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Biografia anelastica di Felice Chilanti (1914-1982)

chilanti01

di Davide Orecchio

(Qualche anno fa ho scritto una breve biografia di Felice Chilanti. Adesso l’ho riscritta e la ripropongo qui. Per chi non la conoscesse, è una storia interessante. Un giovane fascista che provò a uccidere Ciano. Un comunista che raccontò i crimini di Stalin. Nello stesso uomo. Chilanti fu, soprattutto, un grande giornalista. Scoprì la mafia dei corleonesi, che risposero con una bomba al tritolo. Ma non fu la mafia a ucciderlo)

IL GIORNO, il mese, l’anno. Il ventidue. Marzo. Mille novecento quarantadue. Galeazzo Ciano. Un diario. Lo scrupolo. La nota. La memoria nella cartuccia sull’inchiostro lungo la penna per sgorgare sulla pagina. Il diario come un pannolino per assorbire eiezioni di memoria. Essiccamenti di memoria riciclabile destinata ai posteri: di Galeazzo Ciano. L’ha “chiamato al telefono un giovanotto”. Ricorda, imprime, si preoccupa. Per dirgli cosa? Che la sua vita è in pericolo. La vita del figlio del regime, genero del. Regime. La vita di Ciano. Il confidente (attraverso la memoria, l’inchiostro, la pagina) rivela che “un giornalista, tal Felice Chilanti”, l’ha avvicinato e invitato al banchetto dei cospiratori nel “movimento rivoluzionario” che si propone di

 

“eliminare

gli elementi di destra
e conservatori

del Partito

e

di imporre

al Duce

una

energica

politica

socialista”.

 

“Tutto era previsto: attacco, arresto dei ministri, morte di Ciano” per interrompere lo sperma del potere ma sulla pagina l’inchiostro rassicura l’Io, non i posteri:

 

“Con un po’ di confino

o anche di carcere

l’ardore

di questi giovani

verrà raffreddato.

Però

non si può fare a meno

di chiedersi:
perché tutto questo?

Non potrebbe trattarsi

di un inizio

di antifascismo?”

 chilanti02

L’episodio, il perno attorno al quale ruota la giostra. Sta in mezzo a un’esistenza e la spiega. Quella che successe, quella che accadrà. Nell’ultimo atto. Del fascismo. Un cospiratore. Fascista che vuole uccidere fascisti. Antifascista? Neanche lui sa la risposta. Ancora no.

Ventotto anni fa. Nell’Alto Polesine. È nato. Da contadini, braccianti. Mangia carne tre volte l’anno. Spesso ha la famiglia

 

«senza pane,

né crusca

per il maiale

né granturco

per anatre e galline».

 

La sua casa d’infanzia.

 

«Nere travi

sopra i nostri sacconi

pieni di foglie

di granturco

e le lenzuola

gialle di canapa

tessute al telaio

dalla nonna malata.»

 

Il clima: la denutrizione, l’odore di sterco campestre, l’erba macchiata, l’argilla, latrine all’aperto, le ascelle materne, la flanella del padre. I sabotaggi della povertà. Eppure cresce. Ne ha già quattordici. Prende un treno per Roma. Studierà ragioneria? Non completa gli studi. Trova un lavoro. Presso l’Unione. Provinciale. Fascista. Agricoltori. È già «fascistello». Sta con le sue idee nell’universo chiuso. La coerenza, l’incoerenza, rivoluzione, borghesia, Partito, monarchia, Vaticano, proletariato, ministeri, uniformi, Fiat, il Lungotevere, la carbonara fascista, i saltimbocca fascisti, i preservativi di budello: fascisti, le nuvole col profilo del Duce.

Ascolta l’epoca. Io non c’ero. Neppure tu. Ma questo non vuol dire. Che non sia possibile. Esperienza. Col mio lavoro e nella mia voce, tu fai esperienza. Nell’archivio, nel libro: la mia esperienza. Il critico con la barba bianca istruisce la giovane scrittrice: “lascia stare i libri e la storia. Fa’ esperienza”. Ma la stella che ci appare è una stella morta. Noi guardandola la rimettiamo in vita. La carta d’archivio è il fossile. Vita morta che rinasce. Io rivendico il mio diritto. Ad ascoltare. Il passato. A immaginarlo. Nel racconto della carta, della polvere, del libro.

Le giberne. I gabbiani. Un Campidoglio stinto. Brecce nel marmo. I rifugi del Ghetto. Montecitorio obbedisce. La passamaneria, il negozio di bottoni, il cotone di regime, il rayon di regime, Felice Chilanti giovane in camicia nera a considerarsi rivoluzionario e infatti lo guidano ex sindacalisti, ex socialisti, ex fondatori del Pci. Nicola Bombacci. Edmondo Rossoni. Una rivista: La Stirpe. Dicembre. Mille novecento trentaquattro. Il pubblicista ventenne scrive che il borghese è

 

«il nostro avversario
naturale»

e la rivoluzione corporativa
dev’essere

una «rivoluzione
antiborghese».

 

Spirito, Spampanato, Fantini, Orano. Il fascismo sociale. Nella testa. Di Chilanti.

La sua Roma intanto…

 

Mille novecento trentacinque. Lascia Roma. «Come a prova del senso collettivo della vita.» Il servizio di leva. La terza compagnia. Chimica. Per l’uso dei gas. «In distaccamento solitario nella valle alta dell’Adige.» Qui si canta un inno:

 

«noi con

l’iprite

e l’aggressivo

non ne lasciamo

nessuno vivo».

 

Noi. L’addestrano. Maneggia l’arma di sterminio. Noi. Intuisce le vescicazioni? Le piaghe sul corpo di uomini, donne, bambini? Noi. Il nostro volo. Il nostro scarico. La nostra guerra senza guerra d’Etiopia. Il nostro impero. I cadaveri effetto di noi. La nostra storia. Il nostro oblio. Abbiamo dimenticato noi sull’altipiano d’Africa. Chilanti apprende noi. Il nostro fascismo.

Ritorna. A Roma. Fa il giornalista. Scrive che si distribuisca. Ricchezza. Scrive che si recuperi. La funzione. Rivoluzionaria. Del sindacato. È rissoso. Anticapitalista. Antitutto. Scalpita nella leva del frondismo. Di Bottai. Nell’universalfascismo. Di Zangrandi. Nella cospirazione sonnambula. Dei Littoriali. La guerra. Vicina. Il fiato. Di Hitler. Il dissenso nell’acquario. L’orizzonte di cartone. Il pianeta dei pupazzi. Ma non è l’ora di uscire. A rivedere le stelle. Entra la colpa. Mille novecento trentotto. In un libercolo. La firma di Chilanti. La promessa:

“i lavoratori

seguiranno

il Regime

nella politica

razziale,

con tutto l’amore e

tutta la fedeltà

necessaria ad essere

più forti, degni

e capaci di vincere.

E della razza saranno

i più
intransigenti

e i più
accaniti difensori.

Nei figli vorranno
che la razza

sia sempre più pura”.

 

La macchia. Lo insozza. Perché l’ha scritto? Ne ha ventiquattro. Io, a ventiquattr’anni, mi laureavo. Studiavo l’Ottocento. Votavo. Perdevo. Ma non ero costretto. All’apartheid. Nessuno mi chiedeva. Di sbagliare. Non responsabile. Come Telemaco. Per questo. Solo per questo. Il marginale Io. L’inefficace, non storico Io. Non riesce a condannare. Ma è dispiaciuto. Lui, a ventiquattro, per fortuna, almeno tace sugli ebrei:

 

«non scrissi
di razze superiori
o inferiori
né la parola ebreo
bensì che esistendo
una razza italiana
bisognava unificarla
abolendo
la divisione
in razza di ricconi
e razza di
diseredati».

 

Adesso risale. La corda nel pozzo. La presa. Le mani ferite. Le punte dei piedi: premono. Sulla roccia. Il fiato. E il gemito. Per liberarsi nella metamorfosi esigendo sangue, offrendo sangue. Mille. Novecento. Quaranta. La guerra. Chilanti in Grecia e Albania. Fonda una rivista con Pratolini e Gatto. Il domani. Scrive corrispondenze dal fronte. I fascisti la chiudono. Ritorna. A Roma. Ha deciso. I fascisti: un danno. Lingua in bocca con la monarchia. Lingua in bocca con la curia. Lingua in bocca con Hitler. Liberarsi. Uccidere il fascismo. Complotta. Coinvolge qualcuno. Il dieci. Aprile. Mille novecento quarantadue. L’arrestano. L’Ovra. L’accusa. Di aver macchinato l’omicidio di. Ciano, Starace, Farinacci. Sei mesi a Regina Coeli per il torchio e lui risponde:

 

«il conte e
qualche altro conte,

sì signor commissario

gridavo fra i miei amici,

dovevamo liquidarli

e catturare

Mussolini

di notte

in un aeroporto,

ma sì, appunto,

come nei film,

puntandogli le pistole

alla schiena».

 

A Lipari. Il confino. Le pietre nere. Contento per l’esilio. Si libera. Espettora il fascismo. Nell’isola. Con l’aiuto dei capperi. Delle olive. Fa la lavanda gastrica. Lontano da Mussolini. Che nel frattempo cade. Otto. Settembre. Mille. Novecento. Quarantatré. Per avventura rientra a Roma. Adesso partigiano accessorio. Laterale. Aderisce a Bandiera Rossa.

 

«Trozkisti,

anarchici,

comunisti espulsi
e radiati;

fuori e contro il Cln.»

 

Antibadogliani, antimonarchici, anti svolta di Salerno. Forti nei quartieri proletari. Tra loro. Milita. Giuseppe Albano. Il Gobbo del. Quarticciolo.

 

«Accarezzava

il suo mitra
e mi fissava,

da ragazzo serio
che uccide:

ho saputo
che eri un fascistone.»

 

Gli scervellati cui Felice si affratella.

 

«Io approdai
a Bandiera Rossa
da un vero naufragio,
solo all’ultimo “riscattato”
con una carcerazione
che fu per me
la prima “libertà”.»

 

chilanti03

 

Ventiquattro. Marzo. Mille novecento quarantaquattro. Il dolore. Molti compagni rastrellati. Interrati. Alle Fosse. Ardeatine. Lui stesso fugge con gli altri

 

«scavalcando mura,

calandoci lungo tubature,

e anche,
al momento necessario,

impugnando un’arma

a sommità d’una scala,

decisi a morire

senza viltà

e lasciando un segno

della nostra

partecipazione

di combattenti

a quella guerra».

 

 

Forse il naufrago ha trovato la rada. Avanza nel nuovo mondo postfascista. Asciuga i piedi sulla sabbia. Sveste gli abiti zuppi. Roma è libera. Poi il resto d’Italia. Quando dal mare. Un tentacolo. Afferra Chilanti. Per tirarlo indietro. Nell’acqua di ieri. Una foto che qualcuno gli mostra. Un plotone. D’esecuzione. I fucilati di Dongo. Gerarchi. Passati per le armi. Il ventotto. Aprile. Mille novecento quarantacinque. Pensa di svenire. Riconosce gli amici. Di un tempo. I camerati. Bombacci. Ernesto Daquanno. Molti altri. Sparati. Presto cadaveri. Poi vede chi comanda. Il plotone. Anche quello. Un amico. Un compagno. Di Bandiera Rossa. Amici tra chi fucila. Amici tra chi muore. Dove si metterebbe lui, nella foto? La guerra civile. In una foto. In una vita. Nella somma. Delle biografie. Di Felice Chilanti.

Ma non c’è tempo. Il tempo finisce. Riparte. La lotta. Sopravvivere. Prendere partito. L’avventura del mondo. Chilanti trova lavoro. Un po’ dappertutto. Il Tempo. Milano-Sera. Il Corriere della Sera. Oltre a entrare. Nel Pci.

 

«Là condotto,

al principio,

da senso di colpa

e spirito ribelle

convergenti,

paura e convinzione

mescolate

in unico

magma

tenace,

resistente:

torbido.»

 

Per lui inizia l’epoca…

 

 

Mille. Novecento. Quarantanove. Si associa. Alla fondazione. Di Paese Sera. Togliatti vuole. Un giornale borghese. Che sembri borghese. Con il sesso. Il sangue. Il denaro. Ma «dentro ci mettiamo i nostri ideali».

 

«Per quella
difficoltosa
battaglia
fummo chiamati noialtri
giornalisti esperti,
rotti al mestiere,
per rovesciare i fatti
addosso alla società.»

 

Le sue inchieste. Importanti. Chi è il mandante. Della strage. Di Portella? Chi stava. Nella banda. Di Giuliano? Chi è il mafioso Calogero Vizzini? Illumina. Zone scure. Di realtà. Col suo andare in giro. Domandare. Investigare. Scopre Liggio. Scopre la mafia.

 

«Sono stato

fortunato

ed anche incosciente.

Oggi non andrei

in giro

per i viottoli
di Corleone,

non entrerei nelle case

a chiedere notizie

di Luciano Liggio.

Sono stato

aiutato,

guidato,

informato

principalmente
dai comunisti

di Corleone,

giovani e vecchi.»

 

Nella tipografia de L’Ora di Palermo. Scoppia una bomba. Al tritolo. Ma non ferma Chilanti che scappa dal passato, divora il presente, corre incontro a… Dirà tempo dopo:

 

«avevo per anni
indagato,

interrogato esperti,

poliziotti,

intuito dedotto collegato

argutamente

indizi rapporti riservati,

affari racket e omicidi,

ero stato minacciato

di morte».

 

Viaggia in Cina. In Russia. Racconta il disgelo. Poststaliniano. I crimini del. Totalitarismo. Una notte lo chiamano. Dall’Unità. Sconvolti:

 

«ti rendi conto,

frughi

coi ferri roventi

dentro la pupilla

degli occhi nostri,

non abbiamo

altri occhi».

 

Ma questo è lui. Questo è il materiale. Anelastico. Non morbido. Del quale è fatto. Felice Chilanti. Ha conosciuto i fascisti. Poi li ha combattuti. Adesso i sovietici. Non sa tacere.

 

«Di me non potevano

fidarsi

per l’anarchismo

di tutta la mia vita

non sapevo

prendere ordini.»

 

 

Mille. Novecento. Cinquantasei. L’Ungheria. E lui che ne ha compiuti quarantadue, fa il punto. Raffronta. Discerne. Pensa che prima o poi parlerà.

 

«Io li avevo amati

quei capi

dell’antifascismo,

per anni

non osai

pensare

a loro complicità

nei crimini

di Stalin e di Beria»,

ma «il partito

ufficiale

cominternista

portava
in Comitato centrale,

in parlamento

i più disponibili,

gli smemorati;

noi, i pochi
in rimorso consapevole

eravamo
strumento cieco».

 

chilanti05

 

Un fatto medico. Il commiato del corpo. Lo spinge a vuotare il sacco. Prima che sia troppo tardi. L’ultima avventura. Reggio Emilia. Mille. Novecento. Sessanta. Chilanti s’ammala mentre

 

«ragazzi in blue jeans
feriti uccisi
non si arrendono,
le mie corrispondenze
le detta il cronista locale,
la stenografa non ode
più
la mia voce».

 

chilanti04

 

È un cancro. Alla laringe. Gliel’asportano tutta. «Nella ferita della coltellata.» Mettono. «La cannula per respirare.» Al posto della parola un raschio. Là dov’è il collo un foulard. Non può più intervistare, domandare, dettare. Smette. Di essere. Inviato. Dopo lo spavento. Dopo la crisi. Decide di farsi. Scrittore.  Di sé stesso.

 

«Scriverò

romanzi

d’ora in poi

per essere uomo

debbo diventare

scrittore.»

 

Nella narrazione, il riscatto. Pubblica tre libri. Col disordine del flusso. Di coscienza. Illustra il bambino che fu. Il giovane e l’adulto. Terminata la fatica, chiarirà:

 

«ho voluto

proprio

“spiegare il fascismo”

cercandolo

in me

nella mia autobiografia.

Ormai sono giunto
al convincimento

che in Italia

nessuno

può

onestamente

“parlare d’altro”

accantonando

la propria storia,

la propria persona».

 

L’errore, l’entusiasmo, l’energia, prima del pensiero, il rimorso. La separazione. Dal potere. Dagli strati di grasso. Di comodo. Dalla protezione. Anche culturale. Della borghesia. L’inerme. Generazione. Che nacque nella caverna. Fascista. Il telefono tace. Qualcuno gli toglie il saluto. Ma lui insiste. Coi libri, le pagine, la denuncia del sé e del noi.

 

«Non fummo lebbrosi
né delinquenti,

andammo alla guerra
di liberazione

ma udimmo qualcuno
che disse:

hanno scelto
il cavallo vincente.

Li osservavo
ai loro tavoli,

a via delle
Botteghe Oscure

e nei loro sguardi

quel sedimento
indistruttibile»

di sospetto.

 

Un giorno. Nella libreria Rinascita. Entra. Un funzionario del Pci.

 

«vecchissimo,

mummificato».

 

Chilanti lo indica. Al collega Fidia Gambetti:

 

«quando lui era

comunfascista

al tempo del patto

con Hitler,

noi eravamo

fasciocomunisti

e volevamo finirla

col capitalismo».

 

Generazione. Contro. Generazione. Colpevoli, censori, sacrificati. Chilanti accusa. Neppure voi. Avete combinato. Granché.

 

«Chi ero adesso

al banco

di questo tavolo?

Non avevo catturato
Mussolini

 

nel 1941 (…);

non avevo ammazzato
i grandi capitalisti

di Roma

la mattina della
liberazione

coi miei compagni
di Bandiera Rossa (…).

In fondo, dissi (…)

io sono Praga.»

 

Il resoconto. Senza vincitori. La profezia delle macerie. Della sinistra. Lui però s’alza dal bugigattolo ed è fiero:

 

«ora sono
proprio sicuro
che un verso,
un periodo
di narrativa
sono atti
della resistenza
dell’uomo:
la resistenza permanente».

 

Scrive l’ultimo articolo. Su L’Ora. Il titolo. Città della speranza. Un racconto. Del ventinove. Novembre. Mille novecento ottantuno. A Palermo. I giovani in piazza contro i missili. Di Comiso. Tre mesi dopo. A Roma. Il ventisei. Febbraio. Mille. Novecento. Ottantadue. Chilanti muore.

 

Riferimenti bibliografici minimi
I periodi tra virgolette « » sono tratti dai tre romanzi autobiografici di Felice Chilanti (Ponte Zarathustra, Il colpevole, Ex), raccolti in La paura entusiasmante, Milano 1971; e dai Carteggi 1942-1978, a cura di Gloria Chilanti e Sergio Garbato, Rovigo 2004.

Chi vuole approfondire la biografia di Chilanti può consultare le voci a lui dedicate in: Dizionario biografico degli italiani, vol. 34, 1988, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, pp. 721 sgg.; Enciclopedia dell’Antifascismo e della Resistenza, vol. 1, Milano 1968, p. 537. Per il complotto si veda Galeazzo Ciano, Diario. 1937-1943, Milano 1980, p. 602. Sui giovani e il dissenso nel fascismo si vedano il classico di Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano 1962 (1948); e poi Ettore A. Albertoni, Ezio Antonini e Renato Calmieri (a cura di), La generazione degli anni difficili, Bari 1962; Marina Addis Saba, Gioventù italiana del littorio: la stampa dei giovani nella guerra fascista, Milano 1973; Ugoberto Alfassio Grimaldi, Cultura a  passo romano: storia e strategie dei Littoriali della cultura e dell’arte, Milano 1983; Aldo Grandi, I giovani di Mussolini: fascisti convinti, fascisti pentiti, antifascisti, Milano 2001; Paolo Buchignani, La rivoluzione in camicia nera: dalle origini al 25 luglio 1943, Milano 2006. Si veda anche il dibattito apertosi sulle pagine del Corriere della Sera dopo la pubblicazione del saggio di Mirella Serri (I redenti, Milano 2005), del quale mi limito a citare l’intervento di Luciano Canfora, Togliatti fu il primo a capire gli intellettuali in camicia nera del 15/9/2005. Le affermazioni di Chilanti sulla razza italiana sono tratte da ID. La missione della razza italiana, in P. Orano, Inchiesta sulla razza, Roma 1938, p. 85 (citato in Serri, I redenti,  p. 69).

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9 Commenti

  1. Molto bello Davide: molto bella la forma, straordinaria la vicenda.
    Credo anch’io, o almeno “voglio” credere a quanto scrivi:

    “Ascolta l’epoca. Io non c’ero. Neppure tu. Ma questo non vuol dire. Che non sia possibile. Esperienza. Col mio lavoro e nella mia voce, tu fai esperienza.”

  2. Ok, siamo abbondantemente contravvenuti al principio di non imbrodarci tra di noi. Ma a volte è come farsi fuori la Nutella di nascosto. Un piacere irresistibile che vale ogni macchia.

    • “abbiamo”…

      e poi, scusa, che male c’è? un brodino caldo è sempre l’ideale, in ogni stagione…

  3. Davide sì meje e Goliath!
    bellissima questa scrittura di innesti, rarafazioni, parallele,frasi verticali, ritmo da ginnasta in grado di dire, anzi ridire e sentire insieme. grazie davvero effeffe

  4. @Gianni: per un po’. Non mi farò vedere. A Milano ;-)
    @Helena: è una vita che non mangio Nutella, forse dovrei ricominciare.
    @Francesco: “sei meglio di Golia” è la cosa più bella che mi abbiano mai detto

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