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Trittico di Andreotti

0bandiera
di Helena Janeczek, Davide Orecchio, Evelina Santangelo

Il bambino con la cravatta a righe
di Helena Janeczek

La testa china sulle cravatte fanno silenzio per commemorare lo statista, l’uomo alla guida delle istituzioni. Quello al centro della fila in basso, distinguibile dalla cravatta verde, è il Presidente della Regione. Resta frontale dinnanzi alle telecamere, congelato dietro gli occhiali rossi, il volto che nella fissità cronometrata in sessanta secondi assume sembianze da tricheco. Ha esperienza di ruoli istituzionali, il Presidente che era stato più volte Ministro dell’Interno, indi anche di telecamere in azione. Più tardi fa sapere di non aver trovato elegante che sia mancata una cravatta nell’emiciclo dirimpetto del Pirellone, incidentalmente bianca a righe rosse. Il Presidente dalla cravatta verde era stato molto rosso, senza cravatta e senza righe, fino al 1979 quando ha conosciuto Umberto Bossi. Incidentalmente quello era stato l’anno in cui ammazzarono il papà dell’uomo con la cravatta sottratta al minuto di silenzio. In quell’epoca remota non v’erano ovunque telecamere e non si può dunque ricostruire con immediatezza se, al momento di essere ucciso dinnanzi al portone della sua casa milanese, il padre dell’uomo con la cravatta a righe che allora aveva otto anni e stava dormendo nella sua cameretta, ne indossasse una, come la sua biografia rende probabile. Il bambino si sarà già svegliato grazie alla raffica di colpi esplosi da una Magnum calibro 357 o solo dopo, a causa delle sirene, le urla e il pianto lancinante che nemmeno la consorte più degna e fedele di un servitore dello Stato, cattolico e monarchico, era riuscita a trattenere in quel frangente? Il bambino crescendo non andava tanto bene a scuola, trovandosi nella necessità di conseguire la maturità in un liceo serale per via del sonno spezzato quel 11 luglio 1979, oppure per il congelamento degli anni dopo, la restituzione del dolore al decoro, in nome della fedeltà alla memoria del marito e padre. Poi ha recuperato quel che da lui ci si aspettava: è diventato avvocato come suo padre, ha lavorato per la Banca d’Italia come suo padre, si è occupato di criminalità organizzata e finanziaria come suo padre, è diventato padre come suo padre, padre di tre figli educati nella fede cattolica e nel rispetto del diritto e dello Stato. Infine ha accettato di sfidare l’uomo delle istituzioni con la cravatta verde e ha perso le elezioni. Inutile domandarsi ora se questo sia accaduto solo a causa del 13,9 per cento confluito su Silvana Carcano, candidata del Movimento 5 Stelle, o anche perché l’avvocato Umberto Riccardo Rinaldo Maria Ambrosoli si portava dietro un’aria troppo antica di mestizia parrocchiale e di un passato da scordarsi già scordato. Giulio Andreotti, amico di Michele Sindona, mandante della morte del commissario liquidatore della sua banca privata, decenni dopo, in un’intervista televisiva, aveva con sornionesca eleganza democristiana farfugliato che Giorgio Ambrosoli se l’era andata a cercare. Il capogruppo dell’opposizione al Consiglio Regionale della Lombardia se n’è uscito dall’aula alla chetichella per un tempo nemmeno utile a prendere un caffè o andare in bagno. Ma incontrando inevitabilmente le telecamere ha dichiarato: “le istituzioni sono fatte dalle persone”.

***

 

Un tratto dello spirito nazionale: fingere di non sapere… Ovvero dell’ingenuità e del candore del senatore Andreotti (e non solo).
di Evelina Santangelo

Riporto di seguito alcuni brani di un saggio del professor Salvatore Lupo (Che cos’è la mafia – Donzelli editore 2007) intercalati con qualche mio commento, certe dichiarazioni del senatore Andreotti, uno stralcio della sentenza della Corte di Cassazione e alcune parole pronunciate da Michele Greco al Maxiprocesso. 

L’analisi di Salvatore Lupo sulla natura delle relazioni intercorse tra il senatore Andreotti e la mafia, sulla linea difensiva messa in atto dal senatore durante il processo, sulla noncuranza con cui un politico del suo livello ha fatto riferimento a figure di spicco del mondo mafioso che hanno condizionato profondamente la vita democratica del nostro paese mi sembra infatti tra le più acute e feconde per comprendere quel che ancora oggi è uno dei tratti fondamentali di quello spirito nazionale che ha minimizzato, liquidato, dimenticato, taciuto, legittimato fatti gravissimi per ragioni di opportunità (di opportunismo o calcolo), permettendo (in nome di un presunto «bene del paese», di una miope politica di basso cabotaggio) che poteri criminali più o meno occulti, eversivi, si radicassero e rafforzassero fino a dettare le proprie condizioni al paese intero.

La specifica natura della mafia e la sua differenza da altre organizzazioni criminali. L’importanza della rete di relazioni:

«L’esperienza storica indica che la mafia ha colto nei diversi settori economici le occasioni di profitto ma si è anche fatta da parte se la congiuntura era sfavorevole perché non si è mai identificata con essi. Rappresentano per essa risorse assai più rilevanti la continuità storica, il radicamento sul territorio, la forza dei legami interni e la ricchezza di quelli esterni, quel vero “capitale sociale” che consiste nella “capacità di allacciare relazione e costruire reti”» (Salvatore Lupo)

Processo Andreotti. Sentenza della Corte di Cassazione del 2004. Passaggio relativo alla rete di relazioni tra l’entourage politico di Andreotti e la mafia:

«La Corte territoriale ha affermato che il sen. Andreotti aveva piena consapevolezza che i suoi referenti siciliani (Lima, i Salvo e poi anche Ciancimino) intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; che egli aveva, quindi, a sua volta coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; che aveva palesato ai medesimi una disponibilità non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi legislativi; che aveva loro chiesto favori; che li aveva incontrati; che aveva interagito con essi; che aveva loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella; sia pure senza ottenere, in definitiva, che le stesse indicazioni venissero seguite; che aveva conquistato la loro fiducia tanto da discutere insieme anche di fatti gravissimi (come appunto l’omicidio del Presidente Mattarella), nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; che aveva omesso di denunciare le loro responsabilità».

Sostanziale omertà e noncuranza del senatore riguardo alle conseguenze della sua scelta omertosa, interessata e cinica (cinismo politico, calcolo partitico) di avvallare, di fatto, la credibilità, gli interessi, il potere di organizzazioni criminali legate al suo entourage politico, organizzazioni che garantivano il grande consenso elettorale di cui la Dc godeva in Sicilia.

Intervista ad Andreotti sui rapporti tra mafia e Dc, in «Il Corriere della Sera», 17 maggio 2000: «Non ne so molto… Un’esperienza diretta ce l’ha chi ha fatto politica lì. Bisognerebbe chiedere a loro».

«Andreotti rigetta sempre le accuse più gravi al pari di quelle meno compromettenti,  – osserva Salvatore Lupo, – e non fornisce mai un’interpretazione credibile dei fatti cui ha partecipato, per i quali si ipotizza una sua responsabilità, o di cui quantomeno è stato testimone. Ciò vale per il versante finanziario, nazionale e internazionale, della connessione mafia-politica (caso Sindona nda.), come per l’aspetto più propriamente siciliano.

Egli non ha ad esempio idea del perché Mattarella sia stato ucciso. Un’idea invece Lima l’aveva, e la confidò a Evangelisti (fedelissimo di Andreotti nda.) “quando si fanno dei patti vanno mantenuti”… Su Lima non cambia la sua favorevole opinione, e naturalmente non sa formulare nessuna ipotesi sul suo assassinio. “L’amicizia tra Lima e Buscetta – afferma ad esempio durante un interrogatorio – è un fatto che sto apprendendo ora per la prima volta”; invece Evangelisti aveva dichiarato agli inquirenti che la relazione tra i due gli era nota e che lo stesso Lima, parlando con lui, aveva definito Buscetta: “un mio amico, uno che conta”. Peraltro il rapporto tra Lima, Buscetta e l’altro mafioso rampante degli anni Cinquanta, Angelo La Barbera, era già stato evidenziato in numerosi atti giudiziari, nonché nelle relazioni e nelle biografia curate dalla Commissione antimafia (Istituita nel 1962, cominciò i suoi lavori nel 1963 dopo la strage di Ciaculli nda.)…

Estremamente disinformato si dimostra Andreotti per quanto attiene i cugini Salvo, coloro che secondo i pentiti avrebbero mediato insieme a Lima i suoi rapporti con i vertici di Cosa Nostra.

I Salvo erano i maggiori rappresentanti di un ambiguo mondo finanziario siciliano che si collocava vicinissimo ai vertici della politica regionale, da cui avevano ricavato il lucroso ruolo di esattori della Regione. Essi erano molto vicini a Lima e a quanto pare finanziavano la corrente andreottiana. Anche Vitalone ed Evangelisti li conoscevano bene, ma Andreotti, a quanto dice, no.

La Procura ha esibito fotografie… nelle quali il grande statista appare a fianco di Nino Salvo durante un viaggio elettorale siciliano del 1979; alcuni testimoni li hanno visti chiacchierare durante una festa tenutasi in un hotel palermitano di proprietà del finanziere (l’Hotel Zagarella nda).

Andreotti ribatte che in quelle occasioni gli sono state vicine molte persone… di cui non ha saputo il nome né allora né poi.

I magistrati ritengono inverosimile che nessuno dei suoi si sia premurato di presentargli personaggi così importanti (come Nino Salvo, cui per esempio, evidentemente a sua insaputa, il senatore ha inviato nel 1976 un vassoio d’argento per le nozze della figlia nda.) Andreotti risponde che “visti da un’ottica siciliana i Salvo erano persone importanti, ma visti da Roma no…”

Dunque Andreotti rinuncia a difendersi davanti ai giudici e al popolo italiano… Può darsi che il senatore confidi in un’assoluzione, la quale varrebbe a riabilitarlo davanti agli occhi degli italiani cancellando tutte le accuse, quelle penalmente rilevanti insieme a quelle politicamente rilevanti, tutto fuorché, ovviamente, quelle che da Andreotti stesso fossero ammesse come vere.

L’esigenza di una difesa politica prevarrebbe su quella giudiziaria, e sarebbe la prospettiva di poter tutelare la propria immagine a portare il vecchio leader a negare anche l’evidenza. Però io credo che ci sia dell’altro… E come se il senatore ritenesse che i Greco, Riina, Bontade, Lima, i Salvo, Sindona, i pentiti, i morti ammazzati dell’una e dell’altra parte, la mafia stessa non siano poi cose così degne della sua attenzione. D’altronde così pensava un grande notabile liberale come Vittorio Emanuele Orlando (1860 – 1952); solo che la mafia di allora era veramente un piccolo instrumentum regni, non aspirava certo alla gestione diretta del potere politico, non rappresentava un pericolosissimo fattore eversivo…

Andreotti pensa che il grande politico, e la grande politica medesima, attraversino fatti e persone così volgari senza esserne intaccati… Preferisce far credere non solo di non aver fatto, lui, nulla di male, ma che in definitiva non sia successo niente di particolarmente grave.

Andreotti ha controllato per anni i servizi segreti, ha ricoperto le cariche di ministro della Difesa, ministro deli Esteri e presidente del Consiglio, è stato indicato come capo della P2, come capo della mafia, come responsabile di ogni misfatto… Nella raffigurazione che egli dà di se stesso appare invece un uomo tra i più innocenti, tra i peggio informati, soprattutto tra i meno preoccupati d’Italia, indifferente al fatto che il mondo della peggiore macchina politica, dell’affarismo rampante e dei poteri occulti – quand’anche non fosse il suo – ­ è lo stesso nel quale si è rafforzato prima, si è ingigantito poi il fenomeno mafioso». (Salvatore Lupo)

Scrive ad esempio nel suo libro (Cosa loro – Rizzoli editore 1995): «Avevo letto un giorno che era stato arrestato un pezzo grosso della mafia, tal Michele Greco, denominato “il Papa”».

Nota giustamente Salvatore Lupo:

«Il tal Michele Greco è il capo della Commissione negli anni dell’escalation terroristica, il responsabile nominativo di alcune delle cose più terribili successe in Italia nell’ultimo ventennio: del quale Andreotti, sotto processo per associazione mafiosa, ricorda a stento di aver letto una volta il nome su un giornale».

Quel Michele Greco che l’11 giugno 1986 nell’aula del Maxiprocesso pronunciò con cinismo e noncuranza, tra l’altro, parole così: «Le accuse contro di me sono una valanga di fango. I pentiti usati dalla giustizia sono solo dei criminali falliti che per farla franca non esitano a dire falsità e calunnie… Della mafia so quello che sanno tutti…» come a dire: «Della mafia so poco o niente»...

Ognuno tragga le proprie conclusioni: sul passato più remoto, sul passato recente, e sull’odierno corso delle cose in questo nostro paese in cui non c’è macchia che non possa essere adeguatamente candeggiata (a tempo debito).

 

***

Andreotti
di Davide Orecchio

Quando ero piccolo un’automobile mi investì sulla Flacca. Potevo lasciarci le penne ma così non fu e dopo venti giorni mi dimisero. Ma avevo dolore all’addome, una trentina di punti e camminavo gobbo. Una zia che venne a trovarmi in un posto lì sul mare, disse: “Stai dritto, altrimenti sembri Andreotti!” E io: “Chi è Andreotti?” E lei: “Ma come, non sai chi è Andreotti? Guarda, d’estate vive laggiù”. E mi indicò un promontorio lontano, dov’era una villa in un bosco mediterraneo. “Lui è lì. Ora ti osserva. Lui sa tutto.” La zia rideva, ma io mica tanto. Avevo appena imparato Andreotti. Non un uomo – per me. Neppure un uomo politico – per me. Una creatura occhiuta, capace di guardarmi da lontano, vedere quanto soffrivo e approfittarne; e simile a me, curva e sopravvissuta come me. Poi gli anni sono passati, ma quell’impressione è rimasta: l’impressione di aver percepito un occhio che poteva vedermi e sapermi, invisibile. Uno sguardo dal quale mantenermi distante. Il potere.

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7 Commenti

  1. Pochi minuti fa leggevo a mio figlio da Salgari, Il Corsaro Nero:

    “La piazza offriva uno spettacolo così lugubre, da far fremere l’uomo più impassibile della terra. Da quindici forche […] pendevano quindici cadaveri umani. […] Sopra quelle quindici forche, numerosi gruppi di zopilotes e di urubu, piccoli avvoltoi dalle penne tutte nere, incaricati della pulizia delle città dell’America centrale, pareva che non attendessero che la putrefazione di quei disgraziati per gettarsi su quelle povere carni.”

    *

    – Chi siete voi, caballero?
    – Un buon biscaglino che rispetta i morti, ma che sa bucare il ventre anche ai vivi. –

    *

    r.i.p.
    lorenzo

  2. E poi leggetevi con attenzione la storia della Banca Rasini. Perché, come diceva Pasolini: «Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».

    Solo così si può capire la logica perversa che anima l’idea corrente di «pacificazione» intesa come cancellazione di verità storiche, giudiziarie, politiche…

  3. Non è che esistano persone come Andreotti quello che mi stupisce…quello che mi stupisce è che abbia avuto, da vivo, tanto potere e per così lungo tepmo…e che una volta morto gli si diano pure degli onori. A mio avviso una democrazia forte dovrebbe essere in grado di poter dire, senza paura, “questo signore ci ha governato, ha avuto del potere…ma non era degno di averci governato né di aver avuto alcun potere”. Nemmeno la Spagna è stata in grado di giudicare come si meritava Manuel Fraga, antico ministro di Franco…e a posteriori considerato, addirittura, uno dei padri della democrazia…fatto che a me fa pensare che ci sono troppe cose che non funzionano nei nostri paesi.

    • @Mónica, incollo qui sotto un giudizio che lo storico Guido Melis ha postato su Facebook dopo la morte di Andreotti. Equilibrato e serio, proprio il contrario di quegli “onori” insensati:

      «Ma perché quando uno muore, invece di tracciare un bilancio serio e documentato della sua esistenza, si cede sempre a questa insopportabile melassa di buoni sentimenti? Resto stupefatto davanti alle parole, anche provenienti dalle più alte cariche istituzionali, sul senatore Giulio Andreotti. Andreotti – prescindo qui dall’esito del processo sulle sue affinità mafiose – ha rappresentato per tempo immemorabile un certo tipo di potere, sappiamo quale. E la sua intelligenza, che talvolta affascinò persino gli intellettuali (celebre la battuta entusiasta di Renato Guttuso il giorno della sua presentazione alle Camere nel cuore del dramma di Moro), celava in realtà un cinismo di fondo, nel quale si concentrava tutta l’eredità del peggior clericalismo romano e papalino: le virtù? Non bisogna crederci, tanto tutti abbiamo dei vizi, più o meno nascosti; l’amor di ideale? Alla fine quel che conta è la pagnotta; la coerenza? quel che conta è sopravvivere. C’era in lui un che dell’italiano medio così come lo hanno forgiato secoli di servitù e di convivenza con poteri stranieri. Una filosofia spicciola che lo induceva a incontrarsi col fascista Graziani ignorando le stesse radici resistenziali della sua Dc; o magari a farsi rappresentare in Sicilia da Salvo Lima, uomo se non di mafia certamente di frequentazioni mafiose non occasionali. Guardava a destra, ma non era questo il suo difetto: è che guardava a destra (o qualche volta, più raramente, a sinistra) per opportunismo e senza mai farlo con convinzione. Statista, dicono i corifei di queste ore celebrative: statista? Statista è chi nelle ore di punta della storia sa mettersi controcorrente, sa interpretare i tempi nuovi, sa rappresentare un esempio per gli altri. Andreotti è stato una certa Dc: piuttosto che guidare il Paese, meglio assecondarlo nei suoi vizi più deteriori, nulla muovere perché nulla cambiasse, lasciar marcire i problemi piuttosto che affrontarli. Filosofia molto “italiana”, forse. Seguendo la quale siamo arrivati alla crisi profonda, politica e morale, nella quale annaspiamo».

      • Grazie Davide. Dicevano gli antichi “de mortuis nihil nisi bonum”, ma la morte non rende santo, rende soltanto morto. Chi è stata una cattiva persona da vivo lo è pure da morto.

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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