Casertatitudini: Lucio Saviani
Piccola Telemachia
di
Lucio Saviani
Erano anni di partenze, quelli, per me. Partenze senza distacco, senza saluti, partenze fatte in fretta, di corsa, con il ritorno già stampato. Un viaggio quotidiano. Mattiniero, quasi sempre in piedi e quasi sempre con lo stesso compagno, e allo stesso posto, come fosse prenotato. Un treno con due soli vagoni, quello delle 7.40 per Napoli, ferro e legno. Le sedute erano rigide, di legno, quelle della ex terza classe, ormai inesistente.
Gli anni ‘80 per me si aprirono con un nuovo viaggio, e una idea nuova di viaggio, di partenze e di ritorni. Un viaggio a Venezia, in occasione del primo Carnevale, nel gennaio del 1980. Vidi tutti gli spettacoli in programma: Perlini, Marceau, De Simone, Scabia, Remondi, Caporossi; addirittura partecipai alle performance di Ed Moch, Lindsay Kemp, Dario Fo. Da quella volta, con altri tempi e ragioni, diventai pendolare con Venezia, al punto che le mie partenze diventarono dei ritorni a Venezia, e viceversa. Ogni volta che ricordo quel primo viaggio ritorno a una pagina di Guy de Pourtalès: “Ogni creatura che, di giorno in giorno, sente in sé affievolirsi l’ardore di un amore che per molto tempo è stato lo scopo della sua vita, chiama in suo soccorso la morte. Ma questa raramente viene, quando è invocata. Bisogna dunque vivere, e anche sopravvivere. Il ferito si rialza, medica come può la sua piaga e fugge. “Viaggiate”, gli dice qualcuno; ed egli parte con la sua ombra. Lo s’incontrerà poi, forse, mesi ed anni più tardi, guarito. Apparentemente guarito, perché in fondo nessuno si rimette mai completamente dalle ferite di un amore deluso. Osservando bene ci si accorge che non è più lo stesso individuo: benché sia sempre lui, con gli stessi occhi, con lo stesso sorriso, con lo stesso modo di stringere la mano…”. Al ritorno da quel viaggio, durato così poco, sentii di essere tornato diverso, in modo irrevocabile, e trovai diversa anche la mia città.
Era, tra gli anni ‘70 e ‘80, una Caserta aperta, quella che io ho frequentato e che sentivo sempre un po’ di passaggio, con quei binari della stazione solo paralleli al marciapiedi e mai perpendicolari, come ogni inizio e ogni fine. Una città molto informata, curiosa, raggiunta da fatti e persone di cui parlava il telegiornale. E da cui si partiva per raggiungerli, quei fatti (Bologna, Castelporziano, Roma…), viaggi poi non tanto lunghi, ma era pur sempre un’epoca pre-fax, anni di gettoni telefonici, passaggi, ciclostili, aperture a cui facevano sempre da controcanto le saracinesche di via Mazzini abbassate al passaggio di ogni corteo.
Credo che l’imago urbis della Caserta di quegli anni sia costituita da due aspetti intimamente connessi e che si spiegano a vicenda: il senso vissuto di un ‘altrove’ e l’esperienza di un luogo abitato da un fermento artistico intenso, quasi febbrile.
Il luogo in cui sia fa l’esperienza dell’arte è sempre “altrove” rispetto alla dimensione della vita ordinaria: può essere un cinema, un teatro, una galleria, un museo. Eppure può essere anche la stanza dove leggiamo un libro o sfogliamo il catalogo di una mostra. E’ il luogo la cui soglia di accesso si dà nel segno del paradosso: una dimensione segnata dalla sensibilità individuale, dal mutamento dei canoni stilistici, delle mode, ma nella quale viene postulato come condiviso l’universo dei sentimenti, delle emozioni e delle sensazioni. Quasi che proprio il sentire, ovvero quanto vi è di più privato e incomunicabile, fosse regolato da leggi.
Un’esperienza che è soggettiva, basata sul gusto, e intersoggettiva, ossia che mette capo a un giudizio. Insomma, che genere di “esperienza” facciamo quando, varcata quella soglia imprevista, incontriamo un’opera d’arte? Le opere d’arte sono cose tra le cose, stanno davanti agli occhi. Eppure, con il loro venire al mondo, non solo il mondo non è più lo stesso, ma cambia anche la nostra percezione del mondo. Lo shock di cui parla Benjamin, oppure lo Stoss, l’urto, di cui parla Heidegger caratterizzano l’esperienza artistica in un senso costitutivo e non puramente occasionale. L’arte è esperienza di verità ed è vera esperienza in quanto una vera esperienza, come diceva Hegel, è sempre negativa, ossia modifica realmente colui che la fa (proprio come il viaggio di cui parlava Guy de Pourtalès). In fondo, l’incontro con un’opera d’arte è come incontrare una persona con un’altra visione del mondo, come può accadere in viaggio.
L’ “esperienza” stessa è percorso, cammino, attraversamento, fin dalla sua radice: “andare‑verso (un dove) provenendo-da (un dove)”, come per la metafora. Metafora dell’ex-per-ientia è il viaggio, l’andare verso, l’attraversare le cose. Ma è possibile parlare di viaggio senza andata e ritorno? Il ritorno è sempre, in un certo senso, previsto ma non prefigurato, prevedibile ma non certo: è qui il senso del partire assimilato al morire. Ma poi, c’è un ritorno anche se si ritorna non nel luogo della partenza: nel frattempo può essere cambiato, così come può essere cambiato chi ha viaggiato (di nuovo, come nel viaggio raccontato da Pourtalès). Il partire ha anche a che fare con il dividere, il distribuire, il fare le parti. Partitura è un termine che deriva da “partire”. Noi sappiamo che partire è sempre un po’… “dividere”. Ossia ripartire, distribuire, fare le parti. La partitura è, come la partizione, una divisione, una spartizione: il viaggio è, in origine, “viaticum”, la provvista ripartita al pellegrino. Un cammino problematico in cui si cerca di “saltare la propria ombra”, come accade al cammino filosofico: il paradossale passo con cui di continuo essa attraversa il mondo, ma solo nel senso di trapassarlo, attraversandolo e continuando ad abitarlo.
Dunque, il senso dell’altrove e il fermentare dell’esperienza d’arte. Tutte in questo senso racchiuderei le esperienze del periodo che stiamo ricordando. In ordine sparso: la rassegna “Passaggio a Sud Ovest”, curata da Beppe Bartolucci nel 1979, in occasione della quale si confrontarono, tra analitico-concettuale e nuova spettacolarità, a Caserta le maggiori esperienze del teatro d’avanguardia italiano, (Lucariello e il giro in motocicletta intorno alla Peschiera Grande, Cividin e Taroni alla Castelluccia, Lotus Seven 2000 del Teatro Studio, Barberio Corsetti in una danza solitaria tra fiori colorati su un prato del Parco Reale); “Cambiacanale!” e “E tutti risero…” entrambe curate da Gino Ventriglia e Bruno Tramontano; i numeri della rivista “Drive In” che raccoglieva interventi di artisti, poeti, critici, che sarebbero stati poi molto attivi negli anni ‘80. Ma il fermento riguardò anche le associazioni culturali, e toccò anche me, con l’associazione “Il villaggio globale”, che fondai nel 1981 insieme a Gino Ventriglia e a Gianfranco Salvatore, con la rivista “Caserta Live” fondata nel 1989, seguita un paio di anni dopo da “Politeia”, fondata con Rino Cipriano e Giovanni Santamaria, alla quale si avvicinarono anche alcuni giovanissimi narratori (per primo Francesco Forlani, grazie al quale furono introdotti Antonio Pascale e Francesco Piccolo) che si sarebbero affermati verso la fine degli anni ’90; ma questi sarebbero stati per me gli anni del passaggio dal pendolare con Napoli e Venezia, al pendolare con Roma e Praga, fino al mio ‘accasarmi’ sia a Roma che a Praga.
Il lento lavoro dell’addomesticamento dell’ignoto, del “fare casa” è il lavoro del discorso filosofico, che all’irruzione dell’estraneo, dello strano, dello straniero, fa seguire una inedita familiarità, un “sentirsi a casa”. Proprio perché familiarizza con l’inedito, lo accoglie e lo ascolta, la filosofia nasce dalla meraviglia e vive poi del sentirsi fuori luogo nel mondo dell’ovvio e dell’abituale.
Un addomesticarsi, dunque, che esclude e allontana ogni dominio. E con il dominio allontana ogni possesso. Proprio perché discorso di amicizia e di amore (per la verità: sua croce e irraggiungibile oggetto sempre da desiderare) la filosofia è cura della distanza. Distanza necessaria ad ogni rapporto. Paradossale movimento del ridurre la distanza avendo cura che non si esaurisca, il discorso filosofico è un camminare (ancora il viaggio) alla presenza di ciò che sia ama e che, proprio per questo, manca. Filosofia è dunque anche telemachìa, un lottare da lontano ma anche un combattere la distanza, mettendo a distanza. E’ qui anche il senso originario di “speculazione”. Lo speculor, il guardare nello speculum in modo da poter guardare dietro le spalle e vedere a distanza. Ma un vedere che serva al “fare”, utile proprio come lo speculator, la vedetta che avvista il nemico lontano, quando è ancora assente. Aver cura della distanza significa dunque aver cura di non colmare i vuoti. Va salvaguardata la mancanza, che è il senso vissuto di un’assenza che è paradossalmente resa presente. La verità non è oggetto della filosofia, quanto sua origine sempre ritornante, sui suoi passi, sulle sue tracce. La verità, come la nostra finitezza, non è che incipienza continua.
Me lo ricordano ogni volta, durante le mie piccole, private telemachìe in cui ritorno a Caserta, dal finestrino del treno i cimiteri che sempre annunciano la vicinanza della vita, l’arrivo a una stazione.
Nota
di
effeffe
Il narrat di Lucio inaugura una serie di testi che da diverse latitudini portino a Caserta; di qui il titolo che ho scelto. Narrat come omaggio allo scrittore Volodine che a proposito di uno dei suoi più libri, Des anges mineurs, e della forma letteraria da lui immaginata, scrive: J’appelle narrats des textes post-exotiques à cent pour cent, j’appelle narrats des instantanés romanesques qui fixent une situation, des émotions, un conflit vibrant entre mémoire et réalité, entre imaginaire et souvenir. C’est une séquence poétique à partir de quoi toute rêverie est possible, pour les interprètes de l’action comme pour les lecteurs.
Caserta è un nome che sa di esotico e quel profumo lo sentiamo anche noi che ci siamo nati perfino quando un amico di Torino o di Bari ti dice juvecaserta, reggiadicaserta, casertavecchia, casertacaserta. Non so perché ciò accada ma di certo succede, capita, più o meno volontariamente, più o meno ufficialmente come in questo passaggio in area cinematografica che ai più non sarà di certo sfuggito.
ps
L’immagine di copertina è di Gerardo Del Prete. Autodidatta, la sua attività si è sviluppata continua, dalle prime esposizioni negli anni ’70 fino ad oggi.Solo per citare i principali eventi, le personali alla sala “Bella Otero” di Caserta (1987), al centro d’arte di Cassino (1989), alla sede ONU ed al CERN di Ginevra (1989), alla Feltrinelli di Caserta (“Contaminazioni”, 2010).
A proposito di Volodine invece, segnalo le belle traduzioni che sono state fatte da Andrea Raos e Andrea Inglese proprio qui su Nazione Indiana.