Gli scrittori sullo schermo e Nella casa di François Ozon
di Giuseppe Zucco
Si sa, gli scrittori sono esemplari romantici: così il cinema, quando non è impegnato nella caccia al retino della propria figura romantica per eccellenza, cioè il regista (ultimo capofila, Hitchcock), mobilita schiere di professionisti e maestranze per catturare e offrire al pubblico il visino pallido, tendenzialmente deperito ma luciferino, di un asso della penna.
Ovviamente, sfogliando l’albo mondiale della letteratura, esiste una quantità di scrittori la cui vita avrebbe i numeri giusti per finire sul grande schermo – e infatti, negli ultimi decenni, sono fioccati i biopic più o meno verosimili di Edgar Allan Poe, Truman Capote, Charles Bukowski, William Shakespeare, Virginia Woolf, Francis Scott Fitzgerald. Ma non occorre scomodare i mostri sacri. Le pose di uno scrittore standard invogliano di per sé all’allestimento di un film. Andando a braccio, ce n’è per tutti: dallo scrittore che si fa possedere da oscure forze demoniache (Shining, 1980), a quello bohemien e squattrinato che scrive per assicurare a sé la donna dei propri sogni (Moulin Rouge!, 2001), a quello che svela gli intrighi del potere e ci resta secco (L’uomo nell’ombra, 2010), a quello che svela gli intrighi dello star system e non ci resta secco (False verità, 2005), a quello rintanato e misantropo che torna a nuova vita seguendo le qualità di un allievo piovuto dal cielo (Scoprendo Forrester, 2000), a quello rapito e tagliuzzato senza misericordia da una lettrice accanita e vendicativa (Misery non deve morire, 1990), a quello mentalmente disordinato e interrogato per ore da un commissario a causa di un omicidio (Una pura formalità, 1994).
In un’epoca in cui si legge sempre meno, in cui anche i lettori forti appaiono sufficientemente impallinati dalla crisi, circola sempre più nell’immaginario collettivo il fantasma dello scrittore – una forma di nostalgia che ha più affinità con gli alieni, cioè con proiezioni fantastiche irraggiungibili, che con il vissuto ordinario, disciplinato e regolare di un uomo o una donna che passano ore e ore a schiacciare tasti e allungare stringhe alfanumeriche sulla rappresentazione virtuale di un foglio di carta. Catturato nell’ambra della vita quotidiana, lo scrittore non garantirebbe plot né chissà quale avventura: i fatti più entusiasmanti sono gli schiocchi infinitesimali che accadono tra le sue sinapsi mentre allinea le parole giuste per comporre un libro e/o un mondo. Ma è impossibile filmare quel momento, o quanto meno metterlo in scena con precisione: lì non ci si arriva se non per continue e sempre provvisorie inferenze e avvicinamenti, risalendo le pagine delle sue opere. La vita esteriore di Kafka o Nabokov, per dire, trasposta in un film, suonerebbe parecchio gracile e noiosa – del tutto indipendentemente dagli eventi, rimirando quelle esistenze, succubi della mitologia di una vita straordinaria a cui tendiamo senza sforzo, viene più facile immaginarla come un turbinio.
L’ultimo film-turbinio su uno scrittore s’intitola Nella casa, e l’ha diretto François Ozon. La storia, senza tentennamenti, scatta in velocità: Claude, studente sedicenne del liceo Flaubert, ha un talento, la scrittura. Scrive temi, nient’altro – ma ogni tema sembra il capitolo di un romanzo in cui la famiglia dell’unico coetaneo che frequenta, Rapha, viene passata ai raggi x. Germain, il professore di letteratura francese, legge i temi, rimane sorpreso e sprona Claude a seguire la strada di un realismo spinto, tanto che Claude, con un accanimento crescente di tema in tema, si infila tra le maglie della famiglia e conquista uno a uno figlio, padre, madre con lo scopo di avere un quadro sempre meglio definito delle loro relazioni. Il film fila come un’educazione sentimentale, ma poco per volta diventa un thriller: e così mentre Germain si appassiona sinistramente alle storie di Claude e Claude scivola sempre più in profondità dentro il cuore borghese della famiglia di Rapha, entrambi arriveranno a mettere un doloroso punto a capo alle loro vite.
Il film, nonostante la girandola sfiancante dei colpi di scena, e la colonna sonora incontinente che fodera tutte le superfici della pellicola, ha un pregio: Ozon, tranne che per la scrittura di una lettera per il giornale studentesco, non inquadra mai Claude mentre compone i temi. La scrittura è costantemente messa in scena: se Germain e la moglie leggono a voce alta il tema, Claude diventa il voice over dell’ispezione minuziosa alla casa e ai suoi inquilini – una soluzione che illumina subito l’ossessività di Claude e la morbosità della coppia Germain, e che ci risparmia una delle più grandi pose dello scrittore standard, la scena che avrete visto mille volte e che conoscerete ormai a memoria, dove lo scrittore scrive, cancella, si alza, strappa nuovi fogli ancora, circondato da innumerevoli palline di carta, uno spaventoso blocco creativo che in Shining Kubrick aveva genialmente spostato nella risma di fogli impilati con cura al lato della macchina da scrivere, tutti attraversati dallo stesso ossessivo righino nero, il mattino ha l’oro in bocca.
Resta da capire che genere di scrittore sta puntando il dito contro la borghesia francese, perché una cosa è chiara: quando un film dipana la vita di uno scrittore, e illumina la costruzione di un’opera letteraria, dieci a uno sta propagandando una certa idea di letteratura, un’idea normativa di letteratura, di cosa la letteratura dovrebbe o non dovrebbe fare. Claude è uno studente, siede all’ultimo banco, osserva gli altri senza a sua volta essere osservato – con le stesse modalità, penetra nello spazio privato di una casa, rovista le sue stanze e, senza alcun dilemma etico, studia la fattura e la disposizione degli oggetti quotidiani e si impossessa delle abitudini, ripugnanti e per questo così modeste e umane, dei suoi inquilini. Nelle ricognizioni segrete di Claude, nella loro riproposizione letteraria, regna il distacco assoluto, e se pure è presente qualche momento di mimesi, di confusione dolorosa tra quelle ricognizioni e la sua vita, è solo perché s’innamora in modo adolescenziale della madre di Rapha – amore che almeno in una scena, quella dove la madre di Rapha, distesa sul divano, è ripresa dalle unghie laccate dei piedi agli occhi chiusi sotto lo sguardo rapito di Claude, Ozon gira come se fosse un remake di Lolita a parti invertite (tra l’altro, il professore di letteratura francese si chiama Germain Germain proprio come Humbert Humbert, e la madre di Rapha è quanto di più vicino alla bellezza vacua e ormai avanti negli anni di Dolores Haze).
Claude, a questo punto – e Germain potrebbe andarne fiero, gli insegnamenti e le letture che impartisce filano in questa direzione – sarebbe uno scrittore realista. Osserva con distacco quanto accade nella casa, studia con freddo rigore i comportamenti dei suoi inquilini, ripropone in modo calligrafico gli eventi principali ricollocandoli nella cornice di un tema, e in coda a ogni tema, per accrescerne la suspense, allunga l’ombra carica di incognite e di oscuri presagi di un continua.
Ma è realismo questo? Prendendo per buona la definizione che ne dà Walter Siti, avremmo qualche dubbio. Scrive Siti nella seconda pagina de Il realismo è l’impossibile: “Il realismo, per come la vedo io, è l’antiabitudine: è il leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale – mette in dubbio per un istante quel che Nabokov (nelle Lezioni di letteratura) chiama “il rozzo compromesso dei sensi” e sembra che ci lasci intravedere la cosa stessa, la realtà infinita, informe e impredicabile. Realismo è quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà […]”. Ecco, a guardare bene, nella scrittura di Claude non c’è traccia di questa antiabitudine, né tantomeno la descrizione impietosa della famiglia di Rapha accoglie qualche illuminazione che piega le sbarre della nostra stereotipia mentale. In fondo, appare già tutto ampiamente visto e codificato: e così alle pose di uno scrittore standard che desidera cogliere la realtà nel suo divenire, segue un adolescente ricco ma tarato con tendenze omosessuali, un padre molto parvenu che tenta con piccoli e miseri mezzi di arricchirsi ancora, una moglie insoddisfatta della propria vita e dell’arredo del proprio appartamento con qualche velleità artistica, un professore di letteratura che un tempo ha scritto un romanzo ma con scarso successo, una moglie del professore che dirige una galleria d’arte contemporanea al solo scopo di vendere le opere e garantirsi la stagnazione perpetua dentro i confini di una classe sociale in cui ha stipato la sua esistenza. Una borghesia da operetta, in fondo, nel cui mondo, la realtà, piuttosto che lasciarsi cogliere impreparata, è preparata da tempo.
Nonostante ciò, perdura la sensazione che Claude sia in tutto e per tutto uno scrittore realista. Anche se il modo in cui Claude sbozza la massa informe della realtà, stilizzandola in una figura già riconoscibile, non sembra trovare precedenti nella tradizione letteraria, ma nella logica di un altro mezzo, la televisione – del resto, per tutto il film, Claude non esibisce alcuna preparazione letteraria, anzi ne sembra piuttosto asciutto, sarà Germain a somministrargli in corso d’opera i romanzi che potrebbero soccorrerlo nel suo apprendistato. Due sono gli indizi più forti: il fatto che Claude osservi senza essere visto gli abitanti di un luogo chiuso come una casa, e l’evidenza che i temi si chiudano tutti con un identico espediente, quel continua. Insomma, è come se la scrittura di questo adolescente, la cui formazione deve qualcosa in più alla televisione che ai libri, fosse un pendolo che oscilla tra le forme di un reality e quelle di un serial televisivo. D’altra parte, Claude si muove all’interno della casa con la stessa invisibile discrezione di una telecamera sul set di una edizione del Grande Fratello, e quel continua, che in gergo televisivo verrebbe etichettato come cliffhanger, non ricorda nient’altro che il rito straziante con cui finiscono e danno l’arrivederci ai telespettatori le puntate di una telenovela o di una soap-opera, sempre in corrispondenza di un colpo di scena o di un climax narrativo.
Ecco che in un attimo si svela il nume tutelare di questo realismo: non tanto Gustave Flaubert, come il film tenta ossessivamente di suggerirci, ma John de Mol, l’inventore multimilionario del Big brother, il format olandese che ha mutato per sempre il destino della comunicazione. Questo realismo, infatti, perfettamente in linea con quanto propone Claude, è di tipo conservatore, non si pone mai l’obiettivo di cogliere impreparata la realtà, piuttosto propende a confermarla, a renderla persistente nelle sue stereotipie, a chiuderla una volta per tutte dentro quei modelli e quelle consuetudini che in modo molto elegante e consolatorio chiamiamo spirito del tempo. Un realismo che organizza, predispone e struttura la vita quotidiana dei propri protagonisti nella trama di una proposizione morbosa delle loro avventure sentimentali e corporali. Il tipo di realismo che non eleva mai in universale il particolare, ma che rincorre i particolari, di tutte le taglie, rovistando nel cassonetto dei tic e delle manie. Ed è proprio questo che incanta più di ogni altra cosa la coppia Germain: non tanto lo stile e la lingua dei temi di Claude, quanto la possibilità di essere fino in fondo dei voyeur senza correre alcun rischio – che, in fondo, allargando il raggio dalla televisione ai new media, è la strettoia in cui ci infila l’uso mai troppo ingenuo dei social network.
“Se dovessi trovare, per il realismo per come lo intendo, un verbo riassuntivo, indicherei il verbo sporgersi”, scrive in chiusura di saggio Walter Siti. Ma alla fine del film, anche se non si rivela subito alla coscienza dello spettatore il senso di colpa per essere stato piacevolmente sedotto da un realismo conservatore, tutti tirano un passo indietro: la famiglia borghese si ricompone felice, Claude e Germain fantasticano di scrivere con il sorriso sulle labbra, la realtà a cui si ispirano da modello diventa definitivamente una copia pacificata, tutta la tensione irrisolta del conflitto svanisce di colpo. E anche la letteratura, di cui il film doveva darne una versione attraverso il ritratto di uno scrittore sedicenne, alza la manina e fa ciao ciao.
[Le citazioni sono tratte da Il realismo è l’impossibile, di Walter Siti, nottetempo, pp. 8 e 79]
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a me il protagonista del film è sembrato uno “scrittore realtà”, più che uno scrittore realista o un creatore di immaginari da reality, come tu segnali in modo suggestivo. C’è sicuramente quell’aspetto: il voyeurismo, lo sguardo da Grande Fratello. Le riprese domestiche in effetti ricordano quello, hai perfettamente ragione. Ma non ti sembra che il giovane scrittore vada oltre? Non si limita a guardare, mostrare, e neppure a un’interazione col telecomando, appunto da reality. Entra nella storia, scrivendola la riscrive, ossia scrive la realtà e la interpreta allo stesso tempo: bacia, è picchiato, racconta. Provoca, col suo racconto/vita, conseguenze che modificano l’esistenza di tutti. Mi dirai: è ovvio che lo faccia, è il personaggio di un film. Ma forse c’è qualcosa di più. Forse c’è uno scrittore di autofinzione che racconta la storia nel tempo esatto in cui la vive, che anzi non avrebbe alcuna storia da raccontare se non ci entrasse dentro anche lui.
secondo me, di autofiction c’è poco: se non ricordo male, claude, lo scrittore in erba, non diventa mai personaggio dei suoi temi. la scena del bacio, la scena della rissa, sono dentro il film, ma non nel work in progress dell'”opera letteraria” che porta avanti.
più che altro, potremmo etichettare l’insieme dei temi come un’opera no-fiction: claude, come dici tu, racconta la storia nel momento esatto in cui la vive e riporta nei temi esclusivamente quanto vede. il che ci riconduce alla questione delle forme del reality: anche lì c’è questa pretesa che l’occhio delle telecamere sia neutro e distaccato rispetto alle persone e agli eventi che mette a fuoco. mentre è palese che sia i claude sia i reality, proprio come sostieni tu, manipolano la realtà, la interpretano, la riscrivono.
ma come distinguere l’opera di claude da quella del reality? è qui che entra in gioco il realismo e la letteratura: perchè i reality piegano a proprio vantaggio la realtà solo per restituire una storia morbosa dei corpi e dei sentimenti e agganciare su questo piano lo spettatore, mentre la letteratura e la poesia, come diceva foster wallace, “riescono a farmi sentire umano, a eliminare quel senso di solitudine, a mettermi profondamente e significativamente in comunicazione con un’altra coscienza, in una maniera del tutto diversa da quanto riescano a fare altre forme d’arte”. proprio per questo, secondo me, poichè non riesce a cogliere impreparata la realtà, né a restituirci nulla di nuovo se non figure già codificate, claude è più vicino alla “reality television” che alla letteratura.
d’altra parte, dato che la storia suona più o meno simile, anche se con esiti esattamente opposti e conservatori, questo film potrebbe tranquillamente essere definito come il rovescio della medaglia di “teorema” di pasolini:
http://it.wikipedia.org/wiki/Teorema_(film)