Una storia
di Andrea Inglese
– Raccontami una storia.
– Io non ho storie, non ho nessuna cosa che sia una storia.
– Raccontamela lo stesso, è solo una storia.
– Ti posso dire solo che c’è la foresta. Tutto quello che riesco a mettere in una storia è una foresta. Foresta, foresta. Foresta a perdita d’occhio. Grande foresta intrecciata con grande foresta.
– Raccontami una storia, con i particolari.
– Non so chi c’è nella foresta. Non so di storie con uomini o donne. Non so vederli da vicino, questi uomini e queste donne delle storie. Mi è poco chiaro cosa possano fare, a parte un gran numero di telefonate, o fare rifornimenti. Fanno continui rifornimenti, portano avanti e indietro scatoloni pieni di roba. Non che sia più facile con i bambini, che rimangono in piedi sempre, nell’identica posizione, davanti alla finestra, ma all’esterno della casa. I bambini nella mia storia non sanno fare niente, se non guardare dentro la casa, da fuori, dalla strada. Poi ho solo cose fugaci. Un uomo a cavallo. Delle persone sotto il sole. Delle persone sotto il sole, in salita, in mezzo a della ghiaia, e probabilmente non lontano la foresta. Poi i soliti animali. Gli animali che vanno bene per le uniche storie che so: lupi che dormono nella foresta, lupi terribili che fortunatamente dormono, e che se non dormono girano pericolosamente, con le grandi fauci spalancate, per tutta la foresta.
– Raccontami come va a finire.
– È che tutti vanno a veleno, non fanno che funzionare a veleno, e come camminano veloci, quasi non avessero che le gambe, delle grandi gambe senza torso testa e mani, ma viaggiano, spinti, animati, trasfigurati dal veleno, con lo sguardo nero, il volto terreo, eppure salgono e scendono dalle rocce, passano oltre i cespugli, scavano gallerie nella terra. Ma è stranissimo: di continuo della gente si avvicina, hanno disposto sui tavoli, al fresco, sotto gli alberi che fanno ombra, hanno disposto le torte di mele, i formaggi e le carni bollite. E non succede nulla. Alla fine tutti si scordano di prenderne un morso, ci finiscono dentro le vespe, i lombrichi, le pigne, la polvere. Ciò che funziona è il veleno di ognuno. Come corrono a digiuno, fuori e dentro la foresta, gli avvelenati.
– Racconta di quando siamo grandi.
– Io sono già grande, sono già ingrandito di molto, e questa grandezza dentro cui sono non riesco a raccontarla, è una grandezza persa, un ingrandimento che è anche una sfocatura, e sono proprio i dettagli ad offuscarsi o sciogliersi, come fossero disegnati con la farina su di un tavolo, che il vento allunga e assottiglia fino all’esplosione. Probabilmente bisognerebbe cominciare dalle persone che vogliono diventare un lavoro, e una missione, su come s’immaginano di diventare simultaneamente un lavoro e una missione, un salario e una salvezza. Mettendo assieme salario e salvezza, e quello sforzo tremendo di tenersi dentro quel sogno, di questo umanamente si può raccontare, e fare un storia, ma è faticosa, e triste, ancora più triste che il lupo nella foresta, lupo addormentato o vagante.
– E allora i bambini dove stanno? Dove se ne sono rimasti?
– Oh, ma i bambini non contano. Contano meno della torta di mele e dei formaggi che nessuno ha morso. Sappiamo solo che guardano, da fuori, dentro la casa, che tentano di guardare all’interno, ma è solo il muro della casa, l’intonaco e il mattone, tutte le macchie, le screpolature, i buchi, è solo questo che vedono, tutto conoscono del muro esterno i bambini, e pochissimo sanno di cosa avviene dentro, e continuano speranzosi a guardare, ma non contano davvero nulla. Se hanno fortuna, troveranno la porta aperta prima di notte, prima della pioggia scrosciante, prima che lupi, orchi e assassini comincino la ronda.
– E allora i bambini dove stanno? Dove se ne sono rimasti?
– Oh, ma i bambini non contano. Contano meno della torta di mele e dei formaggi che nessuno ha morso.
Grazie, Andrea…leggerti è un continuo arricchimento
“pochissimo sanno di cosa avviene dentro”, io credo sappiano molto, così, senza parere…. grazie Andrea, lampi di luce.
uèèè, che bellezza. finisco di delirare in calce a “romanzo e strategia” e trovo questo tuo raccontino molto concettuale (sotto sotto) e un po’ burlesco (allo scoperto).
: )))
mi pare che anche qui, rivitalizzando un po’ il format mediante il dialogo nudo, si tenda a sviluppare un sipario d’inventario visionario e velleitario, sollevato il quale l’autore pare volersi sollevare pure dall’incombenza di raccontare un racconto. pure parole? nel riprendere il discorso del tuo articolo precedente (chissà se è un caos o un caso), ho dunque l’impressione che si riparta dal *di-segni* astratto già percorso, rimpiazzando “il romanzo” con “il racconto”.
– raccontami una storia, nonno.
– eh, magari ci riuscissi. neanche un monaco zen, educato al pensiero disossato, riuscirà mai a raccontartene una sola.
– mmmm… sento puzza di fregatura. nonno, non è stai provando a rifilarmi l’ennesima sola?
– chissà… è che quando apro la bocca dico tante cose, molte più di quelle che riesco a immaginare.
– beh, allora per me va bene lo stesso. raccontamene quattro, o cinque o sei di storie!
– già, sei storie.
non so. intendo, non so se il “non sapere” o il “non fare” o il “non accadere” o il “non qualcosa” neghi una storia o sia semplicemente una storia specchiata negativa. se io scrivo “in questa storia non c’è un gatto che balla”, puoi forse leggerla senza visualizzare un gatto che balla? ecco dunque che da un lato trovo elegante e riuscito il passo un po’ smarrito di questa tua narrazione (incentrata sull’elencazione di microstorie, più che sulla costruzione di un network), ma dall’altro trovo che abbia la stessa spontaneità e consistenza di qualsiasi altra.
in pratica, mettiamo che questa modalità di comunicare si possa definire per “elencazioni libere”, nel senso che le storie vengono elencate così come vengono in mente. parimenti, la stessa libertà di pensiero la trovo nelle “associazioni libere”, ovvero nella costruzione di un network di relazioni tra le microstorie che può anche non esistere a priori (sia il cervello dell’autore che quello del lettore acquisiscono informazioni raccontandosi storie, ovvero aggiungendo storie lette a quelle scritte).
– raccontami come va a finire.
– cosa?
– la storia, anzi, no… le storie.
– le storie non hanno bisogno di finire: sono infinite
insomma, probabilmente per narrare un racconto, un non-racconto o uno sracconto si deve scendere a patti con la stessa materia verbale e cerebrale. e poiché cappuccetto rosso è una bambina che non resiste alla tentazione di attraversare il bosco, ovvero la “grande foresta” di segni che abita la pagina scritta, il risultato, se abbiamo fortuna, sarà quello di “trovare la porta/bocca aperta” e, pertanto, di poter liberamente fluire tra dentro e fuori, tra sogno e bisogno.
– perché il lupo è triste, nonno?
– perché voleva diventare grande e invece è diventato commercialista.
(ps: so che hai poco tempo, ma metti che capiti un giorno di 25 ore, beh, mi piacerebbe provavre a scrivere un racconto a quattro mani. in caso batti un colpo)
Inglese scivola nei generi come i nemici di Troia nel cavallo omonimo. Qui anche nella favola. L’effetto mi pare sempre un po’ incendiario…
Una delle cose più saporite tra le cose lette su NazioneIndiana negli ultimi tempi, e in generale è come un sorso d’acqua buona pescato nel mare(salino, ad esempio costa ligure), e ci si congratula pensando alla foresta.
Inglese, non vuol essere propaganda letteraria ma ti si invita a leggere ultimo racconto inserito, Bellum Naturalis, lo si indica per il contesto Foresta in comune tra quel e questo scritto, restando sul tuo pezzo per una terza lettura ti saluto.
bellum naturalis?
e certo, tra quel e questo scritto, ci sta bene anche un bellum naturalis, come no
a malos,
vedo che sulla scia della lettura, ti è nata come una voglia di racconto a tua volta, che mi sembra uno dei possibili buoni esiti di uno scritto: dar voglia di scrivere. Il non saper raccontare, da Beckett in poi, è una potente macchina di narrazioni, ma narrazioni per così dire eretiche, fuori fase. Il “passo smarrito della narrazione”, mi piace.
a postnarrativa
leggerò…
lucy in the forest with poison – una storia gotica-psichedelico-allegorica (anzi: *vera)
quanta pena quei bambini dritti lasciati fuori a guardare la casa, non la casa, ma il muro della casa, quegli adulti affannati, isterici, ai continui rifornimenti
!
“Diventare un lavoro, e una missione”. Mettere “assieme salario e salvezza”. La condanna di essere moderni, nevrotici, spezzati. Col fardello della foresta fuori dal tempo, di lupi e assassini. Grazie. Molto bello