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Thalarctos maritimus (da “Bestiario”)

di Giacomo Sartori

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Hai un bell’esserci abituato, a un certo punto ti accorgi che hai freddo. Succede all’improvviso. Sei lì, faccio un esempio, che mangi un grosso pesce che hai agguantato con una zampata – di bagnarti dalla testa ai piedi non ti faceva proprio voglia – e la tua schiena è percorsa da un brivido. Capperi, fa freschino, ti dici. Non è nulla, poi a muoversi passa, pensi. E vai avanti col pesce, senza affrettarti. Ci mancherebbe solo che io, l’orso polare, abbia freddo, ridacchi dentro di te.

Sarà anche così, ma mentre inghiotti gli ultimi bocconi hai l’impressione che nel tuo stomaco il pesce si sia trasformato in un blocco di ghiaccio. Gambe in spalla, ti dici. Affondi la testa nelle scapole, e ti incammini con un buon passo. Per superare gli avvallamenti tra gli speroni di ghiaccio spicchi dei gran salti, invece di scendere e poi risalire come fai di solito. Ben presto ti senti in gran forma, un leone. Il problema è piuttosto che a quel ritmo ti viene fame di nuovo. Quando invece comincia a fare buio, e quindi fino all’alba di cibo nemmeno parlarne. Non so se domani avrò tanta voglia di pesce, ti dici, mentre ti prepari a passare la notte in un inospitale cunicolo. E ti pregusti un qualche delizioso bocconcino tiepido tipicamente autunnale: che ne so, un grassottello roditore, o un uccellaccio ritardatario, ormai troppo indebolito per spiccare il volo.

Le settimane seguenti tiri avanti, seppure a denti stretti. Però è innegabile, le giornate si accorciano ancora di più, e quel che è più scoraggiante il sole si solleva appena dall’orizzonte, quasi una zampona invisibile lo pigiasse contro la banchisa. Dai che oggi invece balza su in mezzo al cielo e mi scalda per benino, ti dici ogni mattina, e per ingannare l’attesa pensi a qualcos’altro. Per esempio la famiglia che hai lasciato da poco. Tua moglie era decisamente un gran pezzo di orsa, e i tuoi figli erano proprio carini, specialmente il maschietto nato per ultimo, ti dici. Era bello andarsene in giro tutti assieme, in fila indiana: diciamo la verità, ti riempiva di orgoglio. Il punto dolente era quell’interminabile confusione di voci, tutti quegli snervanti capricci, le continue lamentele, i battibecchi: l’impressione di soffocare. A un bel momento non ce l’hai più fatta, hai piantato lì baracca e burattini, e te ne sei partito senza nemmeno salutare. Non sei proprio fatto per la vita familiare, ormai è più che provato.

I giorni successivi, chiamiamoli giorni, sei obbligato a constatare che al sole non gli rimangono nemmeno le forze per staccarsi dalla linea dell’orizzonte. È fiacco-fiacco, come ammalato. Sembrerebbe quasi che rotoli, invece di volare. Il metodo migliore è ancora immaginarsi qualcosa di troppo caldo, ti dici, ricordando un vecchio proverbio. Rivai allora con la memoria al gran solleone dell’estate, quando con la scusa di catturare i pesci per tutta la famiglia ogni cinque minuti ti buttavi nell’acqua. O anche, ancora meglio, pensi a quel mai più ritrovato tepore di quando da piccolo dormivi con i tuoi fratelli, in un intrico di musi e zampe contro la pancia rovente e morbida della mamma. Funziona, per un po’ funziona. Mangi, rifletti, cammini, fai quello che devi fare.

Ci pensano le rabbiose scudisciate del vento, a rinchiodarti con durezza alla realtà. Sopra la testa ti sfilano nuvoloni grigi, lividi. Li diresti tetri soldati che marciano verso la carneficina finale. Ormai il sole nemmeno più fa capolino, è già tanto se si degna di rischiarare, da sotto la linea dell’orizzonte, metà del cielo. Il naso ti fa male manco una volpe argentata te la mordesse con tutte le forze, al posto delle zampe ti sembra di avere quattro stalattiti di ghiaccio. Delle orecchie non parliamone, ormai è un bel po’ che neanche le senti più. Diciamo le cose come stanno: io, l’orso bianco temprato a ogni rigore atmosferico, io, il re della banchisa, in questo particolare frangente ho freddo – ti dici – un freddo becco. Mi rendo benissimo conto che non è da me, so che dovrei essere superiore a queste bazzecole, eppure questa volta ho l’impressione di stare assiderando. È un dato di fatto, un’evidenza contro la quale non posso fare nulla.

Ti verrebbe da battere i denti, ti verrebbe. Sdraiarti in una cunetta riparata dal vento e tremare battendo i denti. E magari mugolare, fa bene mugolare, quando si è provati a quella maniera. Beninteso ti trattieni, ci mancherebbe solo che qualcuno ti sorprendesse a battere i denti e a mugolare come un cucciolo, saresti finito. La banchisa polare è strana: se hai voglia di veder qualcuno puoi anche vagare tre settimane con gli occhi fuori dalle orbite, non incontri anima viva. Solo come un cane. Quando invece sei ben bene arrivato alla conclusione che tutto sommato stai molto meglio senza tanta gente tra i piedi, zacchete, salta fuori una lepre artica, o un qualsiasi altro ficcanaso, che spia tutto quello che fai, o anche comincia a tempestarti di domande. Da quanto tempo stai camminando? Pure tu ti sei imbattuto in un esemplare di quegli esseri che se ne vanno in giro su due gambe e tutti infagottati? Sei stato sposato? Quante volte? Era meglio la quarta moglie o la terza? Preferisci i figli maschi o le femmine? Cos’hai sognato la notte prima? Come si può immaginare se solo ti lasci andare alla minima confidenza intima, l’anno dopo – com’è come non è – tutto il polo nord è al corrente. È un errore che fai una volta sola, poi impari la lezione.

Fin lì hai tenuto duro. Ormai però è inutile che te lo nascondi, le giornate si sono fatte vaghi accenni di albe, sempre più incerte, più brevi. Vieni fuori imbecille d’un sole! qui per colpa tua si gela! ti verrebbe da gridare. Ma no, hai altro a cui pensare: ti sembra che il vento si sia ripromesso di assordarti con i suoi ruggiti, che voglia a tutti i costi strappare ciocca per ciocca il tuo morbido pelo bianco, bucarti gli occhi con degli spilli, seppellirti sotto cumuli di nevischio. Non sai nemmeno più dove stai andando, per cosa. Sei solo frastornato, umiliato. Hai solo freddo, un freddo bestiale. Vorresti tanto una cosa, una cosa sola: due minuti di silenzio, due minuti della zampona tiepida del sole sul tuo pelo morbido, come in estate. Vorresti tanto, ebbene sì, la mamma.

Qui si mette male, ti dici. No, devo farcela, io sono l’orso polare che non teme le peggiori intemperie, ti riprendi, in un’ultima impennata di orgoglio. Devo resistere, devo tener duro a qualsiasi costo, ti ripeti, e allunghi ancora il passo. Solo che ormai hai l’impressione di avere la testa incastrata in un crepaccio che si sta richiudendo, e le tue palpebre sono rigide e pesantissime. Ti verrebbe, se solo il tuo istinto non facesse che urlare che per te sarebbe la fine, da lasciare che si abbassino, e buonanotte ai suonatori.

Nel pieno della crisi ti imbatti in un grosso animale che brancola nella semioscurità come un automa, più morto che vivo. Non so come sia, ma la natura organizza le cose sempre allo stesso modo: non ha molta fantasia. Una renna ormai rassegnata al proprio destino, di solito. Guardandola nel fondo degli occhi, ce l’hai lì vicinissima, hai l’impressione che per lei sia quasi una liberazione, averti incontrato. Almeno adesso è finita sul serio, ti sembra che si dica. Bando ai sentimentalismi, con le tue ultime energie le spezzi il collo di netto. Dopodiché affondi il muso nei suoi intestini quasi troppo caldi, tutta la testa, le zampe. Ti imbratti di rosso il tuo bel pelo color porcellana, ma per una volta non te ne importa nulla. Nel farlo provi anzi un brivido di piacere.

Ti accucci e cominci a riempirti la pancia con metodo. O meglio, continui a trangugiare brandelli di carne anche quando sei già sazio, ti ingozzi fino a sentirti scoppiare, fino a averne la nausea, a non capire più niente. Ecco, adesso sono proprio pieno come un uovo, ti dici, quando sul ghiaccio non restano che ossa e qualche ciuffo di pelo. Sei appagato. Certo, ma prova tu ad andare da qualche parte, in quelle condizioni: stai a stento sulle quattro zampe. Ti guardi intorno, per quel poco che si vede, e sbadigli. Dio che abbiocco! ti dici.

Riesci a malapena a trascinarti fino al primo anfratto ben riparato, e poi chi s’è visto s’è visto, ti lasci cadere a terra con un tonfo. Che vadano tutti a farsi benedire, ti dici, io adesso mi faccio una dormita di tre mesi. Non ti pulisci nemmeno il muso con la lingua, non ne hai la forza. Sarà per domattina, ti dici. Chiudi gli occhi, e subito dimentichi di essere l’orso polare che non teme alcun rigore atmosferico, il re della banchisa: pensi alla tua mamma, al caldo che faceva quando con i tuoi fratelli vi stringevate tutti assieme contro la sua pancia, in un groviglio di zampe e di teste. E allora finalmente il vento tace, e ritrovi il tepore dell’estate.

(questo racconto è tratto dalla raccolta “Bestiario”, Provincia Autonoma di Trento, 1996; in compagnia della nidiata di confratelli migrerà tra breve nella raccolta a quattro mani “Zoo a due” (Perdisa Pop), con Marino Magliani, sodale di scrittura e non solo)

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4 Commenti

  1. Bello Giacomo! l’hai visto The Bear di Raymond Briggs? (su quella mamma finale, quella nota nostalgica, mi è venuto in mente).

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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