L’être dal carcere

di
Anna Giuba

200808_folon
T., 6 febbraio 2013
Ciao amore mio,
che disperazione venire a trovarti e saperti lì dentro.
L’avevi descritto bene, il carcere. Ho fatto due ore di treno, poi mezz’ora di pullman e sono scesa sulla statale deserta, accanto alla tangenziale dove passano i tir. Che squallore, vedere scritto il nome della fermata alla pensilina dell’autobus, carceri. È un nome duro da sopportare e da mandare giù.
Quello che mi ha colpita di più, è stato l’odore del carcere rispetto all’aria gelida e pulita di fuori. Un odore forte, di metallo e di umanità compressa, anche se ieri era un giorno di visita in cui non c’era quasi nessuno. È stata dura essere perquisita. E la poliziotta non era neanche poi così gentile. È una grande tristezza, essere qui, le ho mormorato mentre mi metteva le mani addosso. Poi mi ha anche fatto aprire la bocca e ha indagato sopra e sotto la lingua. Ho dei brutti denti, lo so, ho detto, non è colpa mia. E mi vergognavo senza motivo di vergognarmi. Solo per il fatto di essere lì. Poi mi hanno dato un foglio con un numero, che era il numero del tavolo al quale avremmo potuto parlare. Era un grande otto disegnato, e ho pensato tra me e me, il numero dell’infinito, com’è infinito il mio desiderio di vederlo, e la mia sete di lui. Poi abbiamo attraversato cortili e porte blindate con i vetri antiproiettile, e finalmente hanno aperto la porta di ferro pesante con una chiave che faceva rumore, e ti ho visto, di là del vetro, il tuo viso da ragazzino. Il tuo sorriso. Per me.
Dimmelo, forse tu lo sai? Che senso ha il carcere? Privare una persona dalla libertà e basta, non fare niente per lei, non coltivarla come una pianta cresciuta storta cui si mette un’asticella per raddrizzarla. Siete chiusi lì dentro, stipati come bestiame cui non si dà una seconda, o una terza, o una quarta possibilità. Siete esseri umani, cazzo, esseri umani. Una delle cose che mi ha lasciata con il fiato sospeso è stata la somiglianza dei detenuti con i secondini. Man mano che si aprono le porte, e si attraversano i cortili, il filo che vi unisce e nello stesso tempo vi separa dai vostri carcerieri si assottiglia sempre più.
Che tristezza. Anche loro erano uomini, ma ora forse non lo sono più. Durante il colloquio ti ho chiesto se nel carcere ci sono dei corsi di studio per i detenuti. Mi hai detto che no, a parte, forse, un corso di computer che tu non te la sei sentita di fare. E poi hai aggiunto, I corsi sono per quelli che hanno tanti anni da scontare…
E che differenza fa? Perché ti hanno dato solo un anno tu dovresti uscire senza essere migliore? Ma quale logica perversa è questa, non so capacitarmene. Lo sanno tutti che la situazione dei detenuti in questo paese è drammatica, ma ieri, ieri! Vederti così pallido, come davvero un viso che non vede mai la luce. Abbiamo parlato tanto, ogni tanto appoggiavo il viso sulle tue mani, le tue mani piccole, da bambino. Mani che non sono mai cresciute. Le tue mani, che tanti direbbero sporche, ma che per me sono le tue. Non tenerle chiuse, schiudile al sole e lascia che il cielo le purifichi di luce e di consapevolezza. Le tue mani. Ti guardavo, ti indagavo gli occhi, come per entrarci dentro. Le due ore di colloquio sono passate in fretta, sono volate via. Poi mi sono ritrovata al sole rancido dell’inverno, sulla statale. È stato bellissimo vederti. Ma quando ti ho lasciato, lo sapevo. Ti stavo lasciando sulla porta dell’inferno. E la pena più grande è non dividere il suo fuoco tremendo con te.
A presto.
Rossana

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5 Commenti

    • Grazie per i vostri commenti. Questa lettera fa parte di un epistolario ancora inedito, trenta lettere tra un marito detenuto e sua moglie. Grazie ancora. Anna

  1. C’è qualcosa che non mi torna, in questa lettera. Forse è il fatto che a tratti non sembra una lettera tra marito e moglie, a tratti manca, cioè, di intimità, di calore, come nella domanda “Che senso ha il carcere?”, oppure più forte in “Una delle cose che mi ha lasciata con il fiato sospeso è stata la somiglianza dei detenuti con i secondini.”

    Però grazie perchè è interessante, e ci sono tocchi dolci. Continuerei a leggere se ne avvessi ancora.

    • Ciao Mirfet, questa lettera è a metà dell’epistolario, e la considero esemplare della condizione di disagio di chi, del carcere, non conosce nulla. Ce ne sono altre più intime, alcune anche violentemente politiche, anche se può sembrare strano. Solitamente, gli epistolari appartengono a personaggi storici, e credo che queste siano significative proprio per la loro umiltà, trattandosi di un detenuto comune. Grazie. Spero potrai leggerle presto, se saranno pubblicate.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
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Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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