Bonaria Manca
di Daniela Rosi
Bonaria Manca è nata a Orune il 10 luglio 1925, penultima di 13 figli. Negli anni ’50, seguendo i famigliari in precedenza emigrati per gravi motivi, si trasferisce nell’antica Tuscia, in Alto Lazio, luogo carico di storia, immerso nella natura, un sito archeologico pregno di memorie etrusche che la colpiscono profondamente e le danno la sensazione di una continuità con la sua terra natale.
Nel 1965 va ad abitare in un grande casale acquistato dalla famiglia a Tuscania.
Nel podere attorno alla casa, lei pascola le sue pecore, mentre fra le mura domestiche cucina, cuce e ricama, in continuità con la cultura sarda.
Non era cosa consueta per il popolo sardo avere pastori donna, ma Bonaria sfiderà le convenzioni e non solo farà la pastora, ma si cucirà anche abiti diversi dai soliti, che ne sottolineeranno fin da subito la grande originalità creativa.
Oltretutto si sposta a cavallo, tenendosi lontana dal paese. Gli abitanti di Tuscania ricordano ancora le sue prime apparizioni. Conservano il ricordo di una giovane donna misteriosa e carica di fascino. Rimarrà per loro, però, sempre una “forestiera”, una figura esotica. E così si sentirà anche Bonaria Manca: una donna sarda, una pastora, una emigrata in terra etrusca.
Nel 1968 si sposa con un tuscanese, ha già 40 anni, ma il matrimonio è destinato a non durare. Dopo la morte della madre nel 1975 e quella dell’amato fratello nel 1978, cade in una profonda crisi, accentuata anche dalla successiva separazione dal consorte avvenuta nel 1980.
Sarà proprio questa “dolorosa libertà”, una libertà fino ad allora sconosciuta, la chiave di volta della sua vita:
“mi sono sentita libera, che non c’era né mamma, né fratello”.
La sua compagnia migliore diventa a questo punto l’arte, nelle sue diverse forme, che lei usa come un potente strumento autobiografico.
“Ho iniziato a cantare quando ho cominciato ad esser sola” dice, ma ha anche cominciato a dipingere quando si è trovata sola.
E’ passata alla pittura convinta che, se sapeva ricamare, usare i colori attraverso il filo, probabilmente sarebbe stata in grado pure di dipingere. E, infatti, la sua supposizione si è rivelata corretta.
Dapprima ha iniziato dipingendo sulla tela, o su qualche tavola e, quando le tele mancavano, le si sono naturalmente offerte le pareti della sua casa.
E’ nel 1981 che inizia la sua attività pittorica e lo fa raccontando la sua storia, una storia che nasce sarda, prima di tutto, poi diviene dialogo con il luogo in cui si trova, con la natura che la circonda, con la memoria sua e delle pietre che lì si trovano.
Bonaria inizia così il suo lungo racconto autobiografico, dapprima, come nella miglior tradizione auto-narrativa, elaborando i ricordi dolorosi, i lutti, le separazioni; denunciando i soprusi, i torti subiti, le ingiustizie vissute, per passare poi alla narrazione devozionale, una sorta di preghiera diffusa, di dialogo con la natura e con gli antichi che lì, nella Tuscia, come in Sardegna, da sempre fanno sentire la loro presenza.
La sua casa, a poco a poco, si copre di colori e immagini. Tutte le pareti sono dipinte, oppure ospitano quadri che raccontano ricordi, tradizioni, presenze, natura e nuovi incontri mitici.
I colori sono tenui e brillanti a un tempo.
In camera da letto campeggia una maternità con Madonna emancipata che lontana dall’uomo non ne è soggiogata e, come fa notare Bonaria, non tiene il capo chino, ma alza la testa altera e fiera.
Sulla parete della camera da letto anche un arazzo dove racconta la sua vita bambina, quando si recava alla fonte a prendere l’acqua.
Un’autobiografia scritta, quindi, anche con il ricamo, il lavoro della lana, il confezionamento degli abiti, pratiche imparate fin da bambina, ma reinterpretate in assoluta libertà.
Raccontare la sua storia su tutte le pareti interne della casa, cucendo arazzi, realizzando tele e disegni, è stata la vera ancora di salvezza di Bonaria, perché queste pratiche le hanno consentito di non cadere nel baratro della solitudine, dell’anonimato e di stabilire una continuità culturale con i luoghi che si è trovata ad abitare, dopo aver dovuto lasciare quelli che le hanno dato i natali e dai quali ha attinto la sua cultura.
Una narrazione per immagini che ha del sacro: la memoria dell’antico popolo sardo e la scoperta di un luogo altrettanto carico di memoria come la Tuscia degli etruschi, due realtà sulle quali scorre la vita di Bonaria Manca, un’ artista che si è trovata a esserlo, suo malgrado, per via di una ispirazione superiore a lei stessa ignota.
“Io che ne sapevo” ripete Bonaria quando diviene, come ognuno di noi, spettatrice del suo immenso poema visivo e, assieme a noi, si meraviglia di averlo potuto realizzare lei da sola.
Bonaria ha lasciato traccia della sua storia scrivendo pure su taccuini preziosi che conserva gelosamente. Ha anche pubblicato un libro negli anni Ottanta, dall’evocativo titolo Comente perdichese spardinadassa (Come pernici sparpagliate), nel quale racconta della sua vita sarda , dei cibi, delle usanze e della sua formazione. Sul libro, in bianco e nero, sono pubblicati molti suoi lavori pittorici che illustrano la vita da lei descritta a parole.
Come tanti artisti outsider o babelici, anche lei inizia tardi, ma è un tardi che le permette di riportare nel suo lavoro tutta la sua esperienza di diversità rispetto agli abitanti della terra che, non per scelta, ha dovuto adottare come terra in cui vivere.
Nel lavoro artistico di Bonaria, troviamo tutta la generatività di una donna eccezionale, libera, anticonformista, ribelle e custode dei valori della Natura. Una donna che salva la memoria mitica del popolo dal quale proviene e che, allo stesso tempo, fonda un nuovo universo personale, il quale nasce da e in una terra che in passato ha conosciuto i grandi fasti della civiltà etrusca.
Consapevole del proprio talento, ma umile, Bonaria non cessa di stupirsi di questa sua capacità.
Donna fiera, di antica civiltà, che attraversa la fatica a testa alta.
Questa è Bonaria Manca, l’abitatrice di un mondo a parte, fatto di memorie e nuova creazione, un mondo, alla fine, da lei stessa ri-fondato e nel quale possiamo cogliere il mistero panico dell’esistenza in tutta la sua infinita poesia.
(Daniela Rosi ha scritto questo testo in occasione della mostra da lei curata “Bonaria Manca, Io che non sapevo”, dal 5 al 13 luglio, a “Pergine Spettacolo Aperto” (Pergine Valsugana, Trentino), si veda l’invito qui sotto per i dettagli)
Donna fiera, di antica civiltà, che attraversa la fatica a testa alta.
ecco, sarebbe ora di parlare delle tante Bonarie
grazie del post
Apprezzo molto l’approccio di Daniela Rosi a questo sommerso artistico.
Il lavoro di Bonaria mi ricorda un po’ il lenzuolo diario di Clelia Marchi
http://www.archiviodiari.org/index.php/larchivio-dei-diari/il-lenzuolo-di-clelia.html
Grazie!
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