Zero maggio
Alfonso abitava al sesto piano della torre a stella dove vivevo anch’io da ragazzo, a Quarto Oggiaro. Era un operaio dell’Alfa Romeo; si divertiva a raccontarmi di quando era partito da Napoli neppure ventenne e appena sceso alla stazione Centrale di Milano guardandosi attorno si disse, convinto: “questa è la mia città”. Trovò quasi subito lavoro in fabbrica. Il suo caporeparto gli parlava in dialetto milanese e si incazzava se Alfonso (Rossi, un cognome che pare già un luogo comune) faticava a comprenderlo. Per par condicio lui replicava in napoletano, finché, nel tempo, trovarono nell’italiano la lingua franca per comunicare e lavorare al meglio, tutti assieme. All’inizio non conosceva nessuno, ma fra colleghi di reparto, sezioni di partito, riunioni sindacali, nel volgere di poco tempo si sentì già completamente integrato. Qualche mese dopo la sua partenza, la madre dal paese, piangendo di nostalgia al telefono, gli implorò di ritornare a casa. “No – fu la sua risposta – non torno. Qui mi chiamano ‘signor Rossi’, mi danno del lei e rispettano il mio lavoro”. Era uscito dal suo mondo pre-moderno, familista, aveva preso coscienza, sapeva d’appartenere ad una classe in sé e per sé. Erano gli anni Sessanta, gli anni in cui nacqui io, figlio di due immigrati meridionali, sottoproletari e semianalfabeti, che il massimo che potevano augurare al loro figlio era un lavoro come quello di Alfonso, aspirazione autentica di emancipazione sociale a portata di mano. Essere operai, quando ero bambino, era una nota di vanto, era sentirsi parte di una élite, nel cuore di una avanguardia che guardava verso il sol dell’avvenire con fiducia e impegno.
Ad Alfonso piaceva suonare la chitarra. Lo conobbi così, studiando assieme a lui i primi rudimenti dello strumento, io ragazzino, lui uomo fatto. Tornava dal lavoro, smetteva la tuta, una doccia e poi si suonava assieme. E si parlava. Mi spiegò che un proletario deve leggere sia Il Manifesto che il Corriere della Sera, ché quello che pensano i padroni dobbiamo sempre conoscerlo. Mi insegnò la moralità del lavoro, Alfonso. Compresi davvero il significato del primo articolo della nostra Costituzione: una Repubblica fondata sul lavoro. Sulla dignità del lavoro, a voler precisare. I lavoratori erano investiti di doveri onerosi – nei confronti dell’impresa, della famiglia, della nazione – ma erano anche portatori di diritti, inalienabili, conquistati negli anni dai padri, dai fratelli. C’era un giorno per ricordarcelo: il giorno della festa dei lavoratori.
Ricordo le feste del Primo Maggio della mia infanzia. Ricordo il silenzio delle strade vuote, le vetrine abbassate come a Natale, i mezzi pubblici che restavano nel chiuso dei depositi. Ricordo le manifestazioni in centro città, affollate processioni sacre del laicismo proletario. Roba del secolo, del millennio scorso. Le fabbriche hanno chiuso, buona parte dei capannoni dismessi sono stati abbattuti, le aree liberate si sono trasformate in preziose occasioni per eccitare la famelica speculazione immobiliare, il mercato privato ha ridisegnato le città indifferente ai temi sociali, senza una politica pubblica che abbia saputo governare la trasformazione. La classe operaia, dagli anni Ottanta in poi, non è andata in paradiso. È andata in pensione.
Il Primo Maggio sembra ormai solo il giorno di un evento musicale da seguire alla televisione, senza capire esattamente cosa si celebri, in una società polverizzata, indebolita, antisolidale. Oggi – ironia della sorte – si festeggia il giorno dei lavoratori lavorando; in un circolo antropofago autolesionista s’è secolarizzata la sacralità del lavoro per oggettiva perdita della classe clericale, che teneva vivo il culto. Il proletariato, e la sua vitalità di soggetto sociale, è desaparecido. Ciò che resta, e accresce le fila sempre più, è un sottoproletariato straccione e sperduto, troppo simile a quello della mia infanzia, che si barcamena in un mondo del lavoro precarizzato e ferino, che non ha più voglia di festeggiare, perché non possiede nulla, perché è fatto di schiavi senza diritti, nuda vita alla mercé di negrieri finanziari, loro sì davvero internazionalizzati. Il rosseggiare che si vede all’orizzonte non è il sol dell’avvenire, è il tramonto del sogno collettivo.
Temo il buio a venire, temo il gelo.
http://www.youtube.com/watch?v=5Kq-2iWSi3U
“Il Primo Maggio sembra ormai solo il giorno di un evento musicale da seguire alla televisione, senza capire esattamente cosa si celebri, in una società polverizzata, indebolita, antisolidale.”
Un pezzo molto bello. Contraddico però Biondillo su di un punto, forse è un’obiezione che può aprire a un po’ di speranza, poca poca.
Da adolescente, negli anni ’90, il primo maggio di solito per me significava questo: niente scuola, cioè l’eccitazione sottile ma vivida della sospensione della routine, il fermarsi davanti al giorno altro, festivo, con qualcosa – comunque, a dispetto della società dei consumi intorno a me – di sacro. E’ molto difficile da spiegare ma era un sentimento che c’era, credo anche fra altri miei compagni. Accendere la tv e guardare, dalle 16 fino alla fine, il concerto a Roma, era un rituale cui rinunciavo solo per eventuali scampagnate in bici – la solidarietà amicale veniva prima del resto -. Ammirare, da fuori e da lontano, quella folla di coetanei con le bandiere rosse, che ballava e cantava sulle note di tanti musicisti da me amati mi riempiva l’anima. Era un atto di partecipazione, un gesto collettivo e politico. Lo so, c’era la mediazione della tv, in effetti ero solo. Ma era un giorno speciale. Se avessi potuto sarei andato a Roma.
Il giorno della sacertà del lavoro era un bellissimo giorno, di desiderio e di nostalgia di un’azione comune e di un senso di comunità. Lo capiva anche un 16enne individualista chiuso in casa.
Insomma, polverizzato sì, anche indebolito. Però, antisolidale, forse no.
La solitudine individualistica è difficile da negare, però bisogna andare a cercare questi piccoli germi, nel chiuso delle stanze.
[…] Una testimonianza di Gianni Biondillo di cos’era il 1° Maggio un pò di tempo fa. Perchè per noi giovani, operai e non, ha un sapore insipido. Si d’accordo, ne sentiamo la retorica, il profumo nostalgico, ma la poetica collettiva è scomparsa. Al massimo resta una festa musicale, che a mio modesto parere da qualche anno è anche scadente in qualità. […]
‘A fatica
Mi chiamo ‘O Guaglione. Tengo dodici anni ma però mi porto cchiù gruosso. Di mestieri ne ho già ho fatto venti, anzi ventuno se ci metto pure quello quello di fare la spesa alle signore dentro i bassi che la sera e la notte fanno la vita. ‘Oi mà Colomba Mammazezzella però mi ha detto: –Basta, questo non è un mestiere -.
Poi ho fatto ‘o scarparo, il salumiere che porta la spesa alle signore dei palazzi. Quelli che stanno di casa dal primo piano in poi sono tutti signore, mentre giù nei bassi ci stanno le donne che chiamo con il loro nome. Ho fatto il lattaio: mi svegliavo alle cinque di mattina e insieme a don Mimì azzeccacartielli andavamo di casa in casa e di piano in piano. Quando le signore dei piani alti aprivano la porta si sentivano odori diversi dalle case dei piani bassi. Ho fatto il pittore non di quadri ma di case; poi il muratore e l’idraulico. Anche il panettiere e il fruttivendolo. E per una settimana il pasticciere da don Ciccio ‘o chiattone. E mi ricordo che la prima fatica è stato ‘o ferraro, che in italiano le signore di sopra dicono il fabbro. Quando la mattina entrava nella puteca sentivo l’odre del ferro penetrarmi dint’a ll’ossa, poi a fine giornata i vesttiti puzzavano di polvere di ferro. E le mani erano tutte nere sotto e ‘ncopp’. Ma prima di passare e spassare annanz’ a casa, cioè ‘o vascio di Lucia, andavo a casa e mi sceriavo nella bagnarola fino a quando le mani diventavano del colore naturale, anche se sanguinavano. Quando facevo il guardamacchine a scuola non ci andavo più. Tenevo sette anni e mezzo. la prima e la seconda li ho fatte a botte e scoregge e pernacchie. E anche con le sputazzate e i calci nell’aria.
Se c’era qualche mio nemico era di sicuro nell’aria, ma non si faceva vedere e allora tiravo calci e maleparole per colpirlo una volta e per sempre.
Io e la scuola non andavamo d’accordo. C’era qualcosa che in lei non mi convinceva. I maestri stavano sempre dall’altra parte. E dall’altra parte era una cosa sempre distante e lontana. Ti guardavano con quelle facce di chi sa il tuo nome e cognome ma non ti conosce. E non vuole conoscerti. Quando suonava la campanella dalla scuola elementare uscivo per sempre: un addio senza fine.
Se oggi scrivo è per un mistero; il mistero della storia. Per capire la storia, e dico la storia orale, guardavo le foto dei morti di famiglia e quelli dei miei cumpagnielli nelle loro case, cioè i bassi. Quando quelli dei bassi tenevano il mazzo smafarato che si affittavano una casa ai piani superiori, ma subito si vedeva che venivano dai bassi:
dentro la casa era tutto rovinato e scassato; parati, sedie, mobilio e anche i piatti per mangiare tutti scardati torno torno. A ‘vierno, quando faceva freddo e pioveva andavamo in cerca insieme ai miei cumpagnielli della banda in cerca del ferro, dell’allumini, del chiummo e d’a ramma, mettevamo tutto in una borsa e lo portavamo da don Gennaro ‘o sapunaro che poi tirava sempre sul prezzo, ma noi alzavamo il prezzo e dicevamo che la prossima volta ‘a robba la portavamo dal suo nemico, don Rafele Baffone, che in verità era ‘nu mariuolo ancora peggio. Noi però facevamo tutte quelle cose anche per guadagnare tempo: don Gennaro teneva la figlia di quindici anni che era ‘na cerasella bell’assaje; ognuno di noi la guardava a bocca aperta. prima di andarcene don Gennaro ci pagava e diceva: – Chiudete a vocca ca ce vanno le mosche – Ridevamo, ma poi diventavamo rossi come
i cerasielli. Cenzina ‘a cerasella teneva ‘o culo a mandulino e ddoje mummarelle pe’ zizze: sai lo spasso a toccarle e baciarle. Essa, salutava e rideva. Marò che ù bellizze. In estate andavamo giù alla litoranea a tuffarci per vedere sotto le barche e tra gli scogli ragni felloni, cozze, vavose, marvizzi, pintarrè, mazzoni e scorfani.
Quando non lavoravo insieme agli altri facevamo la guerra alle altre bande dei vicoli. Oppure facevamo ‘O vient’e terra. Correvamo in gruppo da un capo a l’altro del vicolo gridando ‘O vint ‘e terra e mandando all’aria tutto quello che trovavamo lungo la nostra corsa. Le parolacce e le jastemme che ci lanciavano le donne erano erano arrabbiate e feroci, perché se ci prendevano ci facevano il mazzo rognole rognole.
Ma però, dovevo portare i soldi a casa per due motivi:1) non andavo a scuola, e se non andavo a scuola, dovevo imparare un mestiere;2) in famiglia compresi i due nonni materni eravamo in tredici. A Colomba Mammazezzella l’ultimo di noi, che poi erano gemelli, li fece a quarantasei anni e spesso amava racconatare. -E dire che avevamo tolto tutto di mezzo . – Io sorrideva ma tra me pensavo: – Oi mà, ma non tenevate nemmeno ll’uocchie pe’ chiagnere. Per esempio la culla non era mai esistita. L’ultimo che nasceva girava come un sacco di patate tra un letto e l’altro.
Ma io vado a faticare dove mi pagano di più. Per esempio fare il guaglione del bar che porta i caffè tra i negozi e le puteche si guadagnano le mazzette. Poi se tieni la parlantina e ci sai fare ti prendono in simpatia e ci esce sempre qualche mancia in più. A me mi chiamano Ze pochiello ‘o bellillo. Ho gli occhi neri e i capelli ricci. Quando rido, ridono anche gli altri, comprese ‘e femmene piccerelle e quelle più grandi che lavorano come orlatrici e revettatrici nelle puteche dei calzolai.
Mò per trovare ‘a fatica ce vò la mano di Dio, almeno accussì diceno. Ma io dico ca dio nun ce azzecca niente. Sta scritto ca ‘o lavoro nobilita l’uomo, ma allora ‘e chisti tiempe ce stanno cchiù bestie ca uomini. Niente lavoro, niente nobilità e dignità. Io invece conosco bestie che sono mille volte meglio degli uomini e gli uomini che sono peggio ma peggio assai ‘e ll’uommene assatanate di denaro, specie ll’uommene d’o potere di un sistema che fa acqua da tutte le parti.
Don Peppe ‘o masterascio mi ha chiesto se gli davo una mano a portare la borsa dei ferri del mestiere dalla sua puteca a un basso poco lontano. Una volta arrivati mi ha detto:
– Grazie Guagliò –
– Fesserie di cafè don Peppì – ho risposto, ma lui ha ripreso:
– Te cunosco da quando stavi in fasce e me ricordo pure di pateto. Te voglio dà ‘nu cunsiglio: parte, vattenne fora, và a Torino o a milano; là truove fatica e rispetto. –
Grazie del testo…quanto è triste che siano vere le parole che hai scritto…
Nostalgia, nostalgia canaglia. Diventiamo vecchi, caro Gianni. Ma se ci penso, quando tu conoscevi Alfonso Rossi (e io un certo Mario Scandroglio, trasfigurato in Ettore Crivelli) l’inconcludenza di certi primi maggi c’era già tutta in potenza.