Da “Primo romanzo morto”

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di Guido Caserza

In breve

L’ispettore Polibio indaga su un caso enigmatico. Il cadavere di un eminente uomo politico è scomparso. La sua indagine lo porta a scoprire complotti massonici e segreti di Stato. Fra apparizioni fantasmatiche e ricordi di vita coniugale, l’inchiesta si trasforma in una delirante anamnesi famigliare: un nesso oscuro collega i delitti di una famiglia a quelli della nostra storia repubblicana. Dal passato riemergono la Gladio, le stragi di Stato, la P2 e il complotto di Licio Gelli. Ma, nel 2012, tutto è destinato a sparire per sempre, meno una misteriosa borsa in pelle nera, che contiene molti segreti.

*

Preambolo

«Ora sei un uomo morto», disse rivolto alla bara. Quindi fece una pausa, affinché il monito della sua orazione risuonasse in quel silenzio studiato, in cui le parole sarebbero rimaste in sospensione, vibrando nell’intimo dei convenuti, ognuno dei quali si sentiva chiamato in causa, perché «niente di tutto ciò che esiste sfugge al condizionamento della morte, e nessuno di noi può dire quando essa verrà»(1).

Fece un’altra pausa, volgendo nuovamente lo sguardo al feretro, sebbene il suo sermone fosse rivolto, più che al defunto, all’uditorio: capziosamente, il porporato si serviva dell’illustre cadavere per ammonire i vivi, dimodoché la questione retorica – «dove sono i tuoi piaceri? dove le tue amicizie? dove i diletti mondani?» – suonò come un ammonimento che tutti recepirono individualmente, sentendosene scossi, anche se fra qualche ora avrebbero già dimenticato la tremendità del momento e sarebbero tornati «alle miserie, agli affari, alle stoltezze di ogni giorno che, come il tarlo, vi svuotano dall’interno». Ma per ora eccoli, trasformati essi stessi in cadaveri, pavidi davanti alla morte e, mentre il presule mostrava agli ottenebrati la gioia di una morte «piena di significato, festosa come una nascita», il sole, emerso da un nembo che lo aveva oscurato, vestendolo per alcuni secondi a lutto, lanciò un dardo di corpuscoli  che, penetrando attraverso il rosone della cattedrale, colpirono l’anello del prelato, dove sembrarono indugiare qualche istante, compattandosi e formando un grumo di luce, riverberante sulla gemma, prima di continuare la loro corsa, ramificandosi e discendendo a cascata sullo stemma stampigliato sopra il coperchio della bara, raffigurante tre melagrane socchiuse sostenute da una colonna(2), smaltandone di granelli d’oro i bordi e illuminando con un bagliore riflesso gli elmi dei corazzieri, ritti sull’attenti a presidiare la cassa; dopo avere tentennato sulle piume degli elmi, avvolsero, spandendosi come un liquido, il volto del predicatore e la bara, che risplendevano in comunione, mentre l’interno della cattedrale appariva freddo e buio.

Da quel lembo di luce, che indugiava sulle guance e sulla fronte senili, il cardinale attinse nuova ispirazione – «cercate fra gli uomini un raggio di luce e non troverete che disperazione, poiché la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» -, prima di prodigarsi, in preparazione dell’epilogo, nell’encomio del defunto – «questo uomo illustre ha goduto di giusti e dovuti benefici, mite nell’arbitrio che gli derivava da una potente carica, ha governato con magnanimità e con paziente discernimento ha giudicato il mondo. Ora, egli è ammutolito per sempre.»

Intanto, seguendo ipnoticamente quella scia luminosa che continua a promanare dall’alte vetrate, un moscone percorre risoluto la navata centrale, distende le alette, la cui trasparenza rifrange delicatamente la luce imprimendole un’impercettibile deviazione, poi, puntando la proboscide e spalancando gli occhietti, plana ronzando al di sopra del catafalco, disegnando ellissi sempre più strette, in una spirale che precipita sul proprio asse, esattamente sopra lo stemma della bara, dove il moscone si adagia, emette un ronzìo sommesso prima di ruzzolare, stordito dall’odore di incenso, ai piedi del cataletto, dove la sua livrea riverberante sembra pretendere lo stesso sfarzo del metallo dei corazzieri, per poi spegnersi in un gorgoglìo cupo, una lamentazione sorda e rancorosa che sembra provenire dall’interno della bara, dove, con il testone sprofondato nel cuscino, sbarbato di fresco, un paio di scarpe nuove e gli occhiali inforcati per sempre sugli occhi, di cui il destro imperfettamente chiuso, come se volesse compitare i presenti venuti a omaggiarlo, con il deferente inchino che si deve ai grandi della terra, l’ammutolito giaceva, attendendo con pazienza il lento sfilare dei dolenti, prima di sprofondare nel suo avello definitivo.

Sopravvivendo alla polvere del corpo, il suo spirito si librava già nel cielo, da dove osservava le conseguenze terrene della sua morte: la notizia del decesso si era diffusa in pochi minuti, non tanto per i notiziari che sin dalle prime ore del mattino avevano continuato a rilanciare la notizia, quanto per il passaparola della gente che era uscita nelle strade dando luogo a un brusìo ininterrotto, un mormorìo diffuso che aveva presto soppiantato il rumore del traffico mattutino. Gli annunci mortuari, poi, avevano fatto il resto: la locuzione È MORTO campeggiava, nero su bianco, sui muri della città. Non occorreva altro per definire l’evento, la sintassi della morte, icastica e tautologica, non prevedeva altri defunti degni di tale predicato e, in un amalgama di emozioni e congetture, chiunque aveva facilmente intuito la grandezza del soggetto.

Cartellini, con su disegnate delle frecce, erano stati affissi agli incroci: indirizzavano la folla verso la chiesa dove la bara era stata alloggiata, ossia, come rimuginava tra sé e sé il nostro ispettore, il luogo di un’indecente pantomima, una farsa della trasmigrazione verso cui convergevano, a gruppi, gli appassionati della morte, impiegati, casalinghe, giuristi, prostitute, becchini, elettricisti, camerieri, commercianti, muratori, finanzieri, studenti, commercialisti, idraulici, accorso ciascuno a venerare quel morto fondamentale e, insieme, a rivendicare la propria particella di morte.

Nel mezzo della chiesa, vista dall’alto della cuspide, attraverso il foro da cui dilagava ora una luce biancastra, poggiata sul catafalco, tra i ceri ardenti e i due immobili corazzieri, pietrificati nel lustro cerimoniale, la bara in radica di ciliegio, con incisioni sui fianchi raffiguranti il calvario, sembrava contenere a fatica il corpo del grande, guardata di sottecchi dai necrofori defilati nel tamburo della chiesa, in attesa che la cerimonia finisse per issare gloriosamente sulle spalle il feretro mentre, dondolando il turibolo, il cardinale avrebbe accompagnato l’illustre al camposanto dove, calandolo con le corde, lo avrebbero per sempre congedato dal mondo.

Ma intanto, nel momento in cui le argomentazioni del predicatore si trasformano in immagini liriche, alleggerite dei riferimenti eruditi, per poi tornare all’ammonimento severo, ingentilito di sostanza poetica e impregnato di una metafora essenziale, attinta agli antichi testi – «i giorni dell’uomo sono come il fiore del campo, che fiorisce: se il vento lo investe, non esiste più, né si riconosce più il suo luogo»(3) -, da dentro la cassa sembra che risuoni qualcosa, un richiamo ai propri doveri, un monito per coloro che nella vita hanno tradito, raccolto dai compagni di partito che, davanti a quel richiamo, non hanno neppure il coraggio di guardarsi negli occhi: in piedi, davanti alla bara, sembrano fissare le punte delle proprie scarpe, in realtà regolano i conti con la propria coscienza, perché sanno che la sua morte è il risultato di una congiura a cui nessuno di loro si è opposto. Ora, mentre il cardinale, affidato «questo corpo, un tempo magnifico, adesso misera spoglia, al sommo verdetto», volge la schiena al defunto e lentamente muove i piedi, piccoli e tozzi, infilati in un paio di pantofole in raso turco, non in omaggio al cerimoniale ma alla gotta che da qualche anno lo tormenta, sugli ampi scalini che si aprono a ventaglio verso l’altare maggiore, da dove, guardando verso Oriente, esorterà i fedeli recitando il suo Conversi ad Dominum, sembra che vogliano gettarsi sulla bara, salire sul feretro e cavalcarlo, perché si sono inginocchiati tutti insieme, poi si sono rialzati sbilanciandosi in avanti, e il più vecchio di loro ha incominciato a declamare un breve elogio funebre, poggiando una mano sul pannello inferiore del feretro. Il vecchio ha le orecchie aguzze, il mento sfuggente, la bocca sembra sparire in un taglio sottile, in armonia con la gobba su cui si incunea la testa schiacciata sullo sfenoide. Il naso è piccolo, sopraffatto da guance ricche di grasso infantile che cascano su mascelle sfuggenti: l’ex capo di gabinetto pronuncia il suo saluto istituzionale, senza mai lasciare che il suo sguardo incroci quello inquisitorio del morto, che egli immagina trapassare la bara in cui è rinchiuso.

Tutti gli altri, sentendosi trapassare da quello sguardo, hanno abbassato il proprio, dissimulando il tremore in un raccoglimento compunto e devoto, e hanno intimamente cacciato il defunto nell’abisso e nella tenebra, o nell’eterna salvezza, assecondando così gli umori del rancore e della colpa. L’anima transfuga del morto ha infine recepito l’applauso corale, quando la sua bara, issata da quattro necrofori, dopo aver percorso la navata centrale, tra due ali di uomini e donne che sembravano aprirsi al suo passaggio, ha travalicato la soglia, sogghignando mentalmente dell’ottuso lutto della  folla, gregario e pieno di autocompiacimento, attraverso la quale si fa largo il nostro ispettore, opponendo ai rimostranti il suo distintivo e un sorriso schernevole. Seguito dai suoi due agenti scelti, si rivolge loro con un tono beffardo: «volevate vedere un bel cadavere voi due». Fra poco glielo mostrerà: il loro primo cadavere di stato, l’uomo dalla mandibola dura e dalle scarpe perennemente tirate a lucido, il vacuum della nazione, attraverso cui transitavano i grandi capitali sottratti al fisco, come quelli che stanno lasciando la patria nell’ora in cui suonano le campane a morto.

Soggiunto su quella soglia, il cardinale, giungendo le mani, attende che la bara venga adagiata sul carro funebre, mentre il cocchiere calma i cavalli, lisciandone le groppe calde e ripiene con il palmo della mano, poi il Segretario della Presidenza della Repubblica fa cenno al cocchiere di dar l’abbrivio alla quadriga, dietro cui s’accodano i famigliari e gli uomini dello Stato, il nostro ispettore e i due agenti, e la lunga fila degli ammiratori della morte: cammineranno per due chilometri, impastoiando le scarpe dentro voluminose spirali di sterco equino, tra le schiere dei veneranti che getteranno fiori sul carro, fino a quando la testa del corteo giungerà al cimitero, dove entreranno solo le gerarchie maggiori, in quell’ettaro di cipressi, disposti in una geometria di stradine in ghiaietto bianco, tutte confluenti verso la tomba di famiglia del grande, dove sarà sepolto per volontà testamentaria. I responsabili dell’allestimento avranno provveduto a tracciare il percorso con garofani rossi, mentre ai fianchi del cancello d’ingresso della tomba, un mausoleo che si eleva su un piedistallo in marmo rosso, coronato da una cupola in granito verde, saranno riposti i fiori della morte e dell’innocenza, giaggioli e tulipani, crisantemi, gigli, gladioli e clematidi oscenamente aperte, appena irrorati dalle mani dei silenziosi giardinieri d’Arcore, sulla cui sommità spicca, come un fiocco di seta, il bianco fiore della calla. La bara è stata poggiata sul pavimento circolare del mausoleo, pronto a inglobarla nelle sue camere, dove riposano gli avi illustri, una genealogia di uomini di Stato, sotto coltri e drappi di marmo lustrati per l’occasione. Il gruppo eminente di politici e di alte uniformi si è disposto in cerchio intorno al feretro, la vedova cela le lacrime dietro gli occhiali scuri, mentre il cardinale impartisce l’ultima benedizione. Appena in disparte, appoggiato al recinto che delimita il mausoleo, il nostro ispettore fa cenno ai due agenti, occultati dietro una siepe, di raggiungerlo: il piccolo corteo esce dal sepolcro, la vedova, padrona di casa ritta sulla soglia, stringe mani e riceve condoglianze, ed è l’ultima, sorretta dai due figli, a lasciare il cimitero.

Ora l’ispettore e i due agenti devono solo attendere l’arrivo del Pubblico Ministero e del funzionario delle pompe funebri: trascorre un’ora, durante la quale i due agenti passano in rassegna i nomi incisi sulle varie lapidi, date di nascita e date di morte, fanno considerazioni più o meno convenzionali sulla brevità della vita, mentre l’ispettore, fra sé e sé, rimugina sull’insolito mandato, l’apertura di una bara appena sigillata. Giunse infatti voce, al commissariato, del trafugamento di un prezioso quaderno che, da testamento, avrebbe accompagnato il morto nel suo viaggio ultraterreno, forse un libro di preghiere cui l’anima avrebbe potuto rivolgersi nei momenti più perigliosi del transito, quando vecchie e terrene lusinghe la distraggono dal suo pellegrinaggio verso la luce, sciocchezze, qualcosa di scottante invece, un segreto di Stato che, finendo in mani improprie, potrebbe esporre la Repubblica a immondi ricatti; ma ecco il piemme e il funzionario, entrambi imperturbati in professionale aplomb, il primo con lo sguardo penetrante e fervido dell’uomo di giustizia, il secondo con il consueto cipiglio funesto, da condolente di circostanza; l’ispettore fa strada, mentre sopraggiungono i due agenti, affannati da breve corsetta, insieme entrano nel mausoleo, dove il funzionario, dopo averla dissigillata, apre la bara. Riposto il coperchio contro il fianco del cofano, a un cenno del piemme l’ispettore si avvicina al feretro, curvandosi per visionarne l’interno e lì restando, ammutolito per lo sbalordimento, qualche secondo, per poi riprendersi e, tornato ritto, con sbigottita voce dire: dottore, la bara è vuota. Assieme al quaderno, era sparito anche il cadavere.



1) Padmasambhava, Il libro tibetano dei morti, Milano, Mondadori, pag. 141.

2) Simbolo massonico che appare come motivo di decorazione della Loggia nel Grado di Apprendista.

3) Salmi, 103: 15-16.

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5 Commenti

    • beh, si dovrebbe considerare il fatto che il cervello umano è in grado di interessarsi pressochè a tutto…. dovrebbe perciò essere piuttosto agevole accendere tale interesse in un arco di un paio di pagine; più difficile è mantenerlo vivo per tutto lo svolgimento di una vicenda, specie, secondo me, se narrata in tono così pomposo. Certo, trattandosi di un funerale di stato dobbiamo evidentemente sopportare uno stile tanto ricercato ma ci auguriamo che le indagini siano più incalzanti e pragmatiche.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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