Pesce di lago per il pranzo della domenica

lago_trasimeno
Particolare da Pietro Barucci, Ansa del lago Trasimeno con personaggi e animali, fine ‘800

di Giovanni Dozzini

Una domenica mattina d’inverno di quarant’anni fa arrivò con la sua Seicento e si prese subito a male parole con mio cognato, che a quel tempo era uno dei camerieri del ristorante e ormai da un pezzo fa compagnia alle anime dei nostri vecchi al camposanto. Scese tronfio e grasso come un pachiderma, si tolse gli occhiali da sole e chiese urlando se qualcuno gli potesse preparare un tavolo per pranzare in fretta, anche se era solo mezzogiorno. Lo fece senza prima salutare ed entrò senza pulirsi le scarpe infangate sullo zerbino, ed è per questo che mio cognato, uno che in un quarto di secolo passato a sopportare gente d’ogni genere avrà espresso tutto il suo disappunto alzando sì e no un paio di volte il sopracciglio, ebbe da ridire e si sentì apostrofare bruscamente. Parlo solo col padrone, gli disse, e passò oltre e camminò fino al bancone del bar, su cui fece risuonare il colpo sordo del suo grosso palmo di mano. Io ero in cucina e capii poco o niente di ciò che stava succedendo, e quando venni fuori quello cominciò a gridare e ad alzare le braccia al cielo e a dire che gli avevano raccontato che in nessun altro posto si mangiava un pesce di lago cucinato bene come da noi, e che si felicitava, e che voleva un trattamento speciale, perché era il primo cliente della giornata ed era partito dalla città senza aver nemmeno finito di prendere messa.

Con quel fango sulle scarpe in chiesa non metteva piede da cent’anni, altroché, però non mi diede neanche il tempo di aprir bocca e mi prese sottobraccio e mi trascinò fino al primo tavolo, chiedendomi insomma com’era andata, la storia di questo mio ristorante, col babbo che appena finita la Grande Guerra andava a caccia di rinoceronti nell’Africa nera e intanto la mamma, questa mamma popolarissima dalle mani incantate, sfamava passanti e gente del luogo e li mandava in visibilio con le sue zuppe e le sue pastasciutte di tinca. E mi fece sedere con lui, m’avrebbe offerto un pranzo coi fiocchi, si legò il tovagliolo al collo e chiamò a gran voce mio cognato per dirgli di non essere troppo permaloso, perché chi lavora al pubblico deve essere pronto a tutto e a intendersela con tutti, e ordinò una delle bottiglie più care di bianco e tra una portata e l’altra brindammo tutti e tre, e pareva ci conoscessimo da sempre. Io ero nel pieno del mio vigore, nel mezzo della vita, e non sapevo se proseguire per sempre col ristorante o lasciarlo a mia sorella e prendermi la licenza di buttarmi in qualche altro genere d’impresa, e quando lui tornò, la domenica successiva, glielo confidai, incoscientemente, come si fa con certi sconosciuti presi subito in simpatia, e mi lasciai convincere in un’ora a tenermi stretto ciò che avevo.

Non si perse una domenica fino a Pasqua, e poi ricominciò come prima, tutte le settimane senza mancare mai. Lo vedevo arrivare sempre alla stessa ora, poco prima o poco dopo mezzogiorno, e una volta scese dalla macchina bestemmiando e si fiondò al rubinetto dell’acqua del cortile e cominciò a srotolare il tubo di gomma verde senza chiedere né spiegare, e schizzò contro il paraurti e la ruota davanti, quella dalla sua parte, a sinistra, e poi rimise il tubo a posto e chiese altra acqua, ma da bere, a mio cognato. Aveva investito una volpe lungo la discesa dal castello, il sangue della bestia gli aveva insozzato la Seicento, e chissà cosa ne era rimasto nel motore. Quel giorno faticò a mangiare il pesce, dopo la pasta di tinca mi chiamò e mi domandò se non avessimo un po’ di pane bruscato da fare con l’olio, saltò l’arrosto e mandò giù due porzioni della zuppa inglese che mia madre aveva imparato a fare dopo la guerra, quando andava a servizio da una famiglia di ebrei che aveva preso a nolo una casa dell’isola grande e ci passava tutte le estati, a far la lotta contro le zanzare del lago mentre la città andava a fuoco.

Ogni tanto pranzavo con lui, e quando rimaneva da solo metteva su uno sguardo curioso e divertito che lasciava vagare in continuazione, ma con grande lentezza, da un angolo all’altro della sala. Guardava le famiglie, guardava le coppie senza figli, guardava i vecchi e gli sparuti uomini d’affari che magari si trattenevano in città per il fine settimana e venivano spediti a mangiare da noi dai portieri degli alberghi del centro o della stazione. Gli altri apparivano quando lui era già alla seconda portata, ma poi sembrava quasi trovare gusto nell’attesa, e ci faceva sempre cenno di aspettare a portare frutta e dolce e cordiale, perché aveva da contemplare, e da rifletterci su.

Ricordo bene il giorno che si trovò per vicino di tavolo un tedesco grasso quasi quanto lui, coi capelli corti e bianchi e una barbetta ancora più bianca, quasi da capra. Per una qualche volontà del caso o per una propria determinazione, gli si era seduto dirimpetto, ognuno al suo tavolo rotondo, con davanti nient’altro che il candore delle tovaglie e il clangore delle posate che battevano contro gli ossi di pesce e il coccio dei piatti. Lui lo guardava con meno sfrontatezza del solito, perché il suo sguardo adesso era nudo, mentre l’altro di quando in quando sollevava gli occhi piccoli dal piatto e dava l’impressione di accennare un ghigno di saluto. A un certo punto ruppe gli indugi sollevando in alto il bicchiere pieno di bianco e scoprendo denti minuscoli e numerosissimi, e lui gli rispose col suo bicchiere e i suoi denti di pietra. Io li osservavo da dietro la vetrata che allora separava la sala dal bar, fumavo le mie sigarette e mi divertivo come lo spettatore di uno spettacolo insolito e inatteso.

Il tedesco stava a pensione dalla madre di una nostra cameriera, nella parte più alta del paese, ed era già il quarto o quinto giorno di fila che veniva a pranzare da noi prima di passeggiare per un’oretta sul lungolago. Un paio di volte l’avevo visto salire su una barca e farsi traghettare fino all’isola grande – la nostra era ancora proprietà del conte e la Provincia se la sarebbe ripresa giusto alla fine di quell’anno – da cui faceva ritorno a sera stanco ma allegro. Non cenava da noi, si portava giusto un po’ di pane e formaggio in camera, e il giorno dopo lo rivedevamo ricomparire per l’ora di pranzo.

Quella domenica i due, il tedesco e il mio amico, non scambiarono parola, ma poi il crucco rimase un’altra settimana e la volta successiva si sedettero allo stesso tavolo. Mi invitarono a mangiare con loro ma mi trattenni solo a brevi frangenti, e l’italiano del tedesco era articolato e ricco, di una lentezza squadrata che imponeva, perentoria, un’attenzione maggiore di quella che si sarebbe potuta prestare solitamente a interlocutori più comuni. Parlammo di caccia e di pesca, e della sua passione per una specie d’uccello che io non avevo mai sentito nominare ma che lui giurava abitasse l’isola grande: doveva trattarsi di una sorta di germano reale, ma più piccolo e schivo, e alcuni esemplari vivevano nelle insenature più all’ombra. Il mio amico annuiva profondendo meno parole del solito, attratto e quasi ammaliato da questo personaggio esotico, vestito di lino chiaro e di cravatte coloratissime, che per un tipo come lui doveva rappresentare un’assoluta novità. Per me no, perché i tedeschi avevano cominciato a fare i turisti al lago già da qualche anno, e non era la prima volta che mi imbattevo in un viaggiatore solitario di una fatta simile.

Anche quel giorno s’allontanò subito dopo aver finito di pranzare, attraversò la strada e si fermò per qualche istante sulla riva, come indeciso su da che parte andare. Lo vidi guardare prima verso il castello diroccato e poi verso i colli toscani, e poi sollevare il mento e gli occhi al cielo, a scrutare qualche volatile che giocava coi venti del lago. Quindi s’avviò verso il porticciolo, e quando chiesi al mio amico di cosa avessero discusso per il resto del pranzo, tutto quel tempo, lui mi disse che non lo sapeva più, con esattezza. Della Germania, mi disse, più che altro della Germania e di certi filosofi tedeschi. Era giugno ma non faceva ancora caldo, e l’uomo della Seicento rise e bevve l’amaro d’erbe preparato da mia sorella, e mi diede appuntamento alla domenica successiva.

Invece non venne. Il tedesco era ripartito il lunedì, era passato a metà mattina e aveva salutato augurandoci buona fortuna, e quando la domenica lui non si presentò mi parve una strana coincidenza. Trascorsero altre settimane, la bella stagione si consumava e il ristorante si riempiva di gente tutte le domeniche, ma tra la gente lui non c’era più. All’inizio avvertii una specie di disappunto, come se l’uomo avesse tradito la nostra nuova amicizia senza nemmeno sentire l’esigenza di dare spiegazioni: non tutti i clienti erano uguali, e con lui le cose avevano preso da subito una piega particolare. Poi, pian piano, la delusione lasciò il posto alla preoccupazione. Però non avevo modo di rintracciarlo, conoscevo a malapena il suo nome, sapevo che lavorava nelle costruzioni ma non mi era mai riuscito di capire fino in fondo cosa facesse di preciso, e ovviamente non avevo idea di dove vivesse, né in quale strada né in quale parte della città.

Un giorno di fine luglio andai in città per contrattare una partita di formaggi con un vecchio fornitore che m’aveva chiamato per propormi un affare vantaggioso, e non appena ebbi concluso quel nostro incontro mi misi a camminare per le strade del centro nella ingenua illusione di imbattermi in lui o nella sua Seicento da un momento all’altro. Percorsi l’alberata tortuosa che saliva sopra la rocca, attraversai i giardini, mi infilai nel corso e arrivai fino alla fontana, sempre guardandomi intorno con fare circospetto, quasi fossi un fuggiasco o uno sbirro su cui si riversassero inevitabilmente gli occhi di tutti, poi presi un caffè a un bar di fronte al duomo e mi spinsi a un passo dal domandare al barista se per caso non conoscesse un uomo che possedeva un tale nome, una tale corporatura e un tale carattere. Non lo feci. Me ne tornai al lago e a mezzogiorno ero già al ristorante a scaricare i formaggi.

Inaspettatamente, l’uomo si rifece vivo la domenica seguente. Piombò vociante nel cortile come al suo solito, e farfugliò ragioni confuse ben presto superate da racconti e sproloqui di vario genere, gli stessi di sempre, la stessa enfasi di prima, la stessa burbera allegria. Noi non chiedemmo di più, anche se dentro di me non smisi per un bel po’ di rimuginare e cercare spiegazioni che non potevano essere logiche, e agosto e settembre trascorsero senza altri imprevisti – non vederlo al suo tavolo per un pranzo della domenica oramai lo era a tutti gli effetti. Mangiava la tinca e la carpa regina, o il persico, mangiava il tegamaccio, si divorava piattate di fagiolina e, questo invariabilmente, trangugiava i suoi quartini di bianco dei colli. La sua botte di pancia sembrava sempre più tirata, e la prima domenica di ottobre si presentò con uno sguardo meno acceso e un appetito in sordina: tre giorni prima s’era sentito poco bene, e il dottore gli aveva imposto sacrifici dolorosi. Niente vino, quindi, e meno da mangiare. Non aggiunse molto, e il pranzo non fu il solito baccano, ma una settimana dopo sembrava aver già dimenticato quanto era successo, e sicuramente disattese i consigli del medico.

Poi, per il ponte di Ognissanti, l’autentica sorpresa. L’ultimo giorno di ottobre, era un mercoledì, a sera, fece capolino dalla vetrata il tedesco barbuto amante degli uccelli migratori, e dopo aver salutato cordialmente chiese di poter cenare. Dormì nella solita stanza sul crescere del monte, e l’indomani mattina convinse un pescatore a condurlo in un breve giro nella nebbia del lago. Mio cognato, che mi si era accostato sulla soglia asciugando una grossa brocca di vetro con uno strofinaccio, protestò, disse con una nebbia simile persino i pesci si sperdono nell’acqua, e aspettammo, nel fare quel che avevamo da fare, tutti con una certa apprensione il ritorno del due remi. Quella gita non durò molto: il pescatore aveva abbastanza esperienza da non correre rischi inutili per i tre soldi di mancia che gli aveva promesso il crucco, e quello, con la sua mitezza, s’era accontentato senza fare troppe storie. Pranzò da noi, e non lo rivedemmo, tra la nebbia e il buio precoce dell’autunno, fino al giorno dopo a metà mattinata, quando si rimise a cercare il pescatore, ma senza trovarlo. Con una certa concitazione vagò lungo la riva e nel porticciolo, quindi venne a interrogare anche noi, ma la nebbia era ancora più fitta di ieri, e nessuno volle fargli da nocchiere. Non si perse d’animo, e trascorse il resto della mattina al caffè della piazza, mi raccontarono, a bere latte caldo e a leggere i suoi libri tedeschi.

Poco dopo mezzogiorno, però, avvenne quello che lì per lì ritenemmo tutti un fatto strabiliante. La Seicento rombò nel cortile fendendo la nebbia, e il mio amico mise piede nel ristorante per la prima volta in un giorno diverso dalla domenica. Fece mulinare le braccia in segno di saluto a tutta la ciurma, chiese di stringere le mani sapienti di mia madre, come faceva di tanto in tanto, e si mise a sedere al suo tavolo. Dopo essersi sistemato il fazzoletto sul bavero, però, si alzò e prese piatto e bicchiere dal tavolo vicino, e li poggiò sul suo, dirimpetto alla sua seduta. Mio cognato se ne avvide e subito si precipitò a completare l’opera con posate e fazzoletto, evitando di chiedere ciò che in fondo era già chiaro. Il tedesco in effetti giunse in capo a pochi minuti, e fu una gran cerimonia di abbracci e schiamazzi, cui assistemmo con incredulità e allegria. Forse, per assurdo, il fatto più curioso erano i loro vestiti pesanti, che restituivano un’immagine così diversa da quella a cui ci avevano abituati in quelle due uniche domeniche di giugno che ai nostri occhi avevano in qualche modo condiviso. I colori, più scuri, e soprattutto l’ingombro e la stessa consistenza: il quadro era per forza più buio, ma anche più intenso.

Mi chiamarono per un primo brindisi, poi li lasciai mangiare e nelle faccende restai in muta contemplazione di quel loro impensabile patto. I mesi d’assenza dopo la partenza del tedesco, quel pranzo concordato, forse lo stesso ritorno del mio amico dopo il mio giro in città, improvvisamente niente sembrava più essere frutto della coincidenza. Dopo il pesce chiesero la zuppa inglese di mia madre, e dopo il caffè un cordiale, e nel frattempo m’avevano reclamato almeno dieci volte, si sieda un po’ con noi, diceva il crucco, ci regali, anzi elargisca, un po’ della sua compagnia, così gradita, e io ascoltavo i loro discorsi, ancora uccelli, ancora storie di caccia, e poi racconti di terre lontane viste o immaginate, e considerazioni sulle religioni germaniche, la Bavaria non è esattamente Germania, da questo punto di vista, l’alito caldo dei latini c’è sempre arrivato fino all’anima e questi, e così dicendo l’uomo indicava se stesso allargando i palmi e le dita delle mani, sono i risultati.

Finirono, si alzarono da tavola, e uscirono in cortile a fumare delle sigarette che il mio amico aveva tolto dalla tasca della giacca, e prima che l’ultima boccata si consumasse il tedesco armeggiò con una piccola sporta di pelle che s’era portato dietro e ne tirò fuori un involto che diede nelle mani dell’altro. Li vidi ridere, felici, vidi pacche sulle spalle e un accenno di abbraccio che fu coperto da una famiglia di clienti che stavano lasciando il ristorante, quindi, quando dopo aver portato le ultime consegne ai cucinieri uscii anch’io, al loro posto trovai solo una parete di nebbia. Immaginai che sarebbero tornati dopo una breve passeggiata, e invece non si fecero più vedere. Qualcuno, non mi pare mio cognato ma magari un altro cameriere o uno dei vecchi che ogni tanto ci davano una mano a portar via i grossi sacchi della spazzatura, a metà pomeriggio mi fece notare la Seicento ancora parcheggiata nel cortile, ma solo a sera, quando tornai per dare una mano per i pochi coperti della cena, vedendola mi sentii stringere dall’apprensione. Per prima cosa telefonai alla cameriera, alla figlia della donna che aveva preso a pensione il tedesco anche stavolta, e le chiesi la cortesia di condurmi da loro, o di interpellare la madre: erano forse lì, c’erano anche solo passati, quel pomeriggio? La ragazza mi richiamò nel giro di un paio di minuti, e mi garantì che no, da sua madre dopo l’ora di pranzo non s’era visto nessuno. Non era andata al cimitero, mi spiegò, c’è stata ieri, e oggi è rimasta sempre in casa, e quindi non c’erano dubbi.

A quel punto pensai di cercare il pescatore che due giorni prima aveva condotto il tedesco in quella piccola sortita nel lago nebbioso, provai alla cooperativa ma era chiusa per la festa, provai al caffè della piazza e mi dissero di non averlo visto. Uno degli avventori, un carpentiere di pochi anni più di me, mi volle accompagnare all’ormeggio della barca del pescatore, che io non conoscevo, e quando una volta arrivati non la trovammo in acqua temetti il peggio. Cercai con lo sguardo il piccolo faro del porticciolo, ma prima di aver fatto almeno dieci passi nella sua direzione non riuscii a scorgerlo: chiunque a quell’ora stesse ancora navigando aveva molte meno speranze di me. Se le cose stavano come oramai sembrava indubbio che stessero, non potevamo che disperare. Tornammo al ristorante, pronti a dare l’allarme, e con mio grande stupore la Seicento non c’era più. Un quarto d’ora fa, mi disse mio cognato, è venuto, ha salutato e se ne è andato. Ma il tedesco non c’era. Proprio in quel momento squillò il telefono del ristorante, e subito mi mandarono a chiamare per rispondere alla cameriera, che m’annunciava il ritorno a casa, recentissimo, dell’ospite di sua madre. Gli avevano chiesto dov’era stato, e a fare cosa? Non siamo persone indiscrete, mi disse lei, men che meno con chi paga per avere ricovero da noi. Così riprendemmo il lavoro, che di sera, i giorni di festa, era sempre più svelto da sbrigare, e prima di scivolare nel sonno mi tormentai non poco nel tentativo di riscostruire, di spiegarmi, di capire. Ma non c’era modo.

L’indomani attesi con impazienza l’arrivo del turista tedesco, ma non si presentò. Né venne il mio amico, ma questo, d’altronde era un sabato, non poteva significare alcunché. L’unica cosa che mi concessi di fare fu andare a cercare il pescatore, subito dopo pranzo, e lo trovai alla cooperativa, a giocare a carte con gli altri, e a spiegarmi di non saperne niente, di non aver avuto a che fare né con l’uno né con l’altro, il giorno prima. Quanto alla barca, era in rimessa per ridare una mano di catrame. Così il mistero era meno fitto della nebbia in cui pensavo si fossero perduti, tutti e tre. Ripresi la via di casa, e la sera passai al ristorante senza trovarci il tedesco, e il giorno dopo, per il pranzo della domenica, il mio amico non si presentò, di nuovo. La cameriera era di turno e mi confermò la partenza dell’ospite straniero, la gente riempì la sala come d’abitudine, la nebbia si diradò appena.

Del mio amico e della sua Seicento non ebbi più notizie. Non la domenica seguente, né quella ancora dopo, né l’altra, né l’altra ancora. Mai più. La prima volta che mi trovai a dover tornare in città, sotto Natale, resistetti alla tentazione di rifare il giro di quel mattino di luglio, più come un rito propiziatorio che come una replicata, piccola ricerca. Badai ai miei affari e ripartii rapidamente per il lago. Questo è tutto. Ogni volta che incontravo per strada una Seicento dello stesso colore, fino a quando le Seicento giravano ancora per strada, mi sporgevo sempre fin quasi a toccare il vetro col naso per vedere se per caso al volante non ci fosse lui. Gli avrei scagliato il clacson contro, o lo avrei rincorso per salutarlo e processarlo, o perlomeno avrei saputo che c’era ancora, che esisteva, che da qualche parte faceva ancora la sua vita e consumava i suoi pranzi della domenica. Ma non capitò. Scomparvero così come erano apparsi, lui e il suo improbabile amico di Germania. A me rimane solo il lascito del giorno in cui mi convinse, con pochi e inoppugnabili argomenti di cui non ricordo davvero neanche una virgola, a non mollare il ristorante, a continuare a fare quello che facevo quasi da sempre e che da sempre mi veniva così bene. Non è poco, devo riconoscere. A pensarci ancora oggi ho l’impressione di essergli enormemente debitore.

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2 Commenti

  1. bellissimo racconto. la Seicento. Mi viene in mente Manganelli, forse per la descrizione fisica dei due, forse per gli argomenti che trattavano. Il bere, il mangiare, la Germania. Bello, davvero.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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