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Nuovi Autismi 30 – I vecchi

di Giacomo Sartori


I vecchi sono ingombranti, e spesso anche molto costosi. Bisogna farli accudire da una badante, e le badanti costano. La paga oraria non è certo alta, anzi spesso è da fame, ma considerando che un vecchio bavoso lo è ventiquattro ore al giorno sette giorni in settimana, viene fuori un patrimonio. A far bene bisognerebbe poterli rottamare. Ma sarebbe un repulisti un po’ di cattivo gusto: siamo diventati molto egoisti, e per soddisfare le nostre voglie e ubbie siamo pronti a qualsiasi cosa, ma non siamo cruenti, non siamo sanguinari. Senza contare che a qualcuno ricorderebbe forse certi eccessi del passato, e verrebbero fuori mille polemiche. Siamo squali buonisti e inclini ai sentimentalismi, amiamo avere buona coscienza. E poi a trucidare i vecchi fuori uso si abbasserebbe l’età media, mentre noi teniamo molto all’età media. Se per esempio abbiamo cinquantaquattro anni e siamo italiani e di sesso maschile, faccio un esempio a caso, ci fa piacere pensare che statisticamente vivremo fino a settantanove anni. Magari rincoglioniti, e con una badante straniera, ammesso e non concesso che qualcuno ce la pagherà (chi?), però insomma abbiamo qualche probabilità di vivere fino a settantanove anni. Ci scoccerebbe pensare che a causa dello sterminio di tutti i vecchi rincoglioniti vivremo solo fino a settantatre anni, o addirittura fino a settantuno, tanto per dire. E allora bisogna sopportarli, e mettere mano al portafoglio.

Una volta si pensava che i vecchi a dispetto dell’apparenza avessero molto da insegnare: invece di guardarli con sconcerto gli si chiedevano delle cose, nelle famiglie e nei villaggi li si ingaggiava come consulenti nei campi più disparati. Venivano riveriti e rispettati come preziosi reperti archeologici, coccolati peggio di cagnolini. Si pensava che detenessero la verità, o insomma che detenessero un grado superiore di verità rispetto alle persone più giovani. Era una credenza illogica e delirante, ma in fondo sul piano personale anche consolante: uno si diceva che con l’età la salute e le facoltà sensoriali e intellettive scemavano, e spesso anche l’umore si degradava, ma aumentava la saggezza, lievitavano la stima e l’apprezzamento. C’era insomma una sorta di compensazione. Adesso non ci sono attenuanti, si va verso una degradazione a tutto campo. La demenza senile, così diffusa, è la metafora di inettitudini e inutilità non più occultabili.

Quando uno comincia a non essere più tanto giovane si imbruttisce e le sue prestazioni si fanno meno efficienti, si pensa ora: come un aggeggio elettronico più che superato, come un telefonino di una generazione ormai obsoleta. Poi il processo di obsolescenza va avanti, fino a diventare imbarazzante, grottesco. Nessuno si sognerebbe di mostrarsi con un computer di venti anni fa, mentre certi vecchi impresentabili vanno ancora in giro come se niente fosse, ci si dice. È un nuovo sistema di pensare, e la storia ci ha insegnato che le nuove visioni hanno sempre ragione, o comunque finiscono per fare piazza pulita delle vecchie. Va quindi considerato un progresso, una nuova tappa nella parabola gloriosa dell’umanità. I primi a capirlo sono i vecchi stessi: nel tentativo di mimetizzarsi indossano scarpe da ginnastica e felpe con il cappuccio, fanno in tutti i modi i giovani. Il che agli occhi dei veri giovani è ancora più sconveniente.

Il mondo evolve, è normale. Le difficoltà sono per quelli che sono un po’ rimasti attaccati al passato e un po’ no, quelle vie di mezzo che per nostalgia o altro fanno fatica a incenerire le vecchie credenze, pur avendole sempre osteggiate. Come per esempio il sottoscritto. Diciamo la verità, io di fronte a molti giovani che frequento (tutta la mia cosiddetta giovinezza l’ho passata con persone più anziane di me, ora attorno a me ci sono solo individui più giovani: forse proprio per questo faccio fatica a attribuirmi una precisa età sociologica), penso di avere una marcia in più. Riconosco nel loro agire una maggiore coerenza coi tempi, e rinvengo in loro plaghe di mistero, sintomo indubbio del mio progressivo anacronismo, però mi sembra pur sempre di sapere come finiranno le frasi, come si gratteranno, come si tumefaranno col tempo le loro facce. Nei loro occhi vedo che mi considerano un relitto ormai fuori competizione, ma a me paiono quegli orologi nei quali si può ammirare il meccanismo interno, prevedibili nel loro atemporale ticchettare. È un’illusione ottica, un’allucinazione, però non riesco a liberarmene. Mi dico anzi che loro stessi dovrebbero manifestarmi che trovano in me tesori di cui difettano: dovrebbero farmi domande, chiedermi consigli. Sono fantasmagorie surreali, ma dure a morire come idre con sette teste che ricacciano appena mozzate. Dentro di me chiamo questo mio ipotetico surplus più geologico – sedimentario – che gnoseologico “esperienza della vita”, una locuzione che non ha più corso, e che probabilmente tra non molto verrà bandita dai dizionari.

I vecchi si vendicano del resto della detronizzazione che hanno subito, è normale. La contropartita del rispetto immeritato che li ammantava era la benevolenza: sorridevano, e il loro ghigno sdentato era un’accettazione indulgente (solo nelle periferie degli occhi baluginavano a tratti guizzi di ironia), un incoraggiamento a perseverare. Come tutti i despoti detentori di un potere prevaricante vedevano di buon occhio i loro sudditi, vale a dire i giovani: li scusavano se sbagliavano, li riprendevano con liquidi gorgheggiamenti di gola. Ora invece gli anziani, come dicevo travestiti ormai da adolescenti, si sogguardano alle spalle con occhi incattiviti. Sentono fiati ostili sul collo, e quindi sputano saliva, si aggrappano al potere politico o finanziario, diventano dure e sorde cozze. Se potessero sterminerebbero tutti i giovani, si infilerebbero come ostinati sommozzatori nelle loro pelli elastiche. Terrorizzati di perdere il cosiddetto senno.

(l’immagine: Mary Tillman Smith, “Intitled”)

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1 commento

  1. una volta in un contesto del lavoro ho visto un collega anziano entrare in modalità pseudo-superquark di stampo mafioso e raccontare a un giovane squaletto che i gechi che diventano grandi sono quelli che imparano in fretta che non è il caso di entrare nelle case,e che è molto meglio frequentare gli anfratti dei cortili e gli esterni in genere.I gitani comunque non ci giurerebbero

    http://samkijot.no-ip.org/MP3z/Buena.Vista.Social.Club.(1997)/13..Buena.Vista.Social.Club.-.Buena.Vista.Social.Club.mp3

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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