Apollonio Rodio: Argonautiche IV, 109-182.

trad. isometra di Daniele Ventre

Proprio nel tempo in cui via dagli occhi allontanano il sonno
i cacciatori (nei cani confidano, né della notte
dormono l’ultima parte, ma fuggono luce d’aurora,
prima non faccia sparire l’impronta di fiere o l’odore
degli animali, una volta che accenda i suoi dardi lucenti),
scesero giù dalla nave l’Esònide e poi la fanciulla,
sopra un’erbosa radura, in quello che letto d’ariete
chiamano, dove in principio l’ariete piegò le ginocchia
stanche d’avere sul dorso il figlio minièo d’Atamante.
Presso sorgevano poi le fumide basi d’un’ara,
quella che a Zeus degli Esilii già eresse l’Eòlide Frisso,
sacrificando la bestia tutt’oro, nel modo che disse
Hermes a lui con intento benevolo. Là per consiglio
d’Argo li avevano allora condotti a sbarcare i campioni.
Vennero lungo la via fino al sacro bosco, quei due,
alla ricerca del faggio enorme, nei pressi di cui
posto era il vello, in aspetto di nuvola, che per i raggi
fiammei del sole che stia levandosi brilli di rosso.
Ecco però che già il drago tendeva il lunghissimo collo
contro di loro, con gli occhi insonni li aveva già visti
giungere a sé: sibilava immane e gridavano intorno
l’ampie riviere del fiume e con esse il bosco infinito.
Anche l’udirono quanti tenevano terra di Colchi
via dalla plaga Titania d’Eèa, sulle foci del Lico,
quello che nel dipartirsi da un fiume sonoro, l’Arasse,
versa la sacra corrente nel Fasi –ed infine ambedue
scorrono uniti e nel mare del Càucaso sfociano insieme.
Nello sgomento le madri si scossero, intorno ai bambini,
che stretti al seno con loro dormivano, ai teneri nati,
scossi a quel sibilo, piene d’angoscia gettaron le braccia.
Come allorché su una selva in preda alle fiamme d’attorno
fumide spire d’incendio si volgono senza misura,
subito l’una sull’altra si levano ad ogni momento
e con le loro volute s’innalzano in aria dal fondo:
sì, così allora quel mostro veniva avvolgendo i suoi nodi
senza misura, coperti com’erano d’orride squame.
Mentre così s’avvolgeva, sott’occhio gli andò la fanciulla
che con la voce soave chiamò soccorrevole Sonno,
sommo fra i numi, a incantare il mostro, e invocò la regina
infera, madre notturna, benevola, desse il suo aiuto.
Dietro veniva, atterrito, l’Esònide: subito il drago
preso che fu dall’incanto, allentò la spina distesa
della terrigena spira, allungò gli innumeri anelli,
come allorché sopra l’onde in quiete si viene volgendo
livido, senza rumore, un enorme flutto; e levava
alta comunque la testa orribile, nel desiderio
di stritolare ambedue fra le spaventose mascelle.
Nel ciceone la giovane un ramo tagliato di fresco
dunque bagnò, di ginepro, e i possenti farmaci sparse
sopra quegli occhi, coi canti, e intorno l’odore del filtro
blando lo avvolse di sonno. Lasciò ricadere lì in terra
e rilassò la mascella; gran tratto le spire infinite
dietro di sé le distese nel bosco intricato di rami.
Già il vello d’oro l’eroe l’aveva sottratto alla quercia,
come ordinò la fanciulla: quest’ultima, ergendosi salda,
tinse nel farmaco il capo del mostro, fin quando lui stesso,
Giàsone, non la invitò a fare di nuovo ritorno
sopra la nave e lasciarono il bosco di tenebra d’Ares.
Come una vergine accoglie attraverso il peplo sottile
baluginio della luna, che pieno si viene levando
alto sul talamo, tetto elevato, e dentro il suo cuore
gode mirando il superbo brillio, così Giàsone allora,
lieto com’era innalzò fra le proprie mani il gran vello
e sulle bionde sue guance e non meno sopra la fronte
sorse al brillare del vello un rossore simile a fiamma.
Quanto è distesa una pelle di bove d’un anno, o di cervo,
quello che chiamano appunto cerbiatto gli esperti di cacce,
tanto era grande, quel vello, e tutto dorato e al di sopra
era coperto e pesante di bioccoli; intanto la terra,
al suo avanzare, ai suoi passi, brillava a un continuo bagliore.
Egli avanzava gettandolo a volte alla spalla sinistra,
giù fino ai piedi dall’alto del collo, altre volte l’aveva
stretto alla presa, poiché più di tutto ormai paventava
che si accostasse a rubarlo un altro fra gli uomini o un dio.

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4 Commenti

  1. Per la prima volta nella mia vita leggo il termine “isometrico”. Ma davvero si dice così negli studi classici? Ma quando mai! Sarà un millennio e mezzo che non c’è più la quantità delle sillabe… e poi su questo stesso sito/blog leggo le critiche al linguaggio del potere, agli “eufemismi” della guerra al terrorismo. Non sarebbe il caso di cominciare dal piccolo, per es. facendo ordine in casa propria? Scrivete: “versi ersatz” e battetevi fino alla morte per stamparlo su tutti i libri di storia della letteratura. La triste verità è che l’Alvàro Vitali dei tempi di Augusto sapeva recitare versi metrici meglio di qualunque classical scholar plurimasterizzato moderno.

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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