Considerazioni calcistiche in margine ad avvenimenti storici recenti
Di Giorgio Mascitelli
Guardando una partita di calcio Italia Francia al televisore una dozzina di anni fa, un amico mi disse che bastava osservare la composizione delle due nazionali per capire come la società francese fosse aperta e cosmopolita e quella italiana chiusa e un po’ razzista. La squadra transalpina era infatti composta da giocatori di origine maghrebina, senegalese e antillana, mentre la nostra squadra presentava i soliti nomi e facce da italioti. Certo Balotelli era ancora un bambino e sui giornali progressisti ( italiani) si amava sottolineare questo aspetto melting pot dei giocatori francesi. Gli risposi, invece, che nella squadra francese vedevo il riflesso di una storia imperiale e colonialista che a casa nostra era esistita in maniera soltanto marginale. Lui forse ci rimase un po’ male, ma era chiaro che avevamo entrambi ragione, come accade talvolta quando si ha a che fare con questo ignorante mondo che non ha studiato Aristotele e non conosce il principio di non contraddizione.
Se si guardava, infatti, alla cosa da un punto di vista sincronico, era indubbio che la presenza di così tanti giocatori di origine straniera fosse una testimonianza indiretta di una maggiore integrazione; se si guardava, invece, con una prospettiva storica, era altrettanto indubbio che questa integrazione non era che un sottoprodotto positivo, e forse transitorio, di una lunga catena di violenze e sopraffazioni.
Questo episodio mi è tornato in mente in questi giorni in cui assistiamo ai preparativi dell’ennesima guerra umanitaria in Siria perché la prospettiva dei sostenitori dell’intervento militare è esclusivamente quella del presente: essi dicono che c’è un dittatore che sta usando i gas contro il proprio popolo e bisogna intervenire. Chi è contrario, invece, lo è perché adotta una prospettiva storica o meglio riesce a essere contrario solo perché adotta una prospettiva storica.
Non alludo con questo nemmeno alla memoria lunga del colonialismo, ma a quella degli ultimi quindici anni. Se il parlamento inglese ha bocciato le velleità interventiste del suo primo ministro, lo ha fatto ( anche se, immagino, non saranno mancate ragioni più tangibili) perché ha ricordato le false prove delle armi di distruzione di massa usate per invadere l’Iraq e il discredito che derivò al governo e al paese dalla scoperta di tale bugia. Viceversa, quando il segretario di stato Kerry afferma che l’intervento militare è un obbligo morale, può sostenere una tesi del genere solo rinunciando a qualsiasi forma di memoria storica.
Infatti, da quando le espressioni ‘bombe intelligenti’ e ‘guerra umanitaria’ sono diventate di uso comune, cioè dall’epoca della prima guerra nel Golfo, si può notare che gli Stati Uniti e i loro alleati di turno hanno puntualmente raggiunto gli obiettivi politici e militari delle varie guerre, rovesciando i vari dittatori, senza migliorare le condizioni umanitarie delle popolazioni e anzi in un paio di casi peggiorandole drasticamente.
Sembra che l’occidente, da quando è diventato umanitario, sappia usare solo il bastone. Sembra, cioè, che non abbia più capacità politico-diplomatiche per prevenire i conflitti e non abbia alcun interesse alla ricostruzione dei paesi, che avrebbe salvato.
Una spiegazione di questa circostanza può essere rintracciata nelle progressiva crisi delle capacità statunitense di fare egemonia ossia nel fatto che “nonostante gli Stati Uniti rimangano di gran lunga lo stato più potente al mondo, il loro rapporto con il resto del mondo può essere oggi meglio descritto come un rapporto di ‘dominio privo di egemonia’ “ (Arrighi). Quando una potenza imperiale perde le capacità di egemonia tende a sostituirle con forme di dominazione pura e semplice, con modalità aggressive che ricordano quelle di un imperialismo classico volto però a mantenere il primato. La spiegazione di questo fatto ha naturalmente a che fare con l’economia, ma quello che voglio sottolineare qui è che una simile analisi implica un ricorso alla storia e alla sua prospettiva.
Oggi nelle università statunitensi d’èlite, che costituiscono la punta di diamante della cultura e della scienza occidentali e che hanno mezzi economici superiori al bilancio per l’istruzione di interi stati nazionali, la storia come forma di sapere è alquanto discreditata. E’ troppo lontana dal modello delle scienze dure ossia fisico-matematiche, che sono le uniche in grado di fornire una conoscenza certa e spendibile sul piano pratico. Siccome ci è stato insegnato a suo tempo che i nessi tra sapere e potere sono molti e spesso sotterranei, nessuno si offenderà se sospetto che il discredito di cui gode la storia non sia dettato solo da pure ragioni epistemologiche, ma dal fastidio per l’osservazione del mondo da una prospettiva storica, perché essa è spesso fonte di dubbi imbarazzanti per chi oggi domina il mondo.
Quanto al mio amico, non so se abbia cambiato idea, perché l’arbitro fischiò l’inizio della partita e non riparlammo più della cosa. Per la cronaca vinsero i francesi due a uno.
mi chiedo, caro giorgio, se anche nel caso della situazione siriana non ci si trovi di fronte a quella situazione ambivalente che tu descrivi all’inizio, con l’esempio calcistico. Oggi a fronte della situazione siriana, mi sembra che le categorie di analisi occidentali, sia quelle marxiste sia quelle liberali, siano drammaticamente insufficienti. Dal punto di vista marxista, ci si concentra inevitabilmente sull’analisi imperialista e sulle manovre di dominio occidentale, quelle degli Stati Uniti innanzitutto. E qui la storia ci fornisce tante conferme, per dire “è la solita storia”. Nello stesso tempo, un po’ di acqua ne è passata sotto i ponti persino dell’imperialismo americano, anche nella versione aggiornata che ricorda Arrighi. E oggi gli USA non hanno tutta questa voglia di buttarsi in una nuova avventura di puro dominio senza egemonia. Quanto ai più fedeli alleati inglesi, tu stesso ne hai parlato. Inoltre, lo scacchiere siriano fa gioco a divergenti e diversi imperialismi, tra cui quello Russo. Infine c’è in atto qualcosa che per certi versi assomiglia a una guerra di liberazione da un regime fascista, o a una guerra civile spagnola, dove assieme agli anarchici buoni (le forze laiche e di sinistra) si affiancano gli stalinisti cattivi (gli islamisti radicali). Dal punto di vista di classe, poi, le cose sono ancora più mescolate e complicate dalle confessioni religiose, dai legami tribali.
Per i difensori liberali dei diritti umani, la faccendo è altrettanto spinosa. Tutta la retorica dei diritti umani, la difesa dei popoli contro i tiranni, il tribunale internazionale e i crimini di guerra e contro l’umanità, tutto questo sistema di valori e istituzioni che ha cercato di funzionare come egemonia e non come puro dominio in questi anni, si scontra con l’atteggiamento del passivo e compassionevole spettatore. Ci aggiorniamo quotidianamente sul tasso di violazione dei diritto umani raggiunto in Siria. Chi d’altra parte potrebbe appoggiare la guerra santa contro un dittatore laico? Entrambi gli attori rientrano male in un quadro di democratico rispetto dei diritti umani.
La storia, generalmente, ci insegna e ci permette di decifrare il presente molto meglio della visuale angusta e inquinata dell’attualità politica e giornalistica. Mi sembra, però, che la situazione egiziana e quella siriana rappresentino una notevole sfida anche alla migliore buona volontà di imparare dal passato.
Caro Andrea, non penso che la situazione in Siria sia facilmente leggibile, però in questo momento le forze laiche di opposizione ad Assad hanno un ruolo oggettivamente marginale e non è un caso, ma un segno che la partita che si sta giocando in Siria e in Medio Oriente non vede da nessun lato la democrazia. E’ una questione di assetti di potere con la differenza che Assad rispetto a Gheddafi e Saddam, che erano sostanzialmente isolati, è inserito in un sistema di alleanze, cosa che può aprire un conflitto di proporzioni non prevedibili.
In questo senso affermavo che sarebbe ora di riflettere su un piano storico a che cosa ha portato questo ventennio di interventismo occidentale in nome dei diritti umani. La Libia, l’Iraq, il Kosovo, l’Afghanistan nei loro lunghi dopoguerra guerreggiati sono esempi positivi? Gli esiti di questi interventi non dimostrano piuttosto che si è sempre trattato di assetti di potere e di logiche di dominio?
La disastrata vicenda delle guerre umanitarie, o delle guerre anti-terrorismo, è ancora lì, attentato dopo attentato, a mostrare il fallimento non solo delle retoriche dei diritti umani, della democrazia esportata, ma anche dello stesso dominio. Questo per quanto riguarda le responsabilità occidentali. E diciamo che l’unica cosa ben leggibile forse emerge appunto da questo versante, dal versante statunitense ed europeo. Ma a me sembra urgente cominciare a esplorare l’altro versante, che è ben più sfuggente ai nostri occhi. Quello arabo, con tutto il grande intreccio politico, culturale e religioso che implica. So, per altro, che tu sei particolarmente attento a questo.
Una miglior conoscenza della realtà araba mi sembra indispensabile, anche allo scopo di accantonare/rivedere alcune nostre categorie interpretative obsolete. E’ peraltro evidente l’improponibilità, per la situazione siriana, della (presunta) alternativa tirannide-democrazia utilizzata per gli altri interventi. La capacità di controllo mondiale da parte dello stato dominante e dei suoi alleati appare, quale che sia il giudizio di valore, comunque in crisi.