioni”. E il dire: ‘Gli immigrati africani nel parco sotto casa mia spesso spacciano per queste e talatre ragioni’
Anche in questa seconda variante della domanda, forse meno estrema della prima, mi fa del tutto tremare i polsi.
Perchè me li fa tremare? Perchè penso subito che allora ci sono senz’altro anche donne che sono oggetto di violenza da parte di donne, e uomini che sono oggetto di violenza da parte di donne, e neri che non spacciano, e alcuni bianchi che spacciano, e alcuni islamici che non sono terroriristi, è per questo che i miei plosi tremano ancora?
No nemmeno per questo, a dire il vero: forse sono le categorie mentali ‘nero che spaccia’, islamico che mette bombe’, ‘uomo/femminicida’, ‘donna/vittima di violenza di genere, ‘gay e talora pedofilo ma anche no’, chemi mettono in testa i media? Forse è questo che mi spaventa molto, perchè poi si passa presto alla biologia, all’analisi dei tassi ormonali e dei livelli di testosterone, o alla fidanzata di Di Cataldo, o a Balotelli e ai cori razzisti come ‘modelli’ per costurire l’opinione pubblica dall’alto.
“insomma se una donna non è moglie e madre, che è?”
la domanda sfuggita al veterocommentatore vale più di un post.
Uno smottamento, un decalage continuo nel medioevo veterotestamentario passato e presente.
oppure:
“insomma se un uomo non è marito e padre, che è?”
è notte, e l’udienza è tolta
renata morresi, lei curiosamente scrive:
“la parola ‘femminicidio’ disturba?”
Non ho scritto che mi disturba. Ho scritto “mi pare controproducente”. E ho motivato.
“disturba? allora vuol dire che è giusta.”
E’ bizzarro che un’espressione chiave in un simile scenario debba disturbare, anziché convincere, persuadere e dunque essere perno di una buona retorica.
Scrive:
“pensate che è insultante”
Non ho scritto che è insultante. La telepatia e la magia lasciamola da parte in una discussione razionale.
“riduce alcuni soggetti al loro “femminile” (una formazione tutt’altro che biologica, peraltro)?”
In femminicidio risuona la parola “femmina”.
Nell’uso comune, così come nei dizionari, femmina vuol dire (vedi dizionario)
1 Essere vivente che produce solo gameti femminili e, quindi, per quanto riguarda la specie animale, dotato della capacità di partorire figli o deporre uova
2 Donna, essere umano di sesso femminile; spesso con valore spreg. [!]
Insomma, i destinatari hanno spesso a che fare con questo campo semantico.
“è insultante per chi lo perpetra”
Bisognerebbe domandare a “chi lo perpetra”. A me non pare insultante per i carnefici, mi pare riduttivo e controproducente per tutti gli altri, in primo luogo le vittime.
“è azzeccata perché riesce a perimetrare una affezione grave della società italiana tutta:”
Non è vero che “riesce a perimetrare una affezione grave etc”. E’ una parola ambigua, che come tutte le parole ambigue sparate nel circuito mediatico (piccolo o grande) risuona parecchio, ma non è detto che tutte le espressioni risonanti siano buone per una determinata battaglia. Ci sono, appunto, anche retoriche ed espressioni controproducenti.
dm sostieni che la parola “femminicidio” è controproducente dal punto di vista politico, ossia del potere di aggregazione, di esplicitazione, di influenza che ha sui media, ecc. Puo portare degli esempi concreti, politici, a sostegno di questa tua tesi? I distinguo semantici, sciolti da ogni contesto pragmatico, hanno poco senso in una discussione incentrata sugli effetti “politici” di una parola…
Andrea Inglese, lei scrive (uso il lei per praticità, non certo per inimicizia):
sostieni che la parola “femminicidio” è controproducente dal punto di vista politico, ossia del potere di aggregazione, di esplicitazione, di influenza che ha sui media, ecc.
No. Sostengo, o più precisamente rilevo che nell’espressione “femminicidio” risuona pericolosamente “femmina” e dunque sesso, biologia. Ho anche il sospetto che la connessione sia tanto più stretta quanto più è comune il senso del ricevente (vedi ad esempio google). Mentre qui il baricentro della questione è culturale, mi pare, la biologia non è sul banco degli imputati (“cultura” compare addirittura 25 volte, tra post e commenti).
Diverso discorso per “violenza di genere”.
(Ah, si parla di pragmatica, ovviamente).
se non ci sono le condizioni minime per agire sereni la realtà pone in essere raffreddamenti emotivi che la normalità chiama terribili.
il filtro sociale le annichilisce al loro ruolo di moglie e madre , qual è il problema se vuol rimaner zitella o baciarsi con le femmine. La demografia non è in pericolo , e il gioco del calcio riempie cuori e cervelli e potete anche fumare se volete. Sia lodato il facile profitto sempre sia lodato.
a marco m., che scrive:
“che differenza c’è fra dire “violenza” procurata a una “donna” dagli appartenenti al genere “uomo” (con relativo superamento dello stereoptipo del “marocchino”), e frasi come: tutti i “negri” spacciano; tutti gli “islamici” sono omofobi; tutti gli “omosessuali” sono pedofili?”
scusa ma qui metti assieme capra e cavoli!
dove la vedi l’equivalenza tra:
1) il termine X (femminicidio) sta a signficare “violenza procuarata da una categoria y di persone (uomini) su una categoria k di persone (donne)”
e 2) tutti i componenti di una categoria j di persone(i neri) praticano l’attività z (spacciano)?
addio logica del discorso…
Ad Andrea I.
Per favore rispondi nel merito delle mie osservazioni, lacia perdere i bizantinismi, mi pare di aver fatto un ragionamento partendo da quella prima domanda.
Nel merito, non mi pare di mettere insieme capra e cavoli, mi pare di essere stato abbastanza chiaro,leggila così allora, forse con a-b è più semplice : ‘tutti gli appartenenti a una data categoria ‘astratta’ (a) (uomini, neri, etc.) compiono tipicamente una certa azione (b) (uccidere donne; spacciare). Stavo parlando di pregiudizi, è chiaro adesso?
da nessuna parte nel comunicato postato da Renata mi sembra si dica una cosa così imbecille: ossia che basta essere uomini per andare ad ammazzare o a violentare una donna; quello che si dice è questo: 1)femminicidio sono uomini che uccidono le donne in quanto donne (non perché ne hanno investita per sbaglio una per strada); 2)questo fenomeno (il femminicidio) è un problema enorme, urgente e merita la massima mobilitazione delle persone, uomini e donne, a tutti i livelli, da quello quotidiano a quello istituzionale.
Nel senso che in questo modo, Andrea, mi imponi di argomentare sulle pagliuzze, e non discuti il contenuto dell’argomentazione, mi pare molto ampio, non mi va di continuare a spiegarmi, quello che avevo da dire l’ho detto, se ti va di discuterne nel merito ne sarò felice, altrimenti finiamo sempre con lo slittare sulla ‘parte’ rispetto al ‘tutto’ e anche questo è un modo per eludere i problemi posti, non ti pare? Stavo cercando solo di essere più chiaro, non mi va di mettemri a discutere a e b, davvero, evidentemente ho complicato ancora di più le cose, o forse la sotanza dle mio discorso non paice e non merita di essere discussa, solo rimossa con argomentazioni retoriche, a questo punto mi viene da pensare questo…Ciao.
Provo di nuovo a ripondere a Andrea Inglese, dopo tre commenti messi in moderazione e spariti che spero verranno ripristinati presto…
Allora quello che ti volevo dire, Andrea, è che mi paicerebbe che rispondessi nel merito alle mie argoemntazioni, e alla loro sostanza, mentre per due volte di seguito ti sei soffermato su una frase e poi su una presunta incongruenza logica di un esempio. Non mi pare utile discutere in questo modo perchè si elude, ripeto, la sostanza dei miei argomenti
Nel merito della tua obiezione su “capra e cavoli”, in non ce le vedo, sinceramente, nel senso che in quell’esempio e in quella domanda ab exemplo e volutamente paradossale che p l’unic aocsa deml mio intervento che commenti in modo scusami retorico -ebbene in quella domanda si parlava di un problema di pregiudizi, e ci si domandava senza alcuna pretesa da logici se ritenere che tutti gli appartaenenti alla categoria A (maschio, uomo) uccidano ‘donne’ (cioè compiano quel tipo di attività materiale B) non equivalga a dire che tutti gli appartenenti alla categoria “nero” compiano l’attività materiale dello spacciare. Proviamo a renderla più logica? Allora sostituiamo al verbo ‘compiono’ il verbono ‘siano potenzialmente idonei a; abbiano la tendenza a”. L’esempio che riportavo, ripeto, era diretto a spiegarmi meglio, rispetto alla sostanza delle argomentazioni, che tu Andrea non hai preso fin qui in considerazione, facendo sempre slittare il discorso su ‘frasi’, o appunto obiezioni ‘logiche’ o pseudo.tali a meri esempi. Forse ho complicato io le cose, però credo che sia più utile discutere i miei ergomenti, e non svicolare…tutto qui. Spero di non essere rimesso per la quarta volta in moderazione e ch eil messaggio arrivi.
ohilà, ma cosa mi sono persa in queste poche ore? per un furioso raptus di pseudospeciazione tutti i maschi italici si sono improvvisamente tramutati in violenti serial-killer di donne? non mi pare proprio, e non capisco i presunti sillogismi che ne seguono.
non capisco dove sia scritto qua sopra che “tutti gli appartenenti alla categoria uomo uccidano donne”.
non capisco perché ogni volta che si apre il discorso sul femminicidio e la violenza sulle donne tocca sempre fare postille e mettere incisi in cui si specifica che, certo, ci sono anche delle donne cattive! eh, addirittura! e degli uomini buoni! magari aggiungendo che ci sono dei siciliani non mafiosi e dei nord-africani non spacciatori?!?!
certo, ma la mafia c’è, ed è forte in Sicilia, i nord-africani vengono facilmente cooptati da chi che gestisce lo spaccio di droga, e pure il femminicidio esiste, la violenza di genere è un fatto e fa statistica (2006: nel corso della vita più di 80 donne su cento hanno subito violenza, fisica o sessuale, da parte di un uomo, 37 su cento dal proprio partner o ex – vedere i dati: http://www.istat.it/it/archivio/violenza)
insomma, marco, mi perdoni il tono sarcastico, però la questione va analizzata nella sua complessità altrimenti, come ben detto da Inglese, si atomizza il discorso sui singoli buoni o cattivi e si disinnesca qualsiasi ipotesi di cambiamento politico, ovvero sociale, civile, collettivo, non basato sulla personale presa di coscienza di un individuo
infine, una ultima precisazione su quanto scrive qui: “(poi certo potremmo parlare di gender, di transessualismo e di tutto quello che vuole lei che certamwente elide le categoire classiche, ma non credo sia questo il punto che interessa qui)” – invece interessa moltissimo questo punto, e occorre fare attenzione a non ridurre il tutto a uno scontro tra etero poco empatici, perché spesso è proprio l’etero-normativismo a generare la violenza. tanto più che la tavola rotonda di domenica è animata proprio dalla “convinzione che la violenza lesbofobica abbia profondamente a che fare con la cultura che nutre il femminicidio in tutto il mondo”
@ Cohen. Non ho capito se il “veterocommentatore” sia riferito al mio cenno all’Ecclesiaste o un gioco sul mio nome. Nel secondo caso, non amo l’ironia sulle persone, ma gliela perdono perchhé riconosco che la mia frase potesse essere male intesa. Un colpo per uno, insomma.
Però la pregherei di leggere, con attenzione, il mio secondo commento, come ha fatto Inglese. Spero che sia chiaro il mio pensiero.
Ho sempre cercato di usare la libertà di opinione di commentatore per argomentare e mai per semplificare o fare boutade o provocazioni. Per questo mi scuso con tutti se ho infastidito qualcuno, ma, altresì, chiedo il diritto di essere letto e interpretato dopo una lettura meno precipitosa delle mie parole.
Tornassi indietro, non commenterei fin dall’inizio. Sempre trovato sterile fare il tiro al piccione sul web. Mi dispiace di esserci incappato preterintenzionalmente. Non voglio essere né il cecchino, ma neppure il piccione.
Solo questo le chiedo, Cohen.
errata corrige: togliere il “né” nell’ultima frase
Un’osservazione pe ri gestori del sito. Su questo fatto dell’andare in moderazione, comunque, sarebbe utile una spiegazione perchè prprio non cpaisco. Come funziona? Mi pare di capire che ci sia un frasario bandito automaticamente dalla rete, è così? Da cosa dipende l’andare in moderazione? E’ uan cosa che cenera comunque sensazioni spiacevoli in chi partecipa a un dibattito, e inoltre ti impone di modificare il tuo modo di esprimerti rispetto a una specie di panopticon che ti osserva in automatica e che non ti dà diritto di replica…Non c’èmodo di parlarne anche di questo tema del linguaggio in rete? O magari articoli su nazioen indiana già postati che non ho visto? Grazie
Non è la parola femminicidio che mi pone problema, ma la violenza fatta alle donne:
morte, stupro, colpi.
Leggendo i commenti, constato l’imbarazzo degli uomini sotto l’apparenza dell’argomentazione. Mi dispiace, ma ogni donna ha incontrato la violenza dalla parte degli uomini, sovente nella casa familiale.
Non ho mai visto una madre violentare la sua figlia, o colpire il corpo di una bambina.
Mi dispiace una categoria di uomini fanno male alle bambine, alle ragazze, alle donne.
Sono violenti con le parole e con il corpo.
Una categoria di uomini credono che tutto è permesso, che una bambina, una ragazza, una donna sono la loro proprietà.
E’la realtà. Mi dispiace.
A Veronique Vergé, ci sono madri che uccidono i figli, in un certo contesto geografico, ambientale, storico. E ci sono donne uccise e stuprate da uomini, in un certo contesto ambientale, culturale storico. Io la vedo così, esiste certamente una specificità femminile e una specificità della violenza perpetrata a danno delle donne, la violenza di genere invece è un concetto che non mi convince, al pari del femminicidio. Ciao
Non pensavo in termine di genere, ma di educazione, di rappresentazione che hanno gli uomini a partire del corpo.
Ok, non tutti però, e non è mera autodifesa o imbarazzo credimi
Io inviterei gli uomini che hanno qui commentato di andare dalle rispettive madri/mogli/amanti/amiche a chiedere se mai in vita loro elle avessero mai subito molestie da parte degli uomini. Io, che sono una donna, non conosco nessuna donna a prescindere dal suo ruolo “domestico” – passatemi il termine – che non avesse subito alcuna molestia (sessuale e non) da parte di un uomo.
E’ un dato empirico semplice, un rilievo che ti fa capire subito qual è e com’è la situazione. E con tutta la buona volontà ci provo a scindere le idee ma non riesco: non capisco come facciano gli uomini a non sentirsi chiamati in causa come “società/genere” in merito alla questione “femminicida”. Se un bambino viene malmenato da un adulto, io, da adulta, mi sento comunque chiamata in causa, lo vedo come un fallimento di chi dovrebbe preservare l’incolumità e la vita delle persone di cui ha responsabilità. Perchè gli uomini, in generale e con ampio margine d’errore, rifuggono qualsiasi tipo di coinvolgimento emotivo/razionale quando si tratta di “femminicidio”? Perchè sono ancora le donne ad organizzare queste tavole rotonde? Dove siete voi? Cosa fate concretamente? Come vi esponete? Appoggiando le cause d’altri. Se è vero che il femminicidio riguarda una lotta intestina tra uomo e donna, dov’è e cosa fa l’uomo che non vuole vedersi categorizzato nella stessa specie dei violenti? Si lamenta solo del tono generico di queste battaglie, ma concretamente non prende il megafono, nè spreme le proprie capacità intellettuali per parlare alla metà a cui appartiene.
L’assenza del contributo maschile nei confronti della questione del “femminicidio” è imbarazzante (il classico padre assente?): sempre e solo lì a difendere il proprio orticello di “persona per bene”, e poi si meravigliano se le donne sono terribilmente incazzate.
Cara Skywalker ha perfettamente ragione. E nel bersaglio suo mi ci metto pure io. Riflettendo oggi a questo tema mi dicevo che io, in quanto maschio, potrei partire dal riflettere a tutto ciò che ho fatto in vita mia ad una donna, in quanto donna, che mi fa oggi vergognare. E già così avrei materiali per un’autocritica. Poi ci sarebbe da parlare dei condizionamenti. In quanto maschio, dai miei primi giorni di socializzazione, ho avuto a che fare con vari modelli di uomo, con immagini della virilità, e tante begli ammenicoli dell’immaginario sociale. L’essere di sinistra, l’essere artisti, l’essere sensibili non vuol dire granché purtroppo.Bertrand Cantat, icona del rock engagé in Francia, membro dei Noir Désir, ammazzò di botte la sua compagna, Marie Trintignant, lasciandola agonizzare durante la notte su di un divano.
Ringrazio Skywalker per avere tradotto quello che volevo scrivere. Mi riconosco nelle sue parole.
Nei commenti ho trovato argomenti fallaci per non riguardare la realtà.
Si, le donne sono vittime di violenza dalla parte degli uomini almeno una volta nella vita.
Non parlo solo delle parole volgari nella strada, ma di violenza.
La storia delle donne è sovente storia della paura.
E’difficile per me di vedere come sotto il pretesto dell’argomentazione, gli uomini fuggono la realtà.
Che cosa non vogliono vedere o ascoltare?
Caro Andrea Inglese leggendola mi è tornato in mente un inciso di Virginia Woolf in proposito della questione dell'”essere artisti”*, la quale in “Una stanza tutta per sè” (che invito a leggere se non lo si è letto e a rileggere se lo si è già fatto, a cui aggiungo il resto della sua produzione, soprattutto “Orlando” e “Le tre ghinee”: buona parte della questione femminile è tutta lì, se poi vogliamo aggiungerci letture quali “Il dominio maschile” di Pierre Bourdieu così da mettere da parte i convenevoli e partire tutti da una base comune) dice:
“Lamb, Browne, Thackeray, Newman, Sterne, Dickens, De Quincey – chicchessia – non hanno mai aiutato una donna a scrivere, benchè ella possa avere imparato da loro qualche espediente, per poi adattarlo ad uso proprio”
e, ancora più illuminante:
“La storia dell’opposizione degli uomini all’emancipazione delle donne è forse più interessante della storia stessa di quella emancipazione”.
Partirei da questi 2 punti per formulare qualsiasi tipo di riflessione in proposito, e perchè no, imbastire una tavola rotonda sulla questione femminile dove sono presenti tanto gli uomini quanto le donne poichè la “questione femminile” porta con sè una “questione maschile” se è vero che la società non è divisa come i bagni pubblici ma strutturata come una enorme agorà.
Fare dell’autocritica è già qualcosa per cominciare, anzi, forse è proprio il passo necessario per trasformare ogni considerazione successiva in un “call to action”. Non penso sia necessario un miracolo per trasformare il verbo in carne! E diamine!
*no, no, il livello culturale non c’entra assolutamente nulla (=cioè se vediamo la cultura come l’accumulo di nozioni), nè l’estrazione sociale, nè le idee politiche. Importanti sono gli esempi ricevuti e una discreta apertura mentale che consente di fare autocritica. Rispondendo a mantello anche io sono per la parità, il che significa: voglio più maestri alla scuola dell’infanzia, voglio un cambiamento nei programmi ministeriali del MIUR per la scuola dell’obbligo: non devo aspettare di iscrivermi all’università per studiare “letteratura femminile” ed “arte femminile” (ebbene si, confrontandomi con altre persone ho notato che i contributi femminili all’arte sono tutt’ora considerati marginali, come se non potessero far parte della storia per motivi a me oscuri). Per me si deve intervenire sulla scuola per i bambini e i ragazzi (al liceo in letteratura inglese non abbiamo toccato nè Mary Shelley, Austen, Bronte, Woolf nonostante fossero riportate dal libro di testo, in italiano a stento siamo riusciti a leggere qualcosa della Morante, in arte esiste solo Frida Khalo che si bypassa bellamente) mentre la vedo nera per gli adulti. O gli intellettuali cominciano ad intelligere, prendendo posizione o – per dirla alla Aldo – devo pensare che preferiscano “imbellere” sapendo di essere imbecilli.
Credo che quando i discorsi, pubblici e da bar, incominciano col piede sbagliato, con la retorica sbagliata non ci si capisca molto. (E la relazione tra piede e retorica è evidente: per entrambi è possibile scegliere tra le pedate e una corsa che vada lontano). Per me è un costante impegno. In qualunque situazione, discussione io mi trovi – nel privato come nel pubblico, ed è certo più difficile nel privato – sottolineo le frasi le sfumature i non detti e i detti per metafora lesivi delle donne, e credo mi sia riuscito di spostare di qualche millimetro diversi maschilisti di ferro con martellate regolari e ben assestate. Peraltro sono vittima indiretta di un clima di violenza domestica spesso solo psicologica che mi sono trascinato dietro fino a qui. Ovvero nel mio caso c’entra l’etica ma la pancia non è estranea. Detto questo, non sopporto la cattiva retorica soprattutto se è per una buona causa – anche qui c’è la pancia e c’è l’etica. Soprattutto non mi piace il femminismo infantile, la versione evoluta dei giochi maschi contro femmine, innanzitutto perché non può essere preso sul serio. E perciò quando ne sento l’odore, alzo la mano e con tutta l’umiltà possibile dico qualcosa.
Ad esempio, Skywalker ha scritto:
“Se è vero che il femminicidio riguarda una lotta intestina tra uomo e donna, dov’è e cosa fa l’uomo che non vuole vedersi categorizzato nella stessa specie dei violenti?”
In questa frase ci sono le tracce di più o meno tutto quello che secondo me non va, il femminicidio come “lotta intestina tra uomo e donna”, “l’uomo … categorizzato”, la “specie dei violenti” (curioso poi l’utilizzo della parola specie anche in relazione ai miei commenti).
Interessante anche la prima risposta di Renata Morresi al commento in cui dicevo della perplessità rispetto all’uso di femminicidio. Dava per scontato che, date le critiche, l’uso della parola dovesse disturbarmi. E poiché mi disturba (non mi disturba) allora è la parola giusta, è scritto così. Come se non avessimo bisogno di buone parole, che inneschino pensieri virtuosi anziché altre sterili conflittualità culturali tipo queste. Come se non avessimo già abbastanza disturbi, e non fossero già troppi i ragionamenti mancati. Come se insomma non fosse dovuto il passaggio alla ragione, dopo vent’anni di parole d’ordine prese a prestito qua e là. Mi sembra sensato.
dm, sono contenta di rispiegarmi con più calma: senza stare a fare una disquisizione lessicologica direi che “femminicidio” va bene proprio perché è parola scomoda, scabra, cacofonica, infantile, e addita subito alla vergognosa riduzione a “femmina=soggiogata=dominata=punita” che il femminicida (o “la” femminicida, se ce n’è) mette in atto. l’azione è immonda, la parola è azzeccata. innesca il pensiero di indignazione e resistenza che deve. o no? o è solo sensazione? non so, non credo. mi pare cosa buona parlarne, comunque, e di questo la ringrazio. violenza di genere va pure bene, ma nel discorso pubblico generale suona un po’ da manuale poststrutturalista.
Sostenere che tutte le donne hanno subito violenza da uomini nella loro vita equivale a sostenere che tutte le madri hanno picchiato o fatto picchiare i figli maschi nella loro infanzia. Non mi sento di sottoscrivere affermazioni del genere. Esistono tendenze culturali, ambientali, e concrete società dove domina il maschilismo, non esistono invece le tare genetiche nè un modello astratto di ‘donna’ vittima dell’ ‘uomo’.
Sul tema della violenza (praticata e subita) consiglio la lettura critica di Alice Miller. Talora esiste un nesso (che la Miller esaspera a mio avviso, ma coglie, distanziandosi in questo da Freud) fra violenza praticata ai danni di qualcuno nell’infanzia e violenza di chi la pratica in età adulta. Vogliamo parlare di come sono cresciuti i ragazzini (maschi) nel dopoguerra che ne so in Austria o in Germania con madri che o li picchiavano o reputavano normale che l’uomo lo facesse al posto loro ma a legnate? Vogliamo parlare di un film come Festen, e dell a’non violenza’ di quella madre che assiste per anni allo stupro dei figli, allora, tanto per rimanere sul mediatico?
Ora da questa serie di cose che ho richiamato, dovrei forse desumere che la categoria ‘madre’ è una matricida, e teorizzare l’infanticidio di genere magari accompagnato da suicidio della genitrice? Mi pare aberrante.
Anzi lo trovo non solo aberrante, ma del tutto inutile. Il ragionamento di Skywalker è talmente totalizzante da configurare il genere ‘maschio’ come una sorta di violentatore potenziale o assassino potenziale…E’ giusto invece e lo condivido, il richiamo di Skywalker e di Inglese alla formazione scolastica e alla riflessione critica sulle influenze ambientali ‘maschiliste’ e ‘violente’ che intere generazioni hanno assorbito in Italia, e non solo, a partire dalla tenera età.
Mi dispiace, non mi sento un assassino potenziale e non mi sento una persona violenta o potenzialmente tale, in quanto ‘uomo’, anche se la violenza sulel donne esiste, come credo che una ‘donna’ non si senta una potenziale infanticida, anche se l’infanticidio esiste. Queste sono tutte semplificazioni, secondo me.
Mantello, è la terza volta che le viene detto che qui nessuno sta sostenendo che ogni uomo è un violento, stiamo dicendo altro: che moltissime donne hanno subito violenza fisica o sessuale da qualche uomo. La cosa non le piace? Neanche a me, e fin qui siamo d’accordo. Come esiste l’infanticidio e il parricidio, così esiste il femminicidio, che non è praticato, deo gratia, da tutti gli individui maschi. Possiamo andare avanti adesso?
Eppure le domande di Skywalker sono semplici. Hanno a che fare con la responsabilità. Con il sentirsi tutti responsabili e, in alcuni casi, poiché appartenenti a certe “semplici” categorie addirittura “più” responsabili. E quindi copio, pari pari la prima delle domande di Skywalker, cui solo Andrea Inglese ha risposto:
“Io inviterei gli uomini che hanno qui commentato di andare dalle rispettive madri/mogli/amanti/amiche a chiedere se mai in vita loro elle avessero mai subito molestie da parte degli uomini. Io, che sono una donna, non conosco nessuna donna a prescindere dal suo ruolo “domestico” – passatemi il termine – che non avesse subito alcuna molestia (sessuale e non) da parte di un uomo.”
Su, partiamo da qua. dalla ciccia.
Renata Morresi sono contento che abbia mutato prospettiva rispetto ad alcuni passi del suo post, e all’uso di certe parole…Non era scontato, come del resto non è scontata un po’ di umiltà e meno saccenza…
Mantello, in verità non ho mutato un nulla, solo tentato di spiegare meglio che la violenza di genere e la violenza omofoba sono prassi assai diffuse, più radicate di quanto si pensi – anche se, certo, non meccanicamente attribuibili a ciascun uomo in quanto tale. E comunque, se come uomo si sente un po’ chiamato in causa a capire i sordidi meccanismi di certa sopraffazione esercitata da alcuni uomini – non ho detto da lei stesso – ciò non è che un bene.
Volevo bandire gli incisi invece con lei ho dovuto cedere, vede quanto sono umile?
Quando il groviglio diventa inestricabile a volte è meglio lasciar perdere, tanto ogni nuovo tentativo di sciogliere la matassa lo imbroglia ancor di più. Preferirei perciò non intervenire. Tra scarsa capacità mia di spiegarmi e tendenza all’aggressione personale sulla base di una frase soltanto trascelta tra più interventi, non si capisce perché ignorati, mi pare sensato sfilarsi (con me lo ha fatto Cohen. @ Cohen: non voglio scuse. Però mi aspetto almeno una presa d’atto dell’ingiustizia di avermi dipinto come talebano che porta oscurantismo. Capirà, quando dirò che mestiere faccio, perché questo mi offenda).
Continuo a volermi sfilare. Ne sono dispiaciuto, non è vigliacchieria o scortesia, solo, forse tutto è nato storto dalle fondamenta e a raddrizzarlo non ci riusciamo più.
Però le sollecitazioni a dire la propria in quanto uomo vengono ormai da ben tre commentatrici e sembra quasi che a non rispondere voglia sottrarmi alla cogenza di un dovere morale.
Perdonate la lunga premessa, ma mi pare che le incomprensioni nascano non solo dal contenuto della discussione, ma anche dalle divergenze d’opinione sui modi stessi, e i luoghi, della discussione.
Ho già detto che capisco l’obiezione che Morresi e Inglese mi hanno fatto: non è il caso di ripartire ogni volta ab ovo. Però, visto che non siamo in una piazza o a presentare una petizione, dove contano poche parole e chiare, da controfirmare se si è d’accordo, occorrerebbe stabilire in quale punto del continuum ci collochiamo: più vicini alla piazza, alla parola d’ordine e alla presa netta di posizione, o alla discussione se volete un po’ astratta, ma in cui si possono moltiplicare i punti di vista e i distinguo?
Credo che molte delle incomprensioni cui abbiamo assistito dipendano anche dall’incertezza di statuto di questa discussione (in quale punto del continuum sta?), oltre che – è evidente – per la bruciante gravità del tema.
Vergé, Skywalker, Matteoni chiedono una presa di posizione inequivoca. Bene, credo che ogni azione che riduca almeno un po’ la brutalità dell’uomo sull’uomo, e in particolare del maschio sulla donna (che è uno stillicidio, semisommersa, costante, insidiosa, orribile: l’uomo davanti all’uomo, invece, ha dichiarato guerra e massacrato in pompa magna), sia sacrosanta.
Presa questa posizione, spero a questo punto inequivoca, però pongo un problema politico, visto che la richiesta è di prendre posizione “in quanto uomo”. Se scendo in piazza (che so, per “Se non ora quando”), se firmo una petizione, se entro in Parlamento o in un consiglio regionale, cesso di essere me stesso, e divento lo strumento e il simbolo di qualcosa. Così agisco in quanto uomo, appartenente a un genere e a una categoria, e non in quanto singolo con un nome e un cognome. La mia posizione è chiara, pubblica, manifesta.
Ma posso alzare il mignolo ad obiezione, per dire che io posso agire anche come singolo, non in quanto uomo, parte di una categoria e di un genere? ma che, essendo quel tipo d’azione invisibile, sarà facile dire “sì ma tu che fai?”
A questo punto possiamo dividerci sulla valutazione del peso da dare a queste due azioni. Per me pesa di più la seconda. Non che non prenda parte anche alla prima (a parte entrare in Parlamento…), ma credo soprattutto nella minuta azione quotidiana, centimetro dopo centimetro, silenziosa ma costante (come silenziosa e costante è la violenza sulle donne). Credo che la dimensione collettiva sia oggi molto fragile, e comunque credo che la sua vena si insterilisca ben presto se non è irrorata dal sangue dei mille capillari invisibili dell’azione singola, privata. Quella dimensione privata, oggi addirittura in superfetazione, ma che era il tarlo che ha roso dall’interno le azioni politiche e collettive degli anni d’oro delle azioni politiche e collettive. Basti il rimando a Ecce bombo, Io sono un autarchico, a certe canzoni di Gaber (La comune, Un’idea, Qualcuno era comunista, Chiedo scusa se parlo di Maria).
Si dirà, ma concretamente che fai? Io, nel mio piccolo, faccio l’insegnante e cerco ogni giorno una via per fare della letteratura un sapere dell’intimità, una via all’educazione morale. Qualunque cosa sia diventata la paideia oggi, senza possedere quell’educazione formale dell’animo, chi poi si impegna nella dimensione pubblica corre facilmente il rischio di impegnarsi su di un piano generale che salta però il concreto e il particolare (nella fattispecie: non si comprende la natura della violenza sulle donne per via di massa media. Dunque la tavola rotonda è un evento positivo. Io poi ho provato ad aggiungere che secondo me c’è una dimensione ideologica, dunque generalizzante, anche in certi assunti del poststrutturalismo, e che si può provare a costruire e non solo a decostruire. Solo questa era la mia intenzione, già dal primo intervento).
Insomma, la violenza la combatto, con fatica ed esito incerto, se prendo contatto con la violenza che mi abita, e provo a interloquire con essa, senza comprimerla nel rimosso, ma senza assecondarla. Forse è un po’ come le microguerre di cui parlava Inglese. E’ una lotta estenuante, lo riconosco. Ma non ho mai creduto che, baroni di Munchausen, possiamo salvarci dalla storia tirandocene fuori da soli per i capelli.
Tutto questo per dire (@ Vergé) che non necessariamente le argomentazioni sono usate per ignorare il problema. Forse sono solo pessimista, non luridamente interessato. E riconosco che la mia posizione possa essere deprimente, come ha detto Morresi. Questo lo accetto e non mi offendo. Questo, però.
Perdonate la lunghezza (è solo lo sforzo d’essere chiari fino in fondo) e, come detto, non si prenda il mio silenzio, che inizia ora, come fuga dalle proprie responsabilità.
Grazie per aver preso una posizione netta, Lo Vetere, grazie anche per la sua “minuta azione quotidiana” (meno “minuta” di molte altre, considerato il suo ruolo pubblico di educatore e insegnante).
Mi viene da dirle questo: l’altro giorno mi è capitato di essere alla fiaccolata per la donna uccisa a coltellate sotto casa dall’anziano ex-marito; erano le tre di mattina, lei stava andando al porto ad aiutare il figlio marinaio. Durante il ritrovo per la fiaccolata è passata di lì una vecchia signora, una di quelle donne di mare, erta, indurita e verace, che chiamano “marinare”. Leccava il suo gelato e guardava le foto della donna ammazzata e diceva quant’era bella ancora e poi ha chiesto a noi presenti: “chissà di chi era la colpa?” – una domanda che ci ha lasciati allibiti. Come, una donna muore uccisa in un agguato premeditato e ci domandiamo di chi era la colpa? Ma la domanda vera non è questa, la domanda è: in quale cultura della violenza è vissuta e vive la donna col gelato per porsi il dubbio che vi siano giustificazioni per un atto così efferato? Questa non è decostruzione, non è neanche un problema ‘linguistico’, e non è neanche il problema di una persona, ma neanche di un gruppo di persone. Mi sembra un problema politico, un problema di tutti.
no, io non chiedo una presa di posizione – chiedo una verifica dei fatti. Che come singolo ognuno può fare. Nella semplice vita quotidiana di ognuno, come dice Lo Vetere e sono d’accordo, questi fatti si vedono, si conoscono, ed è lì che ci si può muovere per difendere, ammettere, fare. Per esempio, cominciando con un: sì, conosco donne che hanno subito forme di violenza/disprezzo/umiliazione da parte di un uomo, in vari modi e a vari gradi.
Ripeto, riprendendo da Skywalker, finché ce ne sarà bisogno:
“Io inviterei gli uomini che hanno qui commentato di andare dalle rispettive madri/mogli/amanti/amiche a chiedere se mai in vita loro elle avessero mai subito molestie da parte degli uomini. Io, che sono una donna, non conosco nessuna donna a prescindere dal suo ruolo “domestico” – passatemi il termine – che non avesse subito alcuna molestia (sessuale e non) da parte di un uomo.”
Francesca e Skywalker, ma cosa ti/vi fa prsumere che gli “uomini che hanno qui commentato” queste domande non le abbiano già poste di loro alla propria partner, o a donne in genere? Lo vedi come torna su a tratti questo sottile antagonismo verso la categoria ‘uomo’, quando per quel che mi riguarda stai/state parlando con Marco?
Allora, bando alle ciance, cosa si fa? Posso aspettarmi più attenzione – intellettuale, politica etc – da parte del maschio su questa questione, lavorando su un territorio comune (ma dico io: quanti di voi hanno letto sulla discriminazione femminile? Quanti saggi, articoli, film, mostre, eventi avete vissuto sull’argomento prima di mettere bocca? Mi pare sempre che si affronti la questione in modo astratto, oserei dire “accademico”)? Non ho capito, io ho sempre l’impressione che se non accade prima qualcosa alle proprie figlie (insomma deve esserci sempre uno stretto vincolo di proprietà) non ci si rende conto della gravità del problema. E infatti i commenti di marco sono sempre su quel tono “not in my yard”. Ed invece no, è del tuo quadrato d’erba che si sta parlando. Non sono solo io in discussione, siamo tutti in discussione e con tutto il rispetto questa costante difesa della propria rispettabilità borghese a me dà proprio sui nervi.
Se prima era una questione di genere ora è anche una questione di classe. E per quanto ne so la lotta per l’emancipazione è stata appunto una lotta, nessuno ha concesso niente. O mi sbaglio?
Cara Skywalker, si cerca di partire anche dalle proprie non esausitve esperienze personali e da quelle della cerchia di persone che si conosce proprio per relativizzare le sole letture teoriche di Judith Butler, o la visione di film, o gli studi accademici su questi temi. Vuoi sapere se ho conosciuto donne che hanno subito violenza e se ho assistito nella mia vita a episodi di violenza sulle donne? Si è successo, e come me a diverse persone che conosco, e non è che questa cosa non ha avuto un impatto sul mio modo di ragionare, o sul loro, perchè siamo ‘uomini’ e ci si deve dare del ‘voi’, al plurale. In alcuni periodi della mia vita, se posso buttarla ancora sul piano della testimonianza personale, mi sono imbattuto anche in donne ‘violente’ in diversi sensi, mi è capitato anche questo a dire il vero
ma sì, mi avete convinto, in fondo ci sono alcuni sparsi uomini che fanno cose sbagliate, e ci sono alcune sparse donne che fanno cose cattive, e poi ci sono alcuni sparsi individui che fanno cose non legali, perché chiamarli mafia?
non so, potremmo chiamarli Ubbalubbabubbadibubba.
Va be’, ma siamo al delirio. Il Maschio, l’Uomo e, davvero, mancano solo le maiuscole. Qui c’è qualcuno che crede che femminismo sia il contrario di maschilismo? Suvvia. Vede Morresi perché mi accanisco, con tutta la mia ingenuità e la buona volontà, contro l’uso sempliciotto di certe espressioni? La parola d’ordine è il seme culturale da cui possono articolarsi discorsi più o meno sensati. Se si usa una parola più precisa, meno ambigua (fa niente se suona estranea alla semplicità semplificante dell’esistente) ci si possono aspettare buoni risultati, buoni frutti. Altrimenti è così, chi semina vento raccoglie niente. La tempesta non è niente. E non mi sembra una novità.
Torno del lavoro. Non ho potuto scrivere nella giornata.
Come lo dice Renata, qui, le donne non pretendono che ogni uomo è violento.
Ho incontrato uomini delicati e pieni di amore.
Ma lo ripeto come Francesca, ogni donna ha vissuto almeno una volta violenza e molestie.
Parlo di abuso con il corpo o la parole.
Un’altra categoria di uomini si dichiarano di sinistra, intellettuali e …. Purtroppo finiscono per schivare, o minimizzare la violenza o meglio cambiare il problema: la donna non è più vittime, ma diventa suscettibile di violenza.
Sono delusa della manera con la quale gli uomini
hanno commentato qui.
Marco Mantello, nessun antagonismo. Se devo dirtela tutta fuori dai denti, sono molto più inviperita e “violenta” verso le tante, tantissime, donne conniventi di un modello patriarcale e ancora di più verso quelle che pretendono di parlare di “femminicidio” come di un fenomeno astorico, svincolato, per esempio, dal quadro terribile della situazione attuale – economica, culturale, sociale (dal precariato in giù). Non è un noi o un voi. Ancora sul personale – ci sono altre violenze (vedi bambini e il conflitto menzionato da Andrea), che mi coinvolgono molto di più. Tornando in tema: non presumo affatto che tu o altri non si siano posti questa domanda. Il mio augurio è, anzi, che ve la siate posti e che siate qui per questo. E quindi: è da lì che si parte. Per sentirsi tutti responsabili, sempre e comunque, bisogna guardare le cose e chiamarle con il loro nome. E come dice Skywalker, vedere quanto sono labili i confini del nostro cortile… Sulla violenza in sé – hai voglia se ci sono donne violente! – la natura è violenta, non è caruccia, simpatica e fiorita. E via, via, allargando il discorso. Ma così non si risolve il problema.
“che ve la siate posta”, I mean.
Il femminicidio non c’entra con la situazione sociale o economica.
Renata lo penso come te.
Non mi importa di essere sola a condividere l’iniziativa.
Quasi isolata lo sono qui.
Francesca,
Il tuo ultimo commento è un po’scarso.
Veronique, invece – eccome se c’entra. Se vuoi risolvere un problema non puoi mai considerarlo astoricamente. Altrimenti si va davvero nell’astratto. Io la questione me la sono posta, eccome, mi sono arrabbiata, mi sono sentita offesa più volte. Che una certa visione della donna sia sedimentata culturalmente da un sacco di tempo (non è che le violenze sono esplose d’improvviso negli ultimi cinque anni…), non è certo in discussione (almeno per me). Sono perfettamente d’accordo con il riconoscere la pressione e la distorsione mediatica sulla questione femminicidio. Lo sono proprio perché le vedo calate in una realtà, in un momento storico preoccupante da molti punti di vista.
Leggendo il post e i commenti penso che un problema sia rimasto lievemente in ombra. La natura della violenza sulle donne ha in primo luogo una sinistra radice biologica, in un comportamento autodistruttivo proprio di tutte le specie sociali quando si trovano in uno stato di restringimento dello spazio vitale e delle risorse. La vecchia storia delle colonie di topolini da laboratorio portate a un artificiale stato di abbondanza e di sviluppo demografico, e poi lasciate deliberatamente in una condizione di scarsità. Il primo risultato è una crescita esponenziale della violenza generalizzata fra individui, violenza che si estrinseca in comportamenti molteplici, che vanno dalla manifestazione esplicita di aggressività all’effettiva aggressione, con esiti spesso letali. In sottordine, si assiste a un incremento progressivo delle forme più efferate di aggressione fisica nei confronti delle femmine e dei piccoli, cioè di quei soggetti che sul piano strettamente biologico rappresentano la continuità nel tempo e la possibilità di espansione di una popolazione in un territorio.
Le società umane sono vissute in uno stato cronico di scarsezza e affollamento sin dal neolitico, e in particolare sin dal tempo in cui l’agricoltura ad alta resa e l’esigenza di governare la ridistribuzione delle risorse ha dato origine alle basi dei sistemi sociali -e in sottordine delle strutture statuali -in cui l’uomo vive da un tempo sufficientemente lungo da essere contraddistinto come il suo sempre. In queste società, l’esigenza della guerra e la scarsezza fanno della violenza sulla donna e sui piccoli un connotato strutturale. Dai pueri alexandrini alla sati, dalle mogli bambine all’infanticidio programmato delle femmine, passando per la persecuzione delle streghe e le mutilazioni genitali, tutte le società preindustriali mostrano comportamenti aberranti inscrivibili nella stessa dinamica determinata da scarsezza di risorse ed eccesso di popolazione -con la guerra come occasionale valvola di sfogo, e la concomitante necessità sociale di delegare la guerra, e nel caso l’amministrazione e la somministrazione della violenza, dalle percosse alla morte, ai membri meno demograficamente nevralgici del gruppo sociale, gli uomini adulti -e in questo la differenza di forza fisica fra i due sessi c’entra relativamente. Il porsi del problema del superamento di una simile condizione è un fenomeno che si è davvero avviato a un timido consolidamento solo nell’ultimo secolo, precorrimenti a parte (per quelli si può risalire all’antico Egitto), e solo in virtù del superamento progressivo dell’endemica condizione di scarsezza. Io personalmente vedo nella crescita esponenziale della violenza sulle donne un portato della progressiva destrutturazione della base economica delle società del welfare, per come si è venuta profilando in questi ultimissimi decenni. In tale contesto, la violenza sulle donne è un particolare tipo di violenza discriminatoria contro l’alterità. Un fenomeno di tangenza fra l’esacerbazione dei processi viziosi che accrescono a qualunque titolo sperequazione sociale e sfruttamento, esprimendoli nella forma della discriminazione mirata, e una sorta di autogenocidio strisciante ma generalizzato. Ritengo inoltre che come fenomeno sia strettamente collegato alla violenza generalizzata sui minori. Sia le donne sia i minori non sono efficacemente tutelati nella loro integrità fisica, sia le donne sia i minori sono a vario titolo vittime di un riduzionismo ontologico orientato al consumo della loro fisicità -dalla pornografia alla prostituzione, fino ad arrivare ai fenomeni legati al riemergere della pulizia etnica propria delle guerre antiche, il cui scopo era la cancellazione dell’identità del nemico anche tramite il consumo delle donne e dei figli. Le donne stesse sono spesso, sotterraneamente (paternalisticamente, è il caso di dirlo) associate ai minori -anche nel linguaggio affettivo- e questa associazione non è casuale. Dal punto di vista delle ideologie paternalistiche, la connessione implicita con il minore fa della donna un sostanziale minus habens. Dal punto di vista dell’analisi, tuttavia, si rivela un efficace grimaldello interpretativo. La violenza sulle donne, così come quella sui minori, è il manifestarsi del declino di una specie che è arrivata a formalizzare come fatto ordinario il consumo di sé stessa. Ne consegue che ogni interpretazione fin qui data del concetto di femminicidio, o di molestia sessuale, o di sfruttamento del corpo femminile, è insufficiente, così come è insufficiente considerare genericamente il fenomeno come una sottodeterminazione della società capitalistica, che verrà superata una volta superata quest’ultima -faccio volutamente l’esempio di un ragionamento di tipo grossolanamente marxistico, partendo dal presupposto che gli orientamenti di matrice marxiana e i loro derivati, in quanto espressione, più di altre concezioni, di una metafisica revisionaria laica rivoluzionaria del pensiero politico, costituiscano per più di una ragione il punctum dolens dell’approccio alla questione, il fronte dove più si addensano i tradimenti. Faccio quest’esempio anche perché ritengo -e chiedo scusa per la conclusione ex abrupto- che da un approccio marxiano, sia pur con una correzione di tiro, possa ricavarsi in prima battuta l’indirizzo etico-politico per una soluzione del problema. Bisogna tornare alla vecchia, vecchissima, banale, lapalissiana idea che la violenza sulle donne (come, per altri aspetti, la violenza sui minori), sia la pietra d’angolo del sistema (neo-)liberistico basato sulla più generica riduzione della persona a oggetto primario di consumo, e agire di conseguenza. Questo ha implicazioni precise: per esempio l’inammissibilità di ogni compromesso con le visioni religiose tradizionali, in termini di definizione sociale delle donne -stabilire una volta per tutte, in modo forte e razionalmente argomentato (e non fideistico), dal lato del pensiero laico, che esistono valori assolutamente innegoziabili, e che ogni posizione ad essi contraria è oggetto di condanna come cedimento alla legittimazione della violenza. Su un piano antropologico più ampio, si porrebbe addirittura, a mio parere, la necessità di una ridefinizione del sacro -l’argomentazione razionale (non fideistica) deve trovare un corrispettivo segnico di separatezza (trascendenza) e di giustezza senza se e senza ma. Dal punto di vista delle oggettive condizioni socioeconomiche e politiche, tutto questo dovrebbe tradursi nel tentativo sistematico di forzare, con ogni mezzo e col contributo di ogni approccio teorico compatibile, una transizione evolutiva che abbia in senso inverso un effetto paragonabile a quella che proiettò la specie umana dall’egualitarismo rozzo dei cacciatori-raccoglitori e delle società gilaniche protoneolitiche al sistema patriarcale -e che sia parimenti senza ritorno. Per esempio, è necessaria una decostruzione dialettica della categoria pertinentizzante (negativa) di identità come valore oppositivo, a cui segua non la sterile desogettivazione del postmoderno (che ha solo partorito il vuoto del nullismo deresponsabilizzato e prono a tutte le finzioni sociali possibili), ma la costruzione della dimensione positiva, e propositiva, dell’identità individuale e di genere come presenza attiva e creatrice, non più subita (in malafede) come peso sociale da smaltire, ma percepita concretamente come nucleo socio-esistenziale propulsivo (abolendo nel contempo, una volta per sempre, tutti i concetti depersonalizzanti e reificanti che oggi imperano -niente più “risorse umane” e “potenziale umano”, equivalenti neoliberistici dell’andràpodon antico, schiavo come instrumentum loquens). Il problema si risolve, a livello assiologico e a livello concretamente socioeconomico, in un circolo virtuoso fra le due sfere, soltanto se si intende chiaramente che la questione della violenza di genere, al di là del termine linguisticamente teterrimo, inefficace, mediaticamente usurato (e perciò subdolamente tranquillizzante per il suo connotato di tipologizzazione dell’ordinario) di “femminicidio”, si pone come il centro di irradiazione di una ridefinizione e di un ripensamento a largo raggio della condizione antropologica della persona nella sua dimensione relazionale, sociale, economica, giuridica, politica. Se la lezione più profonda di un certo orientamento del pensiero contemporaneo ha visto nell’altro il cardine ontologico e assiologico fondante, si dovrà postulare in via definitiva che l’altro, che è in primo luogo altro come individuo e come prossimo, è in seconda istanza e prima di ogni ulteriore considerazione, altro di genere. E sull’alterità di genere si dovrà quadrare a ogni costo il cerchio dei valori e il senso dell’agire sociale concreto, al fine di superare la sinistra catena biologica che costringe ogni società in crisi a considerare sé stessa come un conglomerato di tessuti in cancrena e a realizzare e legittimare a vario titolo, nella violenza di genere, la propria stessa apoptosi.
“La violenza sulle donne, così come quella sui minori, è il manifestarsi del declino di una specie che è arrivata a formalizzare come fatto ordinario il consumo di sé stessa.” – grazie Daniele: non credo che questa sia l’unica causa della violenza sulle donne, ma credo che, almeno in questo posto del mondo, si intrecci in modo terribile con il cupio dissolvi del nichilismo e individualismo del liberismo consumista.
@ Morresi e tutti. Ho riletto il suo post di presentazione della tavola rotonda, da cui tutto è nato. Ho rivisto in quale contesto era la frase che non mi era piaciuta. Si parlava di stupri correttivi.
Le chiedo scusa, non era il caso di aprire un contenzioso sui Gender studies.
Saluti
brrrr
donne, oggetti, auto usate – dicevamo:
http://www.thedignifieddevil.com/the-sexist-ad-of-the-week-44
daniele ventre non dica assurdità. Con la “vecchia storia delle colonie di topolini”, su cui poggia peraltro tutto il suo argomento, si può arrivare perfino a dire che la natura del suo intervento qui ha una “sinistra radice biologica”. Ci aiuta? Non mi pare.
E poi, perbacco, tutta l’intelligenza e le cose che sa si meriterebbero un abito scientifico un po’ più educato.
Vabbe’ sintetizzo:
in quest’epoca sembra che si sia regrediti a colonie di cavie da laboratorio. Sarebbe più umano se si cominciasse a pensare all’altro, e soprattutto all’alterità di genere, come a una ricchezza e non come a un peso o all’autorizzazione alla violenza e al consumo della persona. E’ l’unica alternativa alla china che abbiamo preso, e che scivola verso un’estinzione da topi in trappola.
Così è più educato, no?
E’ difficile non condividere…
(Ah, e una metafora è sempre più educata…)
Già, ma l’80% dei contenuti del commento maleducato sono andati a farsi friggere, con buona pace del problema.
aldilà (ma è più giusto dire al di sopra) delle associazioni che da anni, quando non decenni, lottano in maniera più o meno condivisibile contro un certo innegabile indirizzo patriarcale e autoritario (per me il patriarcale è un sottinsieme dell’autoritario, vedi alla voce Tatcher, Merkel e affini) della nostra società, tra le quali immagino siano da annoverare quelle che organizzano l’incontro da cui scaturisce questa discussione, io vedo che si sta costituendo una solida aristocrazia di genere che utilizza il proprio essere donna come un maglio e come una scorciatoia verso l’affermazione carrieristica. tra queste vi sono molte delle persone più impegnate a cavalcare la campagna mediatica sul femminicidio, donne che non esito a definire spregevoli, e non certo in quanto donne, ma in quanto carrieriste ed avvoltoi che si pasciono dei drammi altrui.
si arriva al grottesco della terza carica dello stato che, insultata personalmente con nome e cognome per lo svolgimento del suo ruolo politico e istituzionale, si fa scudo della categoria di “donna”, sequestrando anche le tante, tantissime donne che condividono (magari anche a torto, non è qui il punto) quegli insulti contro la sua persona.
ecco, gran parte della cagnara (perchè chi ne parlava prima continua a parlarne, mentre chi prima se ne fregava ora ne urla, e le urla cancellano i discorsi) sul femminicidio non ha nulla a che vedere con la lotta per creare un clima culturale meno sessista e meno incline alla violenza di genere e invece ha molto a che vedere con la creazione di una massa fittizia, quella delle “donne”, che funga da legittimazione alla scalata al vertice di una certa autoproclamatasi élite di genere (quando non svolge, in maniera più terra terra, la semplice funzione di elemento dell’enternaiment che è tipica della cronaca, ma qui ci spostiama dall’insieme “rai3” a quello “canale5”).
ancora più grottesco è il passaggio parlamentare, in cui la lotta al femminicidio diventa la classica mutanda per far passare in sordina un pacchetto di misure securitarie e repressive che nel mucchio pigliano pure immigrati e No TAV.
il punto, per quel che mi riguarda, è che QUALSIASI CAMPAGNA DI STAMPA CHE VEDA COINVOLTI I MASS MEDIA DI REGIME NON PUO’ CHE ESSERE UN DIVERSIVO (un tempo si diceva: “non usare i media, diventa media”, ma era tanto tempo fa). il discorso sul femminicidio è un discorso politicamente inerte, checchè ne facciano i gruppi femministi più impegnati e lucidi (i quali peraltro, giustamente, portano avanti il loro discorso senza cedere alla logica dell’emergenza, sono altri che si accorgono di loro solo adesso), non hanno in mano loro la direzione della campagna mediatica.
è come se si facesse una campagna contro la morte: chi si può dire a favore della morte? non è concessa la possibilità di argomentare, di mettersi di lato o di punta, non c’è lo spazio (lo abbiamo visto anche in questa discussione), l’onda emotiva della sopraffazione del debole da parte del forte travolge ogni discernimento, ovvero ogni tentativo di affrontare seriamente il problema. un problema che è complesso, che affonda le radici in un sostrato culturale e nella crisi di quel sostrato stesso, ma che si esplica in una miriade di casi singolari ognuno diverso dall’altro, impossibili da giudicare a priori.
un’altra cosa: l’80% delle donne ha subito molestie sessuali nella sua vita, è assai plausibile, ma anche questo dato in sè e per sè vuol dire poco o nulla (alidlà delle grida scomposte e degli slogan), perchè la percezione di ciò che è molestia e ciò che non lo è varia secondo la situazione e la persona, perchè molti casi di molestia nascono da situazioni di disagio mentale (ove la mappa dei rapporti di forza non è necessariamente in favore del molestatore, vedi vecchio pazzo del parco che piglia manate da ragazzini e ragazzine delle superiori, come mi è capitato di vedere a me), altri da un effettivo caos dei codici comportamentali relativi all’approcio verso l’altro (o perchè no, lo stesso) sesso, altri ancora da una cultura del possesso dura a morire, non esiste un unico insieme delle molestie che sia effettivamente calcolabile in statistica.
la cosa più ridicola di tutto ciò è che poi la gran parte degli sforzi si risolve in censure di tipo linguistico e comportamentale fondate sulla asepsi dei rapporti umani, che trovano spazio giusto nelle sfere medio alte della società, senza mai arrivare a meno di 500 metri da quei quartieri popolari in cui qualsiasi livello di violenza è più alto, e quindi anche quello che riguarda il rapporto tra i diversi generi. col risultato che, da un lato si produce una società di frustrati sovrasocializzati sempre più atomizzati e in difficoltà nel rapporto con l’altro sesso (classico identikit del femminicida, secondo alcuni, peraltro, ma sono i soliti alcuni che fanno sociologia d’accatto sui giornali), dall’altro non si incide minimamente sulle cause che rendono la violenza di genere affare corrente in certi settori della società (e va bene che c’è del marcio anche nelle famiglie bene, ma il rapporto proporzionale fra violenza e disagio non è una retorica).
aggiungo ancora: grazie a Lo Vetere che mi ha evidenziato finalmente con precisione qual è la nota che mi stonava costantemente nella produzione dei cultural studies e affini, la sentivo, mi dava un fastidio cane, ma riuscivo solo a beccare elementi sovrastrutturali (studi spesso fatti male, rapporti logici improbabili, circolarità chiusa delle citazioni), mi mancava questo nocciolo ideologico della ricerca assurda di una neutralità. aggiungo che, essendo inesistente la neutralità, la distruzione di ogni definizione e attributo sociale dato non ha prodotto effettiva liberazione come pensavano i nostri, ma ha semplicemente espunto da noi qualsiasi caratteristica dettata da legami sociali alternativi a quelli imposti dalla verticalità statale, lasciando intatto praticamente solo il cittadino, quell’insieme di caratteristiche definitorie che risiedono in un codice fiscale e un’iscrizione all’anagrafe e fanno di noi i soggetti alle leggi dello stato attraverso la repressione poliziesca. un cittadino atomizzato, privo di ulteriori caratteristiche, se non quelle vaghe ed astratte di “persona” ed “essere umano”. se questa sia una liberazione, lascio agli altri giudicare (in primis Renata Morresi).
infine mi si conceda una piccola notazione linguistica molto in stile cultural sudies: la parola slogan deriva dallo scozzese slaugh hairm, che significa letteralmente “grido di battaglia”. io diffiderei di campagne contro la violenza di genere portate avanti attraverso un mezzo così intriso di violenza da portarla incisa nella sua etimologia quale è lo slogan, che in un dizionario dei sinonimi e dei contrari meriterebbe di stare all’opposto della parola discorso.
insomma, spostate i cannoni dai “maschi” e mirate al comando d’armata, indipendentemente dal genere dei comandanti. so che molte non hanno bisogno di questo consiglio, ma a leggere questa discussione mi pare fosse d’obbligo rimarcarlo.
tanti saluti.
Detrito, mi perdoni, ma le sembra un mass-media di regime questo?
Inoltre: ci sono rappresentanti politici che vogliono raggiungere il potere rappresentando le istanze degli allevatori emiliani / dei vongolari dell’Adriatico / degli imprenditori nordestini / delle donne potenzialmente vittime di marginalità o persecuzione, ecc. Qual è il problema? Pensa che vi siano casi di falsa coscienza? Donne che non credono veramente ai diritti delle donne ma fingono di credervi per avere consensi, un po’ come Berlusconi al family day? Può essere, ma il fatto che molti pregiudicati e spregiudicati siedano in Parlamento non ci impedisce di andare a votare (per ora). Così, se esiste qualche donna stronza non vedo perché dovremmo smettere di parlare di come lottare contro la violenza di genere e il femminicidio. Dentro ma soprattutto fuori delle istituzioni canoniche (per esempio qui).
Lei forse sarà convinto che parlare di questi temi sia un diversivo per distrarci dalla VERA lotta contro il regime (del capitalismo liberista, suppongo, io direi “del capitalismo liberista patriarcale suprematista”). Questo mi dice che: 1) molto probabilmente lei è un maschio; 2) molto probabilmente è un maschio assai pessimista, se arriva a sostenere che lottare contro la violenza di genere è un po’ come lottare contro la inevitabile, ineluttabile morte stessa. Mi permetta di dissentire. C’era un tempo (non tanto tempo fa) in cui persino la schiavitù era considerata inevitabile e ineluttabile, figuriamoci.
Sulla percezione: qui mi pare che le sue argomentazioni siano molto deboli, siano anzi l’epitome del problema stesso, un problema, appunto, di percezione della violenza. Se io la incontro per strada e le tiro i capelli, le sputo in faccia, la spintono, le do una sberla, lei cosa fa? Come minimo chiama i Carabinieri. Se un uomo fa lo stesso con la compagna, beh, son cose che succedono, vallo a sapere, meglio non immischiarsi, ecc. La percezione delle cose è cambiata e deve cambiare. Così come oggi non accetteremmo mai che un maestro prenda a legnate sulle mani un bambino di sei anni o lo chiuda nello sgabuzzino, non dobbiamo più accettare che la brutalità domini i rapporti tra i generi. Concordo con lei sul fatto che non vi siano strade facili o soluzioni univoche alla questione, per questo siamo qui a parlarne, credo.
Infine: dire che i Cultural Studies riguardano la ricerca della neutralità è completamente erroneo, non capisco neanche da cosa possa venire questo malinteso, visto che si tratta esattamente dl contrario: capire come non vi sia nulla di neutro.
paragrafo per paragrafo:
1) ma no, ma no, sebbene qualche detrito del mainstream piova anche qua. mi pareva abbastanza chiara l’apertura di credito nei confronti di chi organizza questo convegno. il bersaglio era altrove, o forse no, eh, dipende da come ci si pone nei confronti delle vedettes del no al femminicidio.
2) se il nemico marcia alla mia testa io mi sfilo. se la rappresentazione del femminicidio è un discorso diversivo fondato sull’unanimismo necessario e l’obbligo ad annuire io mi sfilo. non c’è dialettica, nel dibattito mainstream, non c’è possibilità di cambiamento reale, solo di affermazione di voci, e io mi sfilo, a costo di passare per infame. se poi lei accetta che qualche donna si metta a parlare a nome delle “donne”, e quindi anche a nome suo, per propri scopi di posizionamento gerarchico, buon pro le faccia.
3)lei non mi legge, io non dico una baggianata del genere. dico che, così come è strutturato, questo dibattito non consente di affrontare il problema decentemente, ovvero in maniera da risolverlo. dal che se ne desume che io lo ritenga risolvibile, sebbene sia una questione complessa. ovviamente ritengo che alleviare la miseria morale e materiale nella società sia fondamentale al fine di limitare il femminicidio, mi pare una cosa piuttosto ovvia. trovo anche che una legislazione emergenziale apposita sia invece inutile e senza senso, esiste già il reato di omicidio, e non capisco perchè uccidere un uomo debba essere considerato diverso o addirittura meno grave che uccidere una donna.
3b) sono un maschio? ne accetto la funzione solo in quanto è quella svantaggiata nel dibattito, in maniera cavalleresca.
è ridicolo questo rifugiarsi nel “sei un maschio!”, inteso come “tu non puoi capire” e quindi come “non hai diritto a esprimerti!”; è esattamente così che funzionano i dibattiti unanimisti e privi di dialettica, ergo, di cambiamento possibile, spostando il problema dalla funzione referenziale a quella emotiva del linguaggio.
e allora chiariamo una cosa: qui c’è solo e soltanto ciò che vede scritto, e questa scrittura non è nè maschio nè femmina, non possiede caratteristiche biologiche dettate da funzioni inerenti una riproduzione sessuata.
3c)lei proprio legge superficialmente: quando paragono il no al femminicidio a un no alla morte non lo faccio per dire che è una battaglia non vincibile, ma che è una istanza posta in maniera coattiva in modo che nessuno possa sottrarvisi, e lo scrivo chiaramente: chi può dirsi astrattamente a favore della morte? chi può dirsi a favore del femminicidio? non c’è dialettica, non c’è tesi, antitesi e sintesi, non c’è cambiamento, anche il femminicida di domani oggi è contro il femminicidio, e anche quello di ieri, nella maggior parte dei casi.
4) no, lei, ancora, mi fraintende. il discorso sulla percezione riguarda le molestie, non il femminicidio, e nemmeno le violenze. E’ una risposta polemica a Skywalker: trovo sia molto scorretto correlare le cattive abitudini del maschio medio italiano con una presunta attitudine al femminicidio. è un passaggio logico identico a quello dei proibizionisti sul passaggio necessario dalla cannabis all’eroina.
mi riferisco a quella brutta cosa, per gli sloganismi, che sono le zone grigie del rapporto tra i sessi: il vecchietto pazzo che mostra il membro alle ragazzine che facciamo, lo chiudiamo in manicomio? il ragazzino che fischia la ragazza per strada, quello che va in discoteca e si struscia sul culo della sconosciuta, che sembra ossessionato dal terrore di apparire “frocio”, queste cose quotidiane che appartengono a un mondo in cui la liberazione sessuale è diventata il principale motivo di ansia adolescenziale (indipentendemente dai generi, peraltro), come le consideriamo? colpevolizzando il maschio cattivo e basta? chiedendo scusa come Inglese, che chissà mai cosa avrà fatto da vergognarsi tanto? lei ha mai visto due ragazze picchiarsi per un ragazzo? e cricche di ragazzine umiliare quei ragazzini in odore di “frocità”? ce la prendiamo con le donne che si sottomettono alla “cultura patriarcale”? e alla fine cosa resta? l’ego critico, of course. ma la vita di quelle persone che ne ottiene? niente. perchè non è con un indice puntato addosso che cambi la mentalità dell’interlocutore, l’indice serve solo a chi lo punta, per sentirsi meglio.
e poi, lei quante situazioni di violenza di genere ha conosciuto, in vita sua? crede che basti essere donna per capire ciò che ha subito un’altra donna? le pare un criterio scientifico? mi scusi, ma allora Marie Curie come faceva a parlare di radioattività? mica era una particella radioattiva.
5) i cultural studies in genere si scrivono come lei ha letto ciò che ho scritto: male.
si piccano di decostruire e demistificare le ideologie fallocentriche ed eurocentriche ed etnocentriche ed antropocentriche ecc. ecc. ma alla fine non hanno fanno che istituire una miriade di ideologie egocentriche (per i palati fini ciò si chiama location).
e in questa istituzione dell’egocentrismo epistemoliogico attraverso la location abbiamo lo scivolamento inesorabile di ogni discussione dalla funzione referenziale a quella emotiva. e così la risposta a quel che dico s’incentra prioritariamente su quel che la mia interlocutrice pensa io sia, un maschio, con tutti i significati (ideologici, magari?) che la mia interlocutrice attribuisce a questa parola.
il fatto che nulla sia neutro è, d’altronde, una falsità bella e buona (oltre a essere in sè un detto non neutro atto proprio a legittimare forme di vera e propria partigianeria epistemologica), come ogni storiografo sa.
non è neutra la narrazione degli eventi, ma l’evento in sè, una volta stabilito con sufficiente grado di certezza, è neutro: dire che Giulio Cesare fu ucciso sarà pur diverso da dire che Giulio Cesare fu giustiziato, sta di fatto che Giulio Cesare morì ammazzato, e questo è stabilito in maniera univoca dalle fonti.
è un pò come quando si dice che c’è un’emergenza femminicidi dando per scontato che sia in corso un’esplosione del fenomeno, come qualcuno scrive anche qui sopra, ma ciò è una mistificazione, le fonti statistiche disponibili riferite agli omicidi (e non ai casi riportati dalla stampa, che dimostrano soltanto il suo grado di interesse) dicono il contrario:
http://data.euro.who.int/hfadb/linecharts/linechart.php?w=1366&h=768
e sia chiaro, ciò non equivale a dire che va tutto bene, ma equivale a dire che impostare il dibattito su un clima emergenziale quando non siamo di fronte a nessuna emergenza è il modo migliore per avere una risposta emergenziale: ovvero superficiale, affrettata, inefficace, caciarona, manipolabile per altri scopi.
non siamo di fronte a nessuna emergenza, infatti, è proprio quel che si discuteva alla tavola rotonda di cui dice il post, il cui titolo infatti denuncia le tre parole chiave usate come banderuole dai media per sensazionalizzare quella che non è una emergenza, ma una cultura della violenza ben radicata
esercitata anche dalle donne, ci mancherebbe, tra le quali si annoverano moltissime portatrici ‘sane’ di patriarcato e omofobia
lei continua a dire che io non la leggo “bene”, o che non la autorizzo a parlare in quanto maschio “che non può capire” (se non l’autorizzassi l’avrei bannata, no?) – no, io la leggo benissimo: ma come, fa tanti distinguo ma poi non capisce perché è più grave far del male ad una persona (di qualsiasi genere) che è in uno stato di soggezione fisica o psicologica? dice che è infastidito dal “neutro” e poi inizia con la vetusta solfa della scrittura che non è né maschio né femmina? come se chi parlasse fosse eviscerato da sé, come se non parlasse da una posizione.
certo, è “scontato”, addirittura “banale”, o persino “inutile”, essere contro la violenza su chicchessia come mera adesione formale a formule qualunquiste, sposando vuotamente sedicenti cause pacifiste, firmando petizioni on-line, ecc. – ma non sia riduttivo, su: partecipare a un dibattito sui discorsi e le rappresentazioni non lo è affatto, così precisiamo i fondamenti e le priorità della *nostra resistenza. nessuno vuole farsi rappresentare da dei vacui arrampicatori, ca va sans dire, ma da persone che rappresentano istanze comuni, sì. da dove partire perché una forma di “cambiamento reale” sia possibile, dunque?
“ovviamente ritengo che alleviare la miseria morale e materiale nella società sia fondamentale” – e fin qui siamo d’accordo, ma da come scrive ho l’impressione che lei sia molto preoccupato per certe “zone grigie” che non le sembrano affatto sinonimo di violenza o premessa alla violenza, le paiono piuttosto, più antropologicamente, indice di umani, quasi istintuali, attriti, di fisiologiche deviazioni, di ataviche contese territoriali, ecc. questo mi sembra un passaggio molto, molto importante.
anche da quanto scriveva Mantello sopra mi sembra di capire che spesso vi sia il timore del fraintendimento: prendere i bruschi corteggiamenti giovanili per violenza, la battutina sulle tette o sul pacco per violenza. vedo qui la nostra divergenza: lei include nelle ruvide schermaglie amorose della specie umana gesti, da lei definiti “cose quotidiane”, ovvero “normali”, che non dovrebbero starci: perché devo accettare il vecchio che mi mostra il cazzo quando vado a correre? perché dobbiamo accettare la presa per il culo “quotidiana” del ragazzino effemminato? in questa area di ostilità diffusa lei non vede complicità con i violenti “veri”, quelli che poi ammazzano e sfregiano con l’acido veramente: certo, c’è una grande differenza EPPURE, è questa differenza che diventa brodo di coltura per ben altri, estremi, soprusi.
per riprendere più seriamente la battuta che ho fatto sopra a Mantello, è come per la mafia: non si tratta di atti criminosi sparsi qua e là, ma di una accoglienza sociale diffusa nei confronti delle sue logiche.
la discussione è fredda, e non è il caso di tirarla troppo lunga, per obiettare a molte cose dovrei ripetermi (è uno dei motivi per cui le dico che legge male).
mi limito a farle notare quanto la sua retorica sui “brodi di coltura” e i paragoni alla mafia riprenda pedissequamente quella delle élites italiane (e non) intese a costruire il consenso intorno a provvedimenti repressivi e limitativi delle libertà personali, a intervenire nei confronti di ogni minima “devianza” dall’alto di un necessario controllo panottico della società. Poichè pretendere che il legislatore fondi la sua attività sui fatti di cronaca è pretendere che la legge governi non la norma, bensì l’eccezione, il che deve essere ovviamente fatto mediante metodi eccezionali, il che non può che condurre alla deformazione del concetto stesso di “stato di diritto” (per quello che vale questo concetto, ma chi ci crede dovrebbe preoccuparsi non poco).
Stia attenta agli obiettivi che si pone, poichè richiederanno strumenti conseguenti.
Il vostro punto di vista, la vostra location, in questa battaglia, lungi da essere un impossibile punto di vista “di genere” (impossibile perchè una comunità di genere è troppo vasta e variegata per poter esistere davvero e non sfaldarsi in decine di suddivisioni dettate da classe, appartenenza etnico-religiosa-culturale, eccetera), si pone come punto di vista di classe medio-alta e di élite culturale.
E’ uno sguardo calato dall’alto sulla società in cui la parola presa in quanto “donne” ha come primo imperativo quello di togliere la parola a qualsiasi donna non sia allineata al vostro pensiero. Essa sarà “portatrice sana di patriarcato e omofobia”, il che è un modo come un altro per considerarla incapace di intendere e volere; essa non può essere soggetto di opinioni e modi di vivere, ma è considerata, da voi, per definizione, oggetto (con paradossali accenti misogini, peraltro, come quando lei sostiene che la donna è astrattamente più vittima dell’uomo in quanto debole e soggetta per definizione).
E’ per questo che la vostra comunicazione è destinata a circolare attraverso i canali degli apparati coercitivi e repressivi di una società classista, con tutto ciò che ne consegue in termini di obiettivi e strumenti, perchè parte da presupposti che sono essi stessi classisti e autoritari.
Non è un cambiare insieme e tra pari, ma un cambiare contro e dall’alto.
peraltro, dai database della World Health Organization si evince che in Italia la proporzione di uomini uccisi rispetto alle donne è di 3:1 (ma essendo uomini sono meno vittime delle donne; secondo la sua triste logica da clan applicata ai generi, “se lo saranno meritato”), nonchè il fatto che in Italia, in rapporto alla popolazione, si ammazza meno donne che in paesi tradizionalmente ritenuti più rispettosi dei diritti delle donne come la Svezia, la Francia o la Germania e si rimane abbondantemente sotto la media dei paesi Ue, e questo è un fatto che meriterebbe qualche studio sociologico degno di questo nome, perchè sospetto che certi vecchi luoghi comuni razzisti sulle caratteristiche del maschio latino abbiano un loro ruolo, in questa attuale campagna di stampa (e a maggior ragione segnalo che secondo l’Istat i 2/3 dei femminicidi avvengono nel Nord).
E io lo dicevo che la cultura oltre a rendere sterili rende anche docili…ci si ubriaca a parole sostituendole ai fatti.
Brutalmente devo dire che, fin quando tutte le generazioni precedenti la mia non passeranno a miglior vita (dato biologico? A questo punto è più importante il dato anagrafico) non avremo cambiamenti sostanziali di vedute. Io aspetto.
buongiorno, è lunedì, bando ai bollenti spiriti e torniamo a documentarci e a studiare:
– qui la storia raccontata “dall’inizio” da Luisa Betti:
http://blog.ilmanifesto.it/antiviolenza/2013/06/21/femminicidio-in-carta-narrazione-della-violenza-sui-media/
“Si parla continuamente del bisogno di un cambiamento di cultura rispetto alla violenza contro le donne, ma cosa significa cambiare la cultura? Significa prima di tutto cambiare la percezione della violenza, e uno dei nodi fondamentali è l’informazione che, a differenza di fiction o della pubblicità, si pone come “oggettiva” e per questo influenza in maniera diretta la percezione del problema che viene posto”
– il primo documento della rete Giulia, dove si usava “femicidio” e si guardava alle le rappresentazioni più – ahimè – tipiche:
http://giulia.globalist.it/Detail_News_Display?ID=5288
“se la vittima, dell’omicidio o dello stupro, è di bell’aspetto ci sarà la sua foto, ma se la vittima è un’anziana o una donna non particolarmente avvenente, ci sarà l’immagine del luogo del delitto o la foto di polizia o carabinieri, che rimette ordine come se fosse un semplice fatto di cronaca isolato e non un fenomeno sociale grave. Se poi la vittima, dell’omicidio o dello stupro, è una minorenne di bell’aspetto, saranno pubblicate foto preferibilmente ammiccanti con didascalie penose come nel caso di Sarah Scazzi ‘la bella biondina pugliese’.”
Appunto: consumo necrofagico mediato dai media.
Umani
Il deliziosamente
eclatante scandire dei secoli
nel flusso delle pulsioni
e la serenità dopo
sporadiche urgenze minzionali.
Uretra corta per le femmine
e lunga per i maschi.
È stato un post divertente. Notevole Detrito; ma come non stimare Mantello e Lo Vetere?
Non sono intervenuto per non subire l’ennesimo mobbing maschicida da parte del lato marziale della femmina, che tra l’altro amo, ma da altro amo.
Il problema non è cosa significa pensare, ma cosa significa essere.
Ho anche imparato che esiste una sinistra biologica. Grazie.
uh, che sciccheria, gentile Elogio, essere rimasto in disparte a guardare i maschietti e le femminucce che si accapigliavano e addirittura arrivare tutto solo nientemeno che al problema dell’essere
grazie a lei e mi raccomando, continui a non partecipare
Andrea Inglese scrive questo commento che mi era sfuggito (ma rispondo anche a Renata Morresi). Il commento di Andrea era:
“da nessuna parte nel comunicato postato da Renata mi sembra si dica una cosa così imbecille: ossia che basta essere uomini per andare ad ammazzare o a violentare una donna; quello che si dice è questo: 1)femminicidio sono uomini che uccidono le donne in quanto donne (non perché ne hanno investita per sbaglio una per strada); 2)questo fenomeno (il femminicidio) è un problema enorme, urgente e merita la massima mobilitazione delle persone, uomini e donne, a tutti i livelli, da quello quotidiano a quello istituzionale”.
Ok io il fenomeno sub 2 preferisco chiamarlo violenza sulle donne.
Quanto al punto 1, esso soffre a mio avviso di genericità, e si presta a obiezioni facili e altrettanto elusive del problema ‘culturale’ che è alla base di certi atti di violenza su donne, obiezioni del tipo ‘no in realtà chi è in preda un raptus di gelosia perchè è stato che ne so tradito da lei e l’ammazza, non ce l’ha con il genere astratto donna, ma con quella specifica persona di sesso femminile con cui aveva la sua morbosa relazione affettiva’.
In realtà quella che va combattuta è anche una visione culturale della donna, che spesso è alla base degli atti di violenza su singole donne da parte di singoli uomini, e collegata a immagini della donna come oggetto di consumo sessuale, proprietà privata, moglie fedele, etc… immagini aracaiche, benissimo su questo credo che siamo tutti d’accordo e il dibattito ha contribuito a chiarici le idee a vicenda (a vicenda, Morresi, è d’accordo? O lei aveva già tutto chiaro in testa?).
Ora però al pari delle prospettive chimiamole così ‘speciste’ sul genere ‘uomo’ connesso a ‘violenza’, a mio avviso evocate dall’uso acritico di parole come violenza di genere e femminicidio e su cui ho insistito tanto, succede anche che quando ragioniamo nella diversa prospettiva di una violenza sulle donne collegata a una formazione ‘culturale’, a un ambiente di origine, a un linguaggio dei mass media, a un sistema economico e di consumo, e via dicendo, c’è sempre il rischio di collegare atti di violenza su donne a identità collettive (in quel caso, ‘culturali’) in cui vengono inglobati i singoli individui.
Qui anche alcune risposte, anzi battute di Renata Morresi che ho letto nei commenti successivi a quello di Andrea entrano in gioco. Rispetto a quelle battute, lascio perdere il fatto che mi si continua a ripetere che ignorerei l’esistenza del femomeno della violenza sulle donne perpetrata da uomini e che di mio non rifletterei su questi temi perchè sono un uomo, nonchè l’infelice richiamo al fatto che dai miei ragionamenti si inferirebbe allora l’inesistenza della ‘mafia’, richaimo che sembra sottendere che vi sia una criminlaità orgnaizzata maschile che pratica scientemente lo stupro per raptus
Continuando con i paradossi, credo che nessuno di noi, persone di sinistra, si sognerebbe mai di coniare un termine specifico ad hoc per rimarcare che esiste il fenomeno della criminalità collegato all’immigrazione e perchè tutti credo odiamo l’espressione ‘clandestino’, perchè questo nel migliore (si fa per dire) dei casi, crea il ‘sospetto’, la ‘selezione avversa’ del non ‘cattivo’ e del non ‘potenziale criminale’.
Sull’omosessualità, Morresi: va benissimo ritenere che alcune forme di violenza correlata all’omosessualità siano collegate a matrici culturali identiche a quelle che sono alla base di alcuni atti di violenza sulle donne (anche se non è esaustivo, anche se non esistono solo le lesbiche, così dovremmo cominciare a parlare anche di gaycidio, di lesbicidio, secondo lei, di frotne a atti di violenza su gay o lesbich ein quanto gay o lebiche? Io preferirei discutere delle specifiche violenza su persone omosessuali, evitando anche qui il ‘genere’ come categoria ordinante)
Ritorno alla magagna iniziale su femminicidio e violenza di genere. La mia opinione è che in ogni caso in cui si attribuisce un dato valore a un fatto riscontrabile nella realtà (la violenza su donne non assimilabil eall’omocidio casuale di una persona di sesso femminile durante una rapina in banca), e questo valore si collega alla costruzione di ‘vittime’ e di ‘potenziali carnefici’, non bisogna mai dimenticare che nel vivere quotidiano, una persona inglobata in una certa categoria di potenziali carnefici (e qui va compresa la parola ‘genere’ associata a violenza, e l’espressione ‘femminicidio’, anche qualora sa associata a ‘cultura’) deve dimostrare di non corrispondere ai tratti ascritti in astratto alla categoria in questione (costruita magari anche in termini di ‘apparteneza culutrale’, di crescita in un determinato ‘contesto ambientale’, di emarginazione, come possibili cause di una ‘devianza presunta salvo prova contraria’.
Anche nelle più sacrosante lotte, bisogna da un alto confrontarsi criticamente con il modo in cui le elites utilizzano certe parole per fini strumentali a esigenze di carriera o a mero massimalismo di genere, dall’altro stare attenti a non creare nuovi fenomeni di emarginazione e razzismo attraverso il proprio senso della giustizia, la propria sesnbilità al problema della violenza sulle donne, si attravero le proprie parti migliori… Spero di essere stato più chiaro, adesso. Un saluto.
Mi scusi, detrito, lei scrive:
“peraltro, dai database della World Health Organization si evince che in Italia la proporzione di uomini uccisi rispetto alle donne è di 3:1 (ma essendo uomini sono meno vittime delle donne; secondo la sua triste logica da clan applicata ai generi, ‘se lo saranno meritato’)”
Le sembra che sia pertinente? Non si tratta di contare le morti ma di ragionare attorno alla consonanza culturale del movente. E questo è di certo un detrito del discorso.
non sono io a teorizzare una differenza di valore tra vittime di omicidio sulla base del genere. è un dato che mi serve semplicemente a dire all’interlocutrice di non atteggiarsi a vittima sulla semplice comune appartenenza di genere con delle vere vittime, giacchè di generi ce n’è due e quello più “pericoloso” statisticamente è l’altro. insomma, le vittime non sono stendardi da brandire per i propri comodi, e mi fa senso vedere con quanta nonchalance lo si faccia.
riguardo alla consonanza culturale del movente sarebbe da fare una rassegna approfondita dei casi, non caciara mediatica improntata a retoriche vittimiste.
non sono sicuro del fatto che il femminicida sia necessariamente un patriarca maschilista dominante che considera la donna oggetto di sua proprietà.
la realtà ha il brutto vizio di non conformarsi alle narrazioni ideologiche, e questo è quanto. questa discussione è totalmente viziata dagli obiettivi di chi l’ha impostata, e ciò mi fa francamente bruciare le budella.
Detrito, mi scrive:
“non sono io a teorizzare una differenza di valore tra vittime di omicidio sulla base del genere”
intendendo forse che qualche d’uno qui abbia teorizzato
“una differenza di valore tra vittime di omicidio sulla base del genere”
il che è senza dubbio falso (a prescindere dal senso in cui intende il “valore tra vittime”[?]): infatti la donna uccisa da una tegola caduta da un tetto fatto da uomini non è considerata la vittima di un (argh) femminicidio.
E poi scrive:
Be’, se alla parola femminicida si dà il senso di “patriarca maschilista dominante che considera la donna oggetto di sua proprietà” viene da sé che il femminicida sia un “patriarca maschilista dominante che considera la donna oggetto di sua proprietà”.
Comunque ho l’impressione, sempre più viva e ispirata dai fatti, che femminicida e femminicidio non siano affatto le parole appropriate per parlare della violenza sulle donne: agli uomini e, anche, alle stesse donne.
[saltato un pezzo. il commento corretto è questo]
Detrito, mi scrive:
“non sono io a teorizzare una differenza di valore tra vittime di omicidio sulla base del genere”
intendendo forse che qualche d’uno qui abbia teorizzato
“una differenza di valore tra vittime di omicidio sulla base del genere”
il che è senza dubbio falso (a prescindere dal senso in cui intende il “valore tra vittime”[?]): infatti la donna uccisa da una tegola caduta da un tetto fatto da uomini non è considerata la vittima di un (argh) femminicidio.
E poi scrive:
“non sono sicuro del fatto che il femminicida sia necessariamente un patriarca maschilista dominante che considera la donna oggetto di sua proprietà.”
Be’, se alla parola femminicida si dà il senso di “patriarca maschilista dominante che considera la donna oggetto di sua proprietà” viene da sé che il femminicida sia un “patriarca maschilista dominante che considera la donna oggetto di sua proprietà”.
Comunque ho l’impressione, sempre più viva e ispirata dai fatti, che femminicida e femminicidio non siano affatto le parole appropriate per parlare della violenza sulle donne: agli uomini e, anche, alle stesse donne.
a detrito di classe: ma chi ha detto che la deriva iperlegislativa e securitaria sia l’unica via per parlare di violenza di genere e tentare una svolta culturale? non lo è affatto, anzi, è proprio per contenere la mercificazione della paura e la cavalleggeri dei reazionari che va coltivata la cultura politica del confronto, della presa di coscienza e della rete sociale, che si sta qui a parlare.
per il resto, che vuole che le dica: è evidente che vi siano donne maschiliste. nessuna intenzione di creare una gerarchia (anche perché molte di esse sono ben più in alto di me nella scala del successo e del potere), solo di riconoscere che non basta possedere una vagina per non essere sessiste, né tantomeno omofobe. come non basta avere un pene per essere dei violenti, questo l’avevamo già appurato mi pare.
le politiche dell’identità possono facilmente diventare un brand che non ha nulla di progressista. e tuttavia certe identità sono etichette abbastanza antiche e versatili da essere riattivate a piacimento: non sono “vere”, ma i loro effetti di realtà sono “veri”. occorre, io credo, tenere occhi e orecchie bene aperte.