Sulla strada

DGdi Gianluca Veltri

 

C’è qualcosa di sbalorditivo nella capacità di Francesco De Gregori a mantenere così alto il livello di ispirazione. Paragonato a più o meno buoni lavori recenti di suoi colleghi (Fossati, Battiato, Guccini), “Sulla strada” si posiziona varie spanne sopra. Come qualità, necessità compositiva, intensità poetica, calore, gioiosità. Nove canzoni senza cedimenti. Sebbene De Gregori e il suo produttore – lo storico “capobanda” Guido Guglielminetti – tendano a negarlo, ancora una volta un album del principe della canzone italiana induce un parallelo con Bob Dylan. Non diretto e immediato, stavolta, ma più articolato. Per “Tempest” s’è detto che si tratta di uno dei migliori lavori di Dylan di sempre, inaspettatamente; lo stesso si può affermare per “Sulla strada”, che si pone come uno dei dischi più riusciti del cantautore romano. Al pari di Dylan, De Gregori sembra aver più che mai interiorizzato le musiche antiche della propria tradizione. Musiche diverse da quelle dylaniane, patrimoni rispettivi; quindi il parallelo in questa occasione non è per somiglianza, ma per analogia. Le melodie di serena malinconia, che solcano gli orizzonti di “Sulla strada” come arcobaleni, attingono ai motivi dei padri, alla canzone mediterranea d’ante e immediato dopo-guerra. Almeno quattro canzoni dell’ultimo disco di De Gregori sono in grado di commuoverci (e non che le altre siano da meno). Vi pare poco, per un artista che festeggia i quarant’anni di attività discografica? Vietato tirare i remi in barca.

In mezzo alle altre canzoni, tra le quali una ballata notturna, felina, in chiusura di disco (“Falso movimento”) e un capolavoro romantico come “Showtime”, De Gregori continua quel meta-repertorio dedicato alla riflessione sul mestiere del cantante, regalandoci un tassello prezioso per chi studia il rapporto tra arte e vita. La canzone è “Guarda che non sono io”. Non è un impressionistico susseguirsi di metafore, come era “Per brevità chiamato artista”; piuttosto un approccio metodologico, definitivo. Sopra uno struggente accompagnamento di pianoforte e archi a cura di Nicola Piovani, cosa ci dice De Gregori in “Guarda che non sono io”? Che l’uomo e il cantante sono come due gemelli: si somigliano magari, ma sono due entità del tutto differenti, che non si conoscono, come un Giano Bifronte. E se tu, fan, incontri l’artista per strada in un giorno qualunque (naturalmente un giorno di pioggia) e volessi chiedergli qualcosa di, poniamo, “Pezzi di vetro”, e confidargli quanto sia stata importante per te, lui ti risponderebbe più o meno: “Guarda che chi canta quella canzone è De Gregori, io sono Francesco e sto semplicemente facendo la spesa, io e lui siamo due persone diverse, non perdere tempo con me, non è con me che devi parlare”. L’unica maniera per comunicare è quella di fruire delle sue canzoni, andare ai suoi concerti (nei quali il cantautore blandisce gli spettatori chiedendo loro retoricamente: “Come faccio a non volervi bene?”), goderne e applaudirlo. Non c’è altra via. L’autore di “Alice” e “Bellamore” è una cosa, la persona che vive la sua vita, tutta un’altra. La querelle, del resto molto stucchevole, su quanto vi sia di autobiografico nel lavoro di un artista, qui rimane alquanto indietro: non è questione di autobiografia, in questo caso si registra una vera e propria scissione. Molta distanza con la coincidenza tra arte e vita di un Guccini, per esempio, uno che ha messo in musica se stesso senza schermi. Quando canta in prima persona Guccini, è proprio lui, “io, Francesco Guccini”. De Gregori, al contrario, anche se usa la prima persona singolare, non parla (necessariamente) di sé. Anche se, paradossalmente, un’eccezione è rappresentata proprio dalla canzone in cui viene negata ogni corrispondenza tra cantante e persona, appunto “Guarda che non sono io”: qui, infatti, De Gregori sta parlando di sé. È singolare l’ossimoro che mette in scena “Guarda che non sono io”, il duello tra parole e musica: da una parte un accompagnamento orchestrale avvolgente e caldo, drammaticamente partecipe; dall’altra dichiarazioni quasi ciniche, o in ogni caso distanti, fortemente non inclusive, che stabiliscono l’impossibilità di avvicinamento umano tra chi canta e i suoi ammiratori, quelli che da quattro decenni vedono la propria vita intrisa della sua musica.

“Passo d’uomo” esprime un altro punto di vista forte del disco: “Vivo la mia vita a passo d’uomo, altra misura non conosco”, canta De Gregori. Manifesto dell’andare a piedi “sulla strada”, senza aver fretta di bruciare le tappe e di essere alla moda: “non c’è niente da nascondere, niente da salvare“. Illo tempore non c’era “niente da capire”. Frattanto il generale di tanto tempo fa oggi è un sergente sgangherato, nel rebetiko “Belle Epoque”, un affresco à la Leonard Cohen su un’epoca di mezzo (“fischia il sasso, fischia il vento, sta arrivando il Novecento”); oppure è il soldatino di un altro brano-chiave del disco, “La guerra”, una sceneggiatura che serve a riaffermare, dopo un secolo infinitamente bellico, che alla fine della guerra scoppierà la pace, ci sarà sempre una vedova disponibile a riaccogliere un uomo nuovo; e un reduce sfiorato dalla morte pronto a farsi aprire la porta. Ricomincia la vita, ricomincia l’amore.

Una delle canzoni più belle del disco è “Omero al Cantagiro”, che trasferisce gli aedi del passato classico dentro ai concorsi canori del secondo Novecento, con una di quelle melodie che ci ricordano i nostri nonni, da cantare senza sapere per forza le parole. Puro piacere della musica, un godimento che sa essere insieme disinteressato e necessario. De Gregori è capace di intenerirci persino quando usa espressioni comuni e fin troppo aduse come “volo a basso costo”, o quando descrive i preparativi di viaggio della “Ragazza del ‘95”, che “rimette a posto il cellulare”: lo sa fare con una grazia che è soltanto sua, in un brano di sapore caraibico dedicato alla rosa che sboccia, alla curiosità incontaminata, alla vita che preme e si affaccia. Anche lei è “sulla strada”, la ragazza del ’95: lo è su un “volo a basso costo”. È in cammino, pronta a farsi sorprendere dal domani, fiuta e brama i giorni, le pagine aperte sul futuro con leggerezza e voglia di scoperta.

 

(ascolta  Guarda che non sono io )

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4 Commenti

  1. bella recensione, concordo, de gregori ha tirato fuori dal cilindro un grandissimo disco. “Guarda che non sono io” è un capolavoro.

    grazie

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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