VISIONI in TRALICE [VII] di metafore [e altro]
[ *scherzo&rondò ]
JOHN CAGE I “Suite For Toy Piano” [1948]
di Orsola Puecher
Amavo rane e rospi e salamandre,
chiocciole umbratili e miti lumache,
ramarri verdi e lucertole grigie;
raganelle nei cespi di crescione,
che ho difeso da lacci e torture
di certi maschi cruenti e crudeli;
rospi smeraldini dagli occhi assenti
nascosti nel muschio del sottobosco,
popolo schivo padrone dell’ombra;
placidi specchi a rugiade e gocce,
nel quieto palpitare delle gole,
nel gracidio notturno per le rogge.
Amavo [et amo] anche le invise senza guscio, quelle limacce sguisce color minio lustro, terrore degli orti lombardi, che solo dopo le piogge lasciano i loro nascondigli in mollicce ondate d’invasione a divorare lattughe e radicchi. E prima non lo si sa, dove se ne stiano quiescenti. E a cui far ritrarre, al solo sfiorarle, le vigili piccole corna.
Lümaga lümaghin
cascia foeura il to curnin.
Lümaga, lümagun
cascia foeura il to curnun,
che’l to pa’ l’è andà in prisun
per na grana de formentun. 1
Ma esse, lo si sa, come la Lumaca Portinaia della Fata Turchina di Pinocchio, son bestiole tutta pace e tutta flemma, sorde a ogni fretta e logica temporale e per questo metafora abusata di lentezze, seppure, per loro natura genetica e intrinseca fisiologia, incolpevoli di otium&accidie etiche di qualsiasi genere.
FIORENZO CARPI “La Fata Turchina” SONATINA
da PINOCCHIO di Luigi Comencini [1972]
– Aspettami costì, che ora scendo giù e ti apro subito.
– Spicciatevi, per carità, perché io muoio dal freddo.
– Ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta.
Intanto passò un’ora, ne passarono due, e la porta non si apriva: per cui Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua che aveva addosso, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò più forte. A quel secondo colpo si aprì una finestra del piano di sotto e si affacciò la solita Lumaca.
– Lumachina bella, – gridò Pinocchio dalla strada, – sono due ore che aspetto! E due ore, a questa serataccia, diventano più lunghe di due anni. Spicciatevi, per carità.
– Ragazzo mio – gli rispose dalla finestra quella bestiola tutta pace e tutta flemma, – ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta.
da Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino
Cap. XXIX di Carlo Collodi [Firenze 1881]
Rane e rospi, ciambotti e bufi sia in acqua che in terra così perfetti sono di regola, in senso figurato, inghiottiti e sputati e ingiustamente considerati sinonimi di bruttezze e viscidezze per antonomasia, mentre invece sono in vivo la rappresentazione accelerata di tappe lontane dell’Evoluzione: da gelatina trasparente con uova a occhietti di caviale si trasformano prima in vibratili girini e poi metton su pinne palmate e, persa la spermatozoiforme appendice caudale, saltan via in ranocchiettini minuscoli ma già ben compiuti. Fossi stato uno studioso ottocentesco, un positivista etologo fantasioso, al posto dei primati avrei pensato, con sollievo, come antenati degli umani di certo ai nobili batraci. E fra gli animali personificati delle favole, tralasciando il ben noto Re Ranocchio, il sussiegoso Valletto Rana di Alice spicca per quella sua farfuglievole logica anfibia, irremovibile all’ostinarsi della noiosa, curiosa e perennemente meravigliata ragazzetta a non voler stabilire una gerarchia di valore e di priorità fra il dentro e il fuori.
Di rane se ne fece gran sacrificio, a opera del Galvani e dei suoi aguzzini in redingote a larghe falde e parrucca incipriata e scarpini di coppale: le povere vittime furon squartate da dissezioni dissennate per le elettriche umane sorti progressive, in macabri ponti di coscette tirate fra i due poli più&meno delle future pile.
da ⇨ Opere edite ed inedite del Professore Luigi Galvani [1841]
E un secolo dopo, nel progressivo ‘800 certi altri vari scienziati, facendo certi altri vari trucidi esperimenti sul sistema nervosi dei poveri anfibi, forse ingenerarono questo curioso paradosso:
METAFORA DELLA RANA NELLA PENTOLA
Se si immerge una rana in una pentola d’acqua bollente, essa ne schizzerà fuori immediatamente. Ma se la mettete delicatamente in una pentola d’acqua tiepida e abbassate il fuoco al minimo, se ne starà là tranquilla. Mentre l’acqua si riscalda gradualmente, la rana piomberà in uno stupore tranquillo, esattamente come uno di noi in un bagno caldo, e lascerà che la bollano fino alla morte.
La fittizia storiella è comunemente usata dagli attuali ecologi progressisti, come fa il Vice Presidente Al Gore nel documentario didattico An Inconvenient Truth del 2006 di Davis Guggenheim, per spiegare il problema del riscaldamento globale.
Niente di più falso e illusorio: il Professor Doug Melton del Dipartimento di Biologia, dell’Università di Harvard, si spera senza aver rifatto il crudele esperimento, ché basta un minimo di logica ad arrivarci, invece afferma:
Se si immerge una rana nell’acqua bollente, ella non scapperà affatto: morirà. Se la si mette nell’acqua fredda, salterà fuori prima che diventi calda: le rane non se ne staranno là tranquillamente sedute per voi!
C’è un solo caso, che io sappia e ricordi, in cui alcune metafore d’assillo&abuso comune si incarnano perfettamente, senza alcuna finzione e pretesa letteraria…
JOHN CAGE II “Suite For Toy Piano” [1948]
E la fama?
Carlo Goldoni
E la fame?
Carlo Gozzi 2
E questo Sindbad, che assai poco aveva a che fare con il tapestre-volante marinaio della favola, batteva con i suoi numeri le fiere ed era l’attrazione massima delle serate domenicali degli alberghetti con palme di certe [anche mie] tristi ma fondanti vacanze lacustri. E come dimenticare le sue involontarie lezioni di ontologia letteraria, mentre zampette palmate agitate, pelle viscida e maculata gli scomparivano in bocca, per poi riemergerne sputate in un ruttare roco? Altri non era, s’indagò, che tal DIOTALLEVI FORTUNATO: nome, questo suo vero, concepito augurale da una suorona cappello a vele bianche, ma dall’esito fausto promesso&sperato tutt’allora assai incerto. Figlio di NN, era stato poi allevato decorosamente, nei limiti di un decoro freddo e minimale, all’orfanatrofio dei MARTINITT, benemerita istituzione filantropica meneghina cha dal remoto 1528 raccoglieva i sans famille, avviandoli a un dignitoso lavoro. Ancora innominato era stato deposto in fasce nel Chiostro della Chiesa di Santa Maria delle Grazie: per la precisione dentro un cesto di vimini in precario equilibrio sul bordo della Fontana delle Rane: locus dal nome che per lui sarà, in un certo qual senso, profetico.
[ dove se con un dito tappi la bocca a una – o più – delle bronzine batraci – le rimanenti schizzano – in proporzione – un fortissimo getto ad arco perfetto che travalica i confini deputati della vasca – provare per credere – anche se – ora – un’odiosa catenella – vietando l’accesso al chiostro – lo impedirebbe – teoricamente ]
Avviato alla degnissima professione di ⇨ magütt [che sarebbe apprendista muratore] non trovò di meglio che fuggirsene dal cantiere, zona Bovisa, per seguire un piccolo circo a conduzione familiare attendato nei prati limitrofi. Nella fattispecie per amore della Iris, trapezista, contorsionista e cassiera, anche [all’occorrenza – cioè sempre], che non se lo filò mai punto, però. Scioltosi per stenti e fame il circo [e lui pure quasi] si mise in proprio da artista girovago di quella sua arte delle punte e lame, in cui si era specializzato per una vocazione, o forse per un sottile contrappasso, una catarsi, un’inconscia oggettivazione di figurate perforazioni del destino suo acuto, e che lo trafiggeva, fuor d’ogni metafora, peggio di un San Sebastiano.
Per DIOTALLEVI FORTUNATO, dunque, esser trafitto, inghiottire il rospo e sputare il rospo erano SIC et HIC et NUNC e non immagini astratte da arruolarsi fra le più mere, troppe e troppo mere, enfatiche espressioni metaforiche che, troppe e troppo, assillano indistintamente prosa&poesia.
[…] se si scrive in prosa, la bellezza a cui si dovrebbe tendere è appunto prosaica. La bellezza prosaica non è la bellezza lirica; non sopporta la stessa quantità di pathos né lo stesso grado di enfasi; necessita di una dose minima di ironia; non fa uso dello stesso tipo di metafore.
Massimo Rizzante
NON SIAMO GLI ULTIMI
la letteratura
tra la fine dell’opera e la rigenerazione umana
pag. 48
effigie edizioni 2009
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⇨ VISIONI in TRALICE [I] I can’t hide you the rock cried out
⇨ VISIONI in TRALICE [II] But doth suffer a sea-change…
⇨ VISIONI in TRALICE [III] … e abito sempre nel mio sogno…
⇨ VISIONI in TRALICE [IV] Cum dederit dilectis suis somnum
⇨ VISIONI in TRALICE [V] Lascia ch’io pianga
⇨ VISIONI in TRALICE [VI] di perle e rospi