Inedite
di Daniele Ventre
1.
Sarebbe dolce salpare seguendo i sussurri piani
tra fuochi lungo le rive d’oceani e cuori di palma:
cullati su un legno lieve abbandonarsi alla calma
piatta dell’onda tranquilla fra scie di sogni lontani.
Ma il gioco si chiuderebbe secondo il copione antico
degli albatri zoppicanti fra risa di marinai
fenici (alla fine muti fra allegri canti di lai
inghiottirebbe noi tutti ingordo il gorgo lubrico).
Il numero che vi seduce è forse solo un gioco strano di consonanze, un tempo umano scandito all’ombra che ricuce il tessuto stanco dei mondi. Eppure non sai la carezza che ritma i sussurri profondi del vento, che spettina i rami contro il senso fatuo che trami, contro la farsa che ti spezza. 4.
A volte nelle scorie del trascorso riconosci un residuo di ragioni segnate nella forma del rimorso. Nella scelta che adesso ricomponi con le rughe tracciate sul tuo volto dal tempo cerchi senso alle visioni che in figura ti mutano all’ascolto del silenzio e alla voce che l’angoscia ti sussurra dal buio che t’ha avvolto. Così sogguardi la pioggia che scroscia lungo le sbarre liquide dei vetri vittima del tuo giorno che t’angoscia. E in quel tuo giorno raggricciato impietri, o forse ti dischiude orma e spiraglio la ragione leggera degli ipetri. Così gli incerti luccichii d’abbaglio ti rendono meschino all’occhio quieto che ti carezza in turbini di maglio. E forse meglio ti sorride il lieto trascorrere dei giorni senza ruggine e senza questo interrogarsi vieto che ti macera dentro: tu rifuggine l’incanto che s’avvita attorno al nulla per vita che il destino orba, tu fuggine l’inutile rovello che ti culla, lasciati vivere al giorno che viene e al caso che nei dadi si trastulla per paradosso e scandalo alle scene che irridono sé stesse e la commedia battuta al ritmo alterno delle vene, al polso delle attese che t’assedia. 5.
Nel tempo che scorre uguale ascolti le strane ragioni che gli uomini inventano ancora per credere che abbia effetto il suono di troppe voci sull’ordine senza spiragli. Sì forse potresti ancora ascoltarla, un’eco di forme, nel cupo silenzio dei grumi di materia senza ragione, se solo si avesse il senso e il pudore di non credersi unici padroni di qualche vero o di qualche formula arcana che gli altri (gli sciocchi!) non hanno, gli altri, che seguono il tempo secondo la loro specie. Ma non crederci che la parola sporca, gettata in un angolo ti dia la patente del vero (per tua benevola sorte) o qualche misura del bello, se intanto di là dai gridi fiochi di pazzi e giullari il tempo ricorre uguale e così la favola antica che scandisce il segno al declino. Così la parola vuota, la voce limpida e astratta, che non sa riempirsi di corpo, si tende sul corpo scabro delle rocce con nudo tessuto di rete sdrucita dall’onda. Si perde su nubi impalpabili e su grumi lievi di nebbia, e ancora tutto la sfugge: il senso dell’erba ingiallita e dell’iride d’acqua e benzina, il senso degli alberi fiacchi lungo i viali d’autunno la ragione dei passi stanchi che i viali d’autunno ascoltano, adesso che rughe assorte ti scavano dentro la mente.
2. Mi chiedi poi se le voci sappiano prendere norma e carne viva fra l’ombra disintegrata dei volti. Io non lo so: ma tu centra la forma e le circostanze abita le vicinanze contro la fuga che qui ti decentra. Riprenditi le ragioni e le parole rimosse: poco ci importa dei topi qui partoriti da cime terremotate e percosse. 3.
Il numero che vi seduce è forse solo un gioco strano di consonanze, un tempo umano scandito all’ombra che ricuce il tessuto stanco dei mondi. Eppure non sai la carezza che ritma i sussurri profondi del vento, che spettina i rami contro il senso fatuo che trami, contro la farsa che ti spezza. 4.
A volte nelle scorie del trascorso riconosci un residuo di ragioni segnate nella forma del rimorso. Nella scelta che adesso ricomponi con le rughe tracciate sul tuo volto dal tempo cerchi senso alle visioni che in figura ti mutano all’ascolto del silenzio e alla voce che l’angoscia ti sussurra dal buio che t’ha avvolto. Così sogguardi la pioggia che scroscia lungo le sbarre liquide dei vetri vittima del tuo giorno che t’angoscia. E in quel tuo giorno raggricciato impietri, o forse ti dischiude orma e spiraglio la ragione leggera degli ipetri. Così gli incerti luccichii d’abbaglio ti rendono meschino all’occhio quieto che ti carezza in turbini di maglio. E forse meglio ti sorride il lieto trascorrere dei giorni senza ruggine e senza questo interrogarsi vieto che ti macera dentro: tu rifuggine l’incanto che s’avvita attorno al nulla per vita che il destino orba, tu fuggine l’inutile rovello che ti culla, lasciati vivere al giorno che viene e al caso che nei dadi si trastulla per paradosso e scandalo alle scene che irridono sé stesse e la commedia battuta al ritmo alterno delle vene, al polso delle attese che t’assedia. 5.
Nel tempo che scorre uguale ascolti le strane ragioni che gli uomini inventano ancora per credere che abbia effetto il suono di troppe voci sull’ordine senza spiragli. Sì forse potresti ancora ascoltarla, un’eco di forme, nel cupo silenzio dei grumi di materia senza ragione, se solo si avesse il senso e il pudore di non credersi unici padroni di qualche vero o di qualche formula arcana che gli altri (gli sciocchi!) non hanno, gli altri, che seguono il tempo secondo la loro specie. Ma non crederci che la parola sporca, gettata in un angolo ti dia la patente del vero (per tua benevola sorte) o qualche misura del bello, se intanto di là dai gridi fiochi di pazzi e giullari il tempo ricorre uguale e così la favola antica che scandisce il segno al declino. Così la parola vuota, la voce limpida e astratta, che non sa riempirsi di corpo, si tende sul corpo scabro delle rocce con nudo tessuto di rete sdrucita dall’onda. Si perde su nubi impalpabili e su grumi lievi di nebbia, e ancora tutto la sfugge: il senso dell’erba ingiallita e dell’iride d’acqua e benzina, il senso degli alberi fiacchi lungo i viali d’autunno la ragione dei passi stanchi che i viali d’autunno ascoltano, adesso che rughe assorte ti scavano dentro la mente.
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[…] By unadiuno13 ¶ ¶ Tagged Daniele Ventre ¶ Lascia un commento Mi chiedi poi se le voci sappiano prendere norma e carne viva fra l’ombra disintegrata dei volti. Io non lo so: ma tu centra la forma e le circostanze abita le vicinanze contro la fuga che qui ti decentra. Riprenditi le ragioni e le parole rimosse: poco ci importa dei topi qui partoriti da cime terremotate e percosse. Daniele Ventre […]
sono molto belle. la quinta è splendida.