Dove ho lasciato l’anima

di Gianni Biondillo

Jérôme Ferrari, Dove ho lasciato l’anima, Fazi Editore, 170 pag., traduzione di Maurizio Ferrara

Cinquant’anni ci separano dalla fine della guerra di indipendenza dell’Algeria, ferita ancora aperta nella coscienza del popolo francese, che si scoprì, nella sua cieca visione colonialista, feroce tanto quanto i “terroristi” – “patrioti”, visti dall’altra parte – che credeva di combattere.  Jérôme Ferrari la ferita non la sutura in Dove ho lasciato l’anima, semmai la incide nuovamente, la lascia sanguinare, affinché nessuno dimentichi.

Il romanzo si può leggere su due livelli: uno è quello degli avvenimenti della storia francese riletti a ciglio asciutto. André Degorce è un capitano dell’esercito che cerca, senza ormai cederci più, di arginare una rivoluzione inevitabile, utilizzando tecniche che non rispettano alcuna convenzione internazionale. I suoi metodi sono condivisi dal tenente Andreani, discepolo accecato dalla figura epica del capitano. Ma l’arresto di Tahar, inflessibile capo della resistenza algerina, rimette in gioco le certezze di tutti: Degorce ha conosciuto in gioventù la follia dei campi nazisti e la prigionia in Indocina. Un eroe, che da vittima non ha mai perso la sua dignità d’uomo. Ma la condizione vittimale – ecco il secondo livello di lettura, più esistenziale e profondo – può per assurdo essere migliore di quella di carnefice, quello che Degorce è diventato in Algeria.  Di fronte alla dignità di Tahar di attendere la sua fine, tutta la retorica militare del capitano si sfa, lasciandolo solo con l’orrore che ha saputo procurare per raggiungere i suoi scopi.

Questi due livelli del discorso si ritrovano nelle due forme di scrittura di Ferrari: quello dei nudi fatti, con un linguaggio spoglio che lascia spazio ai dialoghi e alle descrizioni, e quello del tormento psicologico, identificabile dagli ininterrotti monologhi interiori di Andreani, che dichiarano di continuo l’odio verso chi ha ammirato per anni, come di fronte ad uno specchio che non esclude alcuna mostruosità dell’anima. Quella perduta per sempre da chi ha accettato la disumanità della violenza per la violenza.

 

(pubblicato su Cooperazione, n.42 del 16 ottobre 2012) 
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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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