Oltre i titoli di coda

di Giovanna Marmo

.

Scomparendo dallo schermo

Benvenuti. Accendete la luce, ma non guardatemi,
perché io non posso riconoscervi, così come voi
non siete in grado di riconoscermi.

Tornate pure al vostro lavoro,
rientrate nella cabina di proiezione,
niente si modifica: ho accettato
di essere un duplicato in una stanza fatta di carne.

Non indosso nulla, solo una luce nella bocca.
Nonostante il disagio mi stendo
sul tavolo di vetro tra tubi al neon.

Respiro dopo respiro l’aria circonda la mia testa.
È difficile capire chi davvero stia scrivendo.
Sento la mia voce mentre vi parlo in terza persona
e desidero strofinarmi contro una porta.

La luce si spegne nella cabina di proiezione.
Gli attori entrano in scena uno ad uno
mostrando il catalogo dei volti

ma lei è scomparsa dallo schermo.
Si vede solo la parete alle sue spalle.
Vi siete mai chiesti se questo è giusto?

Nella stanza di carne il tavolo di vetro
è avvolto da un lenzuolo bianco.

Il giorno nasce e muore,
è ora di andare a dormire.

Ancora una volta, arrivederci.

*

Cinema muto

Conosco una sola distanza rispetto a cui le immagini
appaiono nitide. Ho deciso di abbandonarla
e fare a meno della profondità di campo,
avvicinerò l’obiettivo.

Mi muovo in un alone sfocato. La macchina da presa
accarezza le stanze, i corridoi oscuri, i segni sui muri,
le macchie sulle poltrone. Sto attraversando le scene
di un film che non può appartenere ad una vita sola:
la confusione aumenta sulla pellicola.

E non sono più sicura che questa voce sia la mia,
non vedo tracce sonore.

Ormai la casa è vuota e questi sono i resti di una sala
cinematografica. Forse, però, qualcosa dura ancora
nonostante il trasloco, nonostante l’arteria si sia rotta
e il proiettore non funzioni da tempo. Ricordo che dal buco
del pavimento filtrava il chiarore.

Come sarà la notte senza oggetti?
Il silenzio ha raggiunto i soffitti alti.

*

La curva dell’oblio

Non distinguo nessuno, confondo le persone,
anche io voglio essere confusa con gli altri.
Ho perso tutte le informazioni acquisite.
Inutile tracciare l’ombra sul muro
ogni cellula di memoria bruciata
non può essere ricostruita.

Dormo in un film dal montaggio sempre uguale,
con paesaggi di taglio e scorci in cui non compaiono
persone. Solo sagome, vaghi contorni in un parcheggio
vuoto, nell’aeroporto dallo spazio trasparente.

Il viso incollato al vetro, lei guarda verso il basso
la curva dell’oblio. Aspetta che ritorni l’automatismo
dello scatto fotografico, l’istante che ha congelato gli altri.

Pioggia scura, densa come olio per motore.
Solo nell’ultima scena, per una frazione di secondo,
sulla pellicola il richiamo di un volto-latte.

*

Oltre i titoli di coda

Prigionieri in due inquadrature distinte,
ma speculari, non potevano incontrarsi.
Tuttavia la loro direzione era la stessa.

Attraversavano chilometri e chilometri di pellicola.
Si muovevano con sicurezza, perché conoscevano
il ramo paludoso che collega tutti questi luoghi.

Raccoglievano gli oggetti morti nella contemplazione.
Adoperavano la lente sfocata della malinconia
per osservare il presente.

A tratti credevano di parlare ad alta voce,
la vista diventava udito. I sensi si confondevano.

Consapevoli della presenza dell’altro,
per comunicare tra di loro stendevano le braccia
in avanti e guardavano verso la macchina da presa.
In questi momenti mettevano in difficoltà gli spettatori,
perché non erano loro i protagonisti.

Solo una volta, in uno stacco nero sullo schermo,
si parlarono attraverso i sottotitoli:
come sai il mio nome?
Non posso proteggerti, cosa hai fatto?

Erano le comparse di un film senza traccia sonora,
girato in due piani sequenza paralleli. Si incontrarono
oltre i titoli di coda.

*

I volti nelle teche

Siate immobili, sopprimete ogni pensiero
non voltatevi verso la macchina da presa,
ci fareste sentire a disagio.

Attenti a non riempire lo schermo con i vostri volti.
Poche inquadrature, niente più stacchi. Per favore,
un’inquadratura sfumi nell’altra.

Che il proiettore possa agganciare sempre la pellicola,
farla scorrere davanti al fascio di luce.

Tutto deve rimanere intatto nelle teche di vetro,
come stabilito. Esposto allo sguardo
dello spettatore, senza sapere cosa accade,
affinché l’ombra non renda mai cavo lo spazio.

*

Il suo punto di fuga

La macchina da presa la segue.
Per proteggerla dalle altre comparse
si adegua al suo percorso lento,
non la trascina con sé.

Cieli di rame, strade invase dal fango,
sfregi di pallottole esplose sui muri,
facciate distrutte. La guerra è dichiarata.

Ma non accade niente.
Per lei tutto ciò che conta
è già avvenuto fuori campo.

Si muove quasi senza spostare l’aria,
nonostante gli arti lunghi e arrugginiti.
E non chiede mai: cosa avete fatto alle mie gambe?

Non ha bisogno di mantenersi in equilibrio,
non capisce niente della sua esistenza.

Ha un nome di copertura, ha scelto di vedersi
come se fosse un’altra. Quando si specchia
nell’obiettivo il volto che appare sullo schermo
è una città assente nel ricordo.

Nel film pronuncia due battute:
– Dissolvenza al nero.
– Fine.

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