Mitocrazia

Alegre-mitocrazia(Pubblico più che volentieri un estratto dall’introduzione di Yves Citton, Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra, Alegre 2013, che ha una prefazione di Wu Ming 1 e una postfazione di Enrico Manera, che qui ringrazio, assieme alla casa editrice. G.B.)

di Yves Citton

Dico alla gente che ha già provato tutto,
ma che ora è tempo di provare la mitocrazia.
Hanno avuto la democrazia, la teocrazia.
La mitocrazia è ciò che non siete mai diventati
di quello che dovreste essere.

Sun Ra

 “Soft power” e scenarizzazione

Nessuno è ancora riuscito a stabilire cosa può un racconto. Alcuni di noi si sentono urtati dai “miti” con cui veniamo cullati, altri denunciano le “storie” che ci vengono raccontate; ad altri ancora piace credere che sia sufficiente trovare una buona “story” per portare gli asini alle urne, le pecore al supermercato e le formiche al lavoro. Quest’opera, piuttosto che offrire facili ricette o denunciare, invita a esplorare i poteri propri del racconto; parallelamente, propone un racconto della natura mitica del potere: la mito-crazia. […]

In primo luogo proveremo a fare il punto sull’immaginario del potere, seguendo gli sviluppi recenti di una riflessione che ha segnato un certo pensiero politico, riconducibile alla fortuna di Spinoza, Gabriel Tarde, Michel Foucault e Gilles Deleuze. Si cercherà quindi di munirsi degli strumenti per individuare e comprendere il funzionamento di un potere apparentemente “soft” (soft power), quel potere che si insinua, suggerisce, stimola, più di quanto non vieti, ordini, o costringa, un potere che orienta i comportamenti, “conduce le condotte”, situandosi al livello del flusso di desideri e di convinzioni canalizzato dalla rete di comunicazione mediatica.

Inoltre, per quanto riguarda le pratiche della narrazione e dello storytelling, ci sforzeremo di fare le debite distinzioni al fine di identificare quanto ci sia di realtà, quanto di proiezione e quanto di potenziale emancipatorio.

Per tentare di comprendere in che modo la strutturazione narrativa costituisca una precondizione necessaria dell’agire umano, nonché un orizzonte all’interno del quale assemblare e integrare i nostri singoli gesti quotidiani, faremo ricorso a diverse discipline (all’incrocio tra l’antropologia, la sociologia, la narratologia e la semiotica). Sarà l’occasione per chiedersi perché e come le risorse dello stoytelling siano state monopolizzate dalle ideologie reazionarie (“di destra”), e quali siano le condizioni in cui delle politiche emancipatrici (“di sinistra”) potrebbero riappropriarsene.

Cercheremo infine, nel punto d’incontro tra pratiche della narrazione e dispositivi del potere, di offrire una definizione di un tipo di attività particolare, la scenarizzazione.

Raccontare una storia a qualcuno non implica solo articolare determinate rappresentazioni d’azione seguendo una specifica successione, ma comporta anche “condurre le condotte” di chi ascolta, a seconda dell’inclinazione conferita alle articolazioni e alle concatenazioni. Mettendo in scena le trame dei personaggi (fittizi) del mio racconto, contribuisco – in maniera più o meno efficace, più o meno incisiva – a scenarizzare il comportamento delle persone (reali) cui rivolgo il mio racconto. Quest’attività di scenarizzazione va analizzata sia dal punto di vista delle sue caratteristiche intrinseche, legate alla natura del racconto narrativo, sia per quello che riguarda le sue ripercussioni all’interno dei nostri dispositivi mediatici. Passare dalla problematica della narrazione a quella della scenarizzazione significa chiedersi in che modo – attraverso quali strutture della comunicazione e con quali effetti possibili – una storia possa coinvolgere un pubblico e orientarne i futuri comportamenti.

Le intuizioni generali che concernono questo potere della scenarizzazione che l’opera cerca di analizzare sono invero molto comuni. Tutti percepiamo che la sua distribuzione non corrisponde, se non in misura parziale, con la distribuzione dei poteri politico, giudiziario, e economico. Tutti noi sappiamo che le decisioni dei direttori del telegiornali di includere o meno una determinata notizia, o un argomento di dibattito, o un interlocutore nel proprio notiziario svolgono un ruolo determinante nel funzionamento quotidiano e negli orientamenti generali delle nostre democrazie mediatiche. Tutti noi percepiamo che ciò che è detto (e ciò che è pensato) all’interno dei nostri dibattiti politici, ciò che è comprato nei nostri supermercati, ciò che ci incentiva a lavorare, a obbedire, ad accettare, a resistere, o a inventare un altro mondo possibile, non dipende solo da quanto vediamo e capiamo del mondo che ci circonda, ma anche dai diversi modi in cui ciò che giunge a noi è messo in scena, allestito e scenarizzato.

Quali sono i nodi attorno ai quali si costruisce il potere di scenarizzazione?

Con quali agganci attira la nostra attenzione? Quali sono i punti su cui fa leva? Quali disuguaglianze strutturano la sua distribuzione? Quali ostacoli precludono ai più l’accesso ai suoi effetti moltiplicatori? Quali potrebbero essere le rivendicazioni di uguaglianza tali da far saltare le preclusioni determinate dall’immaginario comune del potere e far sì che si prenda in considerazione il potere della scenarizzazione? In che modo delle politiche di emancipazione (“di sinistra”) possono riappropriarsene senza cinismo e senza falsi pudori? Come definire “la sinistra” a partire dal modo in cui “enuncia”, allo stesso modo in cui la si definisce in base al contenuto delle sue rivendicazioni? Queste sono le domande che verranno poste nel corso dei sei capitoli di questo libro.

[…]

Tanto vale dire subito che il potere della scenarizzazione descritto nelle pagine seguenti non ha niente di nuovo. Lo si può facilmente ricondurre alle messe in scena del potere reale di Luigi XIV o alla scenografia dei Trionfi degli imperatori romani. Gli umani si sono “messi in scena” da quando hanno cominciato a parlarsi, a sedursi, a battersi e a raccontarsi delle storie. Ma, se il potere di scenarizzazione è vecchio quanto il mondo, tuttavia le sue condizioni di esercizio, i suoi canali di diffusione, il suo grado di concentrazione, l’intensità e la precisione con i quali può sperare di influenzare i comportamenti umani evolvono invece costantemente. Mai infatti con la stessa intensità che al giorno d’oggi i modi di regolazione sociale si sono fondati su potere di scenarizzazione. In questo senso lo studio dei fenomeni di scenarizzazione si impone oggi con inedita urgenza, nonostante la loro identificazione possa essere illustrata grazie ad un racconto vecchio più di due secoli.

A margine di una tale riflessione, vale comunque la pena di precisare che – ovviamente – non tutto il potere è diventato soft. I capitoli che seguono potrebbero certo legittimamente esser tacciati di ingenuità o di idealismo se si avesse la pretesa di presentare in queste pagine la teoria del potere. Dire “il” potere, in quest’inizio di terzo millennio, significa anche (e ancora) dire le bombe che distruggono le case e le vie in nome della sicurezza degli Stati, i soldati o i poliziotti che sparano sulla folla, significa parlare del potere che si abbatte contro i resistenti picchiati e reclusi senza processo, quello che si manifesta attraverso le decisioni unilaterali di chiudere le imprese perché i tassi di profitto non sono ottimali, il potere dei divieti alle donne (o ai più gay di noi) evocati in nome della sacralità religiosa, il potere delle condizioni di lavoro neo-schiaviste che sono imposte ai lavoratori clandestini, significa la violenza fisica, simbolica o legale che si abbatte contro gli stili di vita alternativi e marginali, senza contare tutti i piccoli soprusi, tutte le umiliazioni, le rigidità e le assurdità che che sono il pane quotidiano dell’apparato burocratico. É senza dubbio e innanzitutto di questo potere – hard power – che si dovrebbe parlare se si avesse la pretesa di parlare del potere (in generale e in tutte le sue forme).

Non si tratterà quindi in nessun modo di sminuire, di relativizzare, o di dichiarare obsoleta questa massiva realtà dell’hard power, ma piuttosto di far notare come si trova spesso ritrasmessa da altre forme di potere, apparentemente più “miti”.

[…]

Ciò che si vuole mostrare è che “raccontarsi delle storie” non è solo inevitabile, ma spesso addirittura salutare, e che “la società dello spettacolo”, più che suscitare querule lamentele, dovrebbe esser d’ispirazione per una contro-scenarizzazione. Gli ultimi decenni si contraddistinguono per l’incapacità che ha dimostrato la “sinistra” di raccontar(si) delle storie convincenti. Per delle ragioni che cercheremo di capire, la “destra” (autoritaria, neoliberale e xenofoba) è riuscita a diffondere un insieme aperto ma relativamente coerente di storie, immagini, fatti di cronaca, informazioni, statistiche, slogan, paure, riflessi e di oggetti di dibattito che si alimentano reciprocamente all’interno di uno stesso “immaginario di destra”. La forza (soft) di questo immaginario è stata tale da colonizzare i discorsi di numerosi dirigenti di alcuni partiti che si rivendicano tuttavia ufficialmente di “sinistra”. Come è riuscito questo “immaginario di destra” a imporsi e a scenarizzare ampie porzioni della nostra vita politica? Queste sono le questioni di fondo che costituiscono l’orizzonte della riflessione che segue.

L’ipotesi è che lo smarrimento attuale della “sinistra” (quella ufficiale) abbia a che vedere con un blocco e con un deficit inerenti all’immaginario del potere ch’essa non è riuscita a rinnovare. Il patetico disorientamento dei suoi dirigenti e delle sue organizzazioni collettive, in Francia come in numerosi altri paesi europei, che contrasta con la vitalità di certi movimenti “para-politici” di resistenza e di creazione, può esser in larga parte attribuito alla mancanza di un collante immaginario che permetta di tenere insieme tutte le sensibilità, i sentimenti, le evidenze, le speranze, le paure, gli slogan e le rivendicazioni di cui facciamo l’esperienza isolata, senza tuttavia riuscire a imprimervi una forza collettiva di partecipazione condivisa.

Quando si parla (a torto) della “fine delle ideologie”, che sia per rallegrarsene o per rimpiangere l’epoca dei grandi antagonismi binari e strutturanti, ci si fa sfuggire la specificità di ciò che oggi è importante ricostruire: non tanto un sistema di idee, coerente e totalizzante, fermamente ancorato al rigore del concetto e capace di rassicurare gli animi inquieti con la sua pretesa d’avere una risposta per tutto (un’ideologia), bensì piuttosto un bricolage eteroclito di immagini frammentarie, di metafore dubbiose, di interpretazioni discutibili, di intuizioni vaghe, di sentimenti oscuri, di folli speranze, di racconti senza cornice e di miti interrotti che prendano insieme la consistenza di un immaginario, tenuto insieme, ancor prima che da una coerenza logica, dal gioco di risonanze comuni che attraversano la loro eterogeneità per affermare la loro fragilità singolare. É alla costituzione di un siffatto immaginario che questo saggio vuole offrire il proprio modesto contributo.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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