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Nuovi autismi 32 – Le mie speranze

giordano_falzoni_soleil avec la lune 46-48di Giacomo Sartori

Come tutti gli uomini io sono sempre vissuto di speranze, e vivo ancora di speranze. Spero che la mia malattia abbia una remissione e che sarò liberato dal dolore, spero che la data cosa e la tal altra abbiano un buon esito, spero che non si abbatta la data catastrofe che prima o poi so si abbatterà. Spero che le cose che scrivo incontrino interlocutori a esse confacenti, che abbiano quella minima rispondenza che mi illudo potrebbe procurarmi schegge di pace e benessere. Spero più spesso di avere tempo a disposizione, di non essere strangolato dalle necessità, di essere calmo e poter fare le mie cose. Quasi mai spero di cambiare vita, o di essere felice in modalità straniere alla mia presente quotidianità: spero piuttosto di poter seguitare a fare quello che sempre faccio senza tensioni e senza ansie, senza angoscia, sentendomi bene. Sono come uno scommettitore che punti ormai a una vincita moderata, quasi esigua, ma proprio per questo forse più accessibile, meno aliena. Un giocatore incallito e rovinato dal vizio del gioco, e proprio per questo dimesso, ma non ancora arreso all’evidenza che non si vince mai, non si può vincere.

Passo le giornate a sperare, e quindi abito il futuro: il presente non mi riguarda molto, non mi ha mai coinvolto più di tanto. Il presente lo prendo come le incombenze che ci vengono imposte, come un compagno di viaggio che nolenti o volenti si deve sopportare. Una pantomima con i suoi innegabili difetti, le sue ineluttabili limitazioni, le sue cose orrende. Non è che mi ci ribelli e tanto meno che accumuli rancori, perché sono di indole pacifica, e ho anche spigolato qua e là chicchi di saggezza, ma di là a provare entusiasmi ce ne vuole. Solo il futuro mi seduce, il presente quasi sempre mi da uggia. Vivo in un perenne sabato del villaggio, sullo scadere però della giornata, con la pedissequa domenica che già incombe. Chi mi è più vicino ogni tanto mi dice che dovrei immergermi nell’oggi, che solo quello conta e è vero. Io a tratti mi sforzo, mi sembra anche di fare dei progressi: un tempo il presente mi era per principio ostile e mi ripugnava, ora mi scorta e mi tiene compagnia, e qualche volta mi ispira simpatia. O perfino mi manca: lo spio, lo ausculto come si interpellano i silenzi più enigmatici. Poi però al primo intoppo torno a imbozzolarmi nel futuro, che come è noto non esiste, torno a sperare. Spero che farò la data cosa, che si avvererà la tal altra. Ho quindi l’impressione di non aver vissuto, e per molti versi davvero si potrebbe dire che non ho vissuto.

Da piccolo speravo di morire, in modo che le persone che conoscevo fossero molto tristi, da essere affranto io stesso. La prospettiva di morire mi riempiva di beatitudine, mi faceva versare lacrime di dolorosa felicità, certo la più grande ebbrezza che abbia mai provato. Ma forse più che una vera speranza era un’immaginazione. Resta il fatto che le mie lacrime si portano dietro questo strascico di esaltata disperazione, e quindi piangere è l’attività più appagante che conosca. Ma si piange così poco. L’ultima volta è successo a Roma un mese fa, davanti a un quadro.

Per molti anni ho ruminato il suicidio, ora sono come una barca nella corrente, mi piace lasciarmi trasportare. Certo se le onde crescessero forse tornerei al pessimismo di un tempo, che era anche una forma di godimento, ma per ora mi è dolce farmi cullare. Cerco di non avere rimpianti, non mi sembra bello, e soprattutto poco sincero. Però intendiamoci, sono attaccato all’esistenza, e i legacci che a essa mi incatenano sono appunto le speranze.

Molte mie speranze sono prosaiche, quasi triviali. I ristoranti per esempio mi hanno sempre suscitato epiche e vivide speranze. Infinite volte passando davanti a un dato ristorante sorgeva in me, sorge tuttora, la speranza di andarci a mangiare. Non ancora un desiderio, che a rigore potrei provare a soddisfare: un vago anelito. Mi dico che quel ristorante che sto guardando ha l’aria proprio invitante, mi dico che si deve mangiare davvero bene, e questo basta per generare in me una minuta gioia. Poi beninteso non ci vado, e non di rado il locale cambia apparenza o gestione, da giapponese diventa messicano, o anche chiude, ma il vizio non si spegne: la lista dei ristoranti che hanno risvegliato in me speranze più o meno volatili sarebbe davvero molto lunga. Non parlo dei ristoranti di lusso, che non sono alla mia portata (l’ho già detto, le mie speranze sono morigerate): mi piacciono i locali che mi sembrano accoglienti, dove intuisco si potrebbe mangiare bene e potrei essere contento.

Naturalmente qualche volta mi capita di andarci davvero, in uno dei ristoranti nei quali ho vagheggiato entrare. Come è immaginabile è sempre una prova avvilente. L’ambiente interno non ha quella preziosa particolarità che mi ero prefigurato da fuori, e anzi appena seduto a un tavolo perde tutta la sua singolarissima aura magica, diventa simile a tanti altri esempi che già conosco. Con quelle sacche di tristezza, di sordida mestizia, che caratterizzano i luoghi pubblici. Quegli angoli magari puliti ma senz’anima, che catturano lo sguardo e lo rendono afflitto. E comunque il cibo si rivela essere di solito quello che è, del cibo, cibo richiamante squilibri e imperfezioni, sommarietà, o anche bassezze, imposture, pericoli, come quasi sempre succede al cibo commerciale. Niente a che vedere con la flagranza naturale di una mela molto matura di un albero dimenticato, di una frittata preparata con passione su un fornelletto da campeggio, di una conchiglia strappata a uno scoglio. Il ristorante di turno è insomma detronizzato, diventa un tassello come un altro nella mia mente, una bottega dove si smerciano piatti così-così, se non poco digesti, letali per il mio fisico delicato. Ma ripeto, non frequento i ristoranti cosiddetto di alto livello (che certo mi incomoderebbero prima ancora di approdare all’organolessi).

Analoghe speranze me le suscitano i paesi lontani. Penso spesso a questo o quel luogo dove non sono stato e che per un verso o per l’altro mi attira, mi dico che prima o poi ci andrò. Nella mia mente mi figuro il dato paesaggio o la data metropoli, e spero di gustarli, mi immagino che entrando in contatto fisico sarei felice. Nella mia testa sono un grande viaggiatore. Qualche volta arrivo perfino a informarmi dei biglietti aerei, a esplorare goffamente i prezzi e le modalità. Poi però non vado da nessuna parte, o meglio torno sempre nei posti che già conosco. I cosiddetti viaggi turistici mi ripugnano, e le località nuove mi respingono, mi tengono a distanza con la loro indifferente alterità. Da decenni prendo gli stessi treni, gli stessi aerei, cammino per le stesse strade. Io amo quei treni e quelle strade, dove posso fare le uniche cose che mi interessano, non altri treni e altre strade, treni e strade che non hanno niente a che fare con me. O meglio, un po’ li odio, li considero per così dire i miei carcerieri, i miei spietati aguzzini, ma anche li amo. So che non potrei amare di primo acchito spazi e architetture nuove. Non prima di esserci stato tanto tempo, prima di averci penato e sofferto. Ho sperimentato che mi è impossibile amare senza passare per un travagliato apprendistato. So che i turisti amano la loro immagine, la loro domestica ombra riflessa su sfondali rinomati, non i posti dove sfilano.

Talvolta, ma non tanto spesso, una mia speranza si aggruma, coagula prendendo la forma di un’entità perseguibile, di un desiderio preciso: un oggetto, un’azione. Sono il primo a stupirmene. Certo prima succedeva, e anzi i desideri che ne derivavano erano non di rado impazienti, dispotici, brutali, immorali, sadici. Da anni constato che la forza prorompente di questi non è la stessa: si diradano, diventano meno densi e più lassi, come un cielo che si rassereni. Non si presentano nuovi candidati, e quelli residui regrediscono allo stato di nembi sfilacciati: vaghe speranze, appunto. Le speranze sono meno impegnative e più malleabili (i desideri si addicono ai giovani e ai fanatici, dopo una certa età affaticano): sono piacevoli compagne di viaggio, discrete e servizievoli e docilmente funerarie come geisha.

(l’immagine: Giodano Falzoni, “Soleil avec la lune”, 1946-1948)

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9 Commenti

  1. gli autismi di sartori crescono, si aggregano, fanno sistema, sono micidialmente efficaci: battono il terreno dell’esistenza a tappeto, con precisione implacabile come cecchini: dove c’è cartongesso (quasi ovunque), mollano pacatamente la loro picconata. La nostra edificata identità, tutto facciate e colonne ornamentali, si riduce a quei bassi contorni di pietra, che si riscontrano nelle città antiche, rase al suolo dai millenni, di cui gli archeologi hanno pazientemente messo a vista residui di muratura, di dieci venti centimetri.

    • i complimenti di Inglese sono come certi vini rossi (stavo per dire come quei cioccolatini Lindt quadrangolari con la stagnola blu, poi ho trovato appunto di meglio)che ti riempiono la bocca di vampate successive di deliziosi aromi …
      (basta, altrimenti dicono che ci incensiamo a vicenda)
      (ps: e poi è anche delicato, perchè i refusi agronomici me li segnala in privato: “forse volevi dire …”)

      • Scusa se sono indelicato allora, sono anche molto frettoloso le poche volte che riesco a leggere. I tuoi Autismi cerco di non perderli, e pensavo che vorrei leggere un autismo informatico “Le mie password” prima o poi. Mi toccherà scriverlo prendendo a prestito la formula?

        • mi sa che ti verrebbe meglio a te! (comunque anche anche nel mio piccolo è un vero tormentone: ho un file di tre pagine fitto di password: poi naturalmente quando ne cerco una non è quella aggiornata …)

  2. leggendo, con gran piacevolezza per la tua scrittura, della tua concezione del futuro e del presente, mi vien da pensare, per contro, a Carlo Michelstaedter e al suo La Persuasione e la Retorica, che vede il presente come unico vero obiettivo esistente e importante. Libro per molti versi sconvolgente e inquietante. Interessante che Inglese parli di cartongesso: ma non è forse il materiale di cui appunto è fatto il futuro?

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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