Contro la sterile laconicità dei geometri
di Antonio Sparzani
Più leggo le opere di Galileo Galilei e più mi convinco che la sua statura intellettuale non consista soltanto nell’eccellenza delle sue opere scientifiche, nelle quali peraltro si trovano intuizioni straordinarie accanto anche a valutazioni ai nostri occhi ormai sorpassate o addirittura sbagliate, ma anche nella grande finezza di percezione dei moti dell’umano animo e nella sua capacità di trovare l’argomentazione giusta, il percorso giusto per arrivare alle conclusioni di cui si era irrevocabilmente convinto.
Desidero farvi leggere un passo che trovo molto indicativo dello stile dell’uomo e dello scienziato. Si tratta di una parte della lettera che Galileo, già settantaseienne, scrisse al principe Leopoldo de’ Medici nel marzo 1640. Leopoldo, figlio del granduca Cosimo II, che era morto nel 1621, era fratello minore del granduca regnante Ferdinando II, e molto si interessava di arti e scienze; egli, oltre a servirsi di precettori che erano stati discepoli di Galileo, si compiaceva durante l’estate, di andare a chiacchierare con l’illustre scienziato dov’egli trascorreva gli ultimi anni della vita, ad Arcetri. Tra le lettere scritte a Galileo, ve ne è una, di Ascanio Piccolomini, nella quale si afferma: “spesso S.A. [s’intende Leopoldo] fa mentione di lei, e gli par mill’anni che venga la state per essere a goder costà i suoi discorsi, havendo S.A. perspicacia e gusto tale delle cose celesti che m’assicuro che V. S. ne rimarrà maravigliato“. Appunto nel 1640, Leopoldo scrisse a Galileo per averne un parere a proposito di un certo libro, scritto dallo scienziato, di ispirazione aristotelica, Fortunio Liceti e pubblicato all’inizio dell’anno a Udine, a proposito della luce emanata dalla Luna, intitolato Litheosphorus, sive de lapide Bononiensi. Galileo risponde dunque nel marzo, scusandosi per un lieve ritardo nella risposta, e scrive, tra l’altro, quanto segue:
« Arcetri, 31 marzo 1640
Serenissimo Principe e mio Signor Colendissimo,[ . . .] voglio che l’Altezza Vostra Serenissima sappia come l’eccellentissimo signor Liceti, subito uscito in luce il suo trattato De lapide Bononiensi, me ne inviò una copia, pregandomi che io liberamente dovessi significarli quello che a me pareva di questa sua fatica; e mentre che l’Altezza Vostra Serenissima mi ricerca dell’istesso, con ogni schiettezza le aprirò il mio senso.
Dicole dunque, che se io volessi conforme al merito diffondermi nelle lodi dell’ampla e sottilissima dottrina che mi è parso scorgervi, oltre al convenirmi assai in lungo distendere, dubiterei che le mie parole, benché purissime e sincere, potessero apparire ad alcuno iperboliche o adulatorie: ad alcuno, dico, di quelli, che troppo laconicamente vorrebbero vedere, nei più angusti spazii che possibil fusse, ristretti i filosofici insegnamenti, sì che sempre si usasse quella rigida e concisa maniera, spogliata di qualsivoglia vaghezza ed ornamento, che è propria dei puri geometri, li quali né pure una parola proferiscono che dalla assoluta necessità non sia loro suggerita. Ma io, all’incontro, non solamente non ascrivo a difetto in un trattato, ancorché indirizzato ad un solo scopo, interserire altre varie notizie, purché non siano totalmente separate e senza veruna coerenza annesse al principale instituto; che anzi stimo, la nobiltà, la grandezza e la magnificenza, che fa le azzioni ed imprese nostre meravigliose ed eccellenti, non consistere nelle cose necessarie (ancorché il mancarvi queste sia il maggior difetto che commetter si possa), ma nelle non necessarie, purché non sieno poste fuori di proposito, ma abbino qualche relazione, ancorché piccola, al principale intento. E così, per esempio, vile e plebeo meritamente si chiamerebbe quel convito nel quale mancassero i cibi e le bevande, principal requisito e necessario; ma non però il non mancar di queste lo fa così magnifico e nobile, che sommamente più non gli arrechino grandezza e nobiltà la vaghezza dell’egregio e sontuoso apparato, lo splendore dei vasi d’argento e d’oro, che, adornando la mensa e le credenze, dilettano la vista, i concenti di varie armonie, le sceniche rappresentazioni, e i piacevoli scherzi, all’udito così graziosi. La maestà di un poema eroico vien sommamente ampliata dalla vaghezza e varietà de gli episodii; e Pindaro, principe de’ lirici, si sublima tanto col digredire in maniera dal principale suo intento, che è di lodar l’eroe da esso cantato, che nel tesser le laudi di quello non consuma la decima, né anco tal ora la vigesima, parte de i versi, i quali spende in varie descrizzioni di cose che in ultimo, con fila assai sottili, sono annesse al principal concetto. Io per tanto interamente applaudo alla maniera che il signor Liceti, abbondantissimo di mille e mille notizie, tiene nei suoi componimenti, ed in particolare in questo, nel quale, prima che condurre il famelico lettore a saziare sua brama con l’ultimo insegnamento del problema principalmente desiderato, ci porge un util diletto di tante belle cognizioni, che bene ci obliga a rendergliene mille grazie, mentre che con grato risparmio di tempo e di fatica ci libera dal rivoltare i libri di cento e cento autori.»
Dite voi se non è un vero programma di scrittura e di vita.
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Con il consueto amore per la parola, Galileo esemplifica in fieri il suo “programma di scrittura e di vita” concedendosi eleganti (e, pare di intuire, divertite) divagazioni. Grazie per l’ottima lettura