Più armi, per essere felici

di Gianni Biondillo

Seguo il telegiornale con gli occhi sbarrati. Mia figlia Sara, otto anni, mi chiede cosa sia successo. Le parlo, con tutto il tatto possibile, di una scuola in America, di bambini più piccoli di lei uccisi da un ragazzo di vent’anni. “Non ho capito” mi ripete, “Cos’è successo?” Ed è giusto che non capisca, perché questa strage non significa nulla, non ha senso, è un paesaggio assurdo che sovverte le leggi del quotidiano. È qualcosa che mina la ragionevolezza, che frustra la mia capacità di spiegarle il mondo, di renderglielo domestico, assennato, socievole.

Dovrei parlarle dell’ossessione tutta statunitense per la ricerca della felicità, vero e proprio diritto costituzionale. Costi quel che costi. E del suo naturale corollario, quello all’autodifesa, al diritto (il più inviolabile di quelli della carta costituzionale) a girare armato. Cercare la felicità restando vivi, difendendosi. Ma anche cercare la felicità a costo della vita degli altri. Già nelle ore successive alla strage la soluzione della lobby delle armi era chiara: la colpa è di una legislazione che proibisce agli insegnanti di essere armati. Ci vogliono più armi, non meno armi. Per difendersi. Per essere felici.

Psicologi d’accatto, che tempesteranno gli show televisivi nei mesi a venire – in America come qui da noi – già giustificano l’assurdo: il killer era autistico, malato, psicopatico. Certamente il rapporto con la madre era irrisolto. E poi, diciamocelo, che ci faceva la madre con quelle armi in casa? Cercare un senso a questa strage, con malcelate giustificazioni misogine che nauseano, è parte della cortina di fumo che nasconde l’evidenza: di ragazzi fragili, di psicopatici, di repressi o di chi diavolo volete voi, ne è pieno il mondo. Ma fingere di dimenticare che la psicologia di un uomo armato di un coltello è assai differente da quella di un uomo armato di un fucile mitragliatore è connivenza. Gli oggetti non sono innocenti, un’arma meno che mai. Se c’è una pistola, prima o poi sparerà. È stata creata per quello, non ha altre funzioni.

Quei bambini morti stanno sulla coscienza di una nazione che non vuole superare il suo mito fondativo, che non vuole riconoscere quanto sia necessario perdere qualche diritto individuale per difendere quello collettivo. Fa specie che queste stragi – esaltazioni della individualità – vengano perpetrate proprio in luoghi che celebrano la collettività: scuole, asili, centri commerciali, cinema. Queste vittime, questi inespressi postini, barbieri, operai, parrucchieri, premi nobel, sportivi, questi talenti che non conosceranno mai la felicità, sono un tributo all’egoismo e, peggio, la più cinica campagna pubblicitaria per l’acquisto di nuove armi. Per difendersi, ovviamente. Per essere felici, nel nome della paura.

Da noi questo non succederà mai, mi viene detto. Se non è ancora accaduto, però, è perché esiste un sistema sanitario nazionale che cerca di aiutare i ragazzi fragili, quello che molti vorrebbero smantellare. Se non è accaduto ancora è perché Cesare Beccaria ci ha spiegato l’insensatezza della pena di morte, quella che molti vorrebbero ripristinare. Se ancora non accade è perché resiste ancora una cultura della solidarietà che è sempre più compressa sotto i colpi di un individualismo egoista e becero. E su tutto, inutile girarci attorno, perché resiste una legislazione che difende prima di tutto la collettività dal singolo.

Ma, sia ben chiaro, i nostri figli sappiamo ucciderli lo stesso. Tagliando gli investimenti sulla manutenzione ordinaria delle nostre scuole elementari o costruendo licei e studentati universitari irrispettosi delle norme antisismiche. Poi, al primo terremoto, alla prima strage di innocenti, possiamo sempre prendercela col destino. Felici di non essere americani.

[pubblicato su L’Unità, ieri]

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19 Commenti

  1. Giustissimo! Il fatto è che ci sono troppe armi in giro…è una legge del teatro: se c’è un fucile in scena prima o poi deve sparare…Son rimasta colpita anche dal film “Il sospetto” in cui come nelle più retrograde tribù primordiali (ma chissà, forse nella preistoria non andava così) ho appreso che in Danimarca c’è un rito d’iniziazione: al ragazzo – notare la desinenza! – si regala un fucilone da caccia e lo si manda ad ammazzare enormi cervi…siamo circondati dalla violenza! E non venitemi più a parlare della civile Danimarca o della civile Norvegia o della civile America…

  2. Giusto. Gianni. Che disagio terribile, spiegare ai figli quello che succede, senza annientare le poche, piccole certezze quotidiane della loro vita.

  3. Abbraccio queste tue parole come fossero il tuo corpo, che se fossimo vicini, presenti di persona – come una persona collettiva – ti abbraccerei per dirti grazie.

  4. […] Non si può capire l’orrore (da Nazione Indiana) Il tema è uno di quelli che induce al silenzio più che alle parole, perché non si riescono a trovare parole per spiegare l’orrore ma nel magma della blogosfera che talvolta macina anche parole inutili ed offensive verso il dolore più indicibile, questo articolo mi è sembrato rispettoso e incline ad una riflessione che ognuno di noi può fare anche in silenzio, non necessariamente da condividere in pubblico. Io ho tentato di farla con me stessa, e non è stato poco doloroso. Come si racconta e si spiega ad un bambino l’orrore? Non so se gli Stati Uniti siano responsabili in quanto nazione e in quanto cultura delle armi ma so che anche io dentro di me come il bambino che chiede incredulo all’autore del post “Non ho capito …”. E soprattutto non credo che siamo al sicuro mai, ma piuttosto dobbiamo vigilare perché lo siano quanto più possibile i figli di tutti noi. Potete leggere il post da qui. […]

  5. Grazie per queste considerazioni che coincidono con le mie e che sempre più spesso non hanno orecchie che ascoltino.
    Soprattutto la necessità fondamentale di edificare, consolidare e salvaguardare sempre ed in ogni tempo storico la collettività, il bene comune di uomini e donne che vivano non nella felicità (che rade al suolo tutto ciò che ha intorno), bensì nella pace (che ha sempre spazio per tutti) la loro esistenza.

    mdp

  6. Nemmeno a me piacciono le armi, e come molti sarei felice si dessero meno licenze e porti d’armi possibili. Ma negli Stati Uniti e anche da noi forse non è solo quello il punto. Lo fa capire bene uno della controinformazione mainstream di là, Michael Moore, che nel famoso documentario sul massacro della Columbine parla proprio della contiguità armi e stragi. La tesi di fondo però contraddice queste premesse. in altri paesi, metti il Canada, ci sono ancora più armi che negli Usa, eppure i mortammazzati sono pochissimi.
    Moore (il documentario penso l’hanno visto tutti) dice fondamentalmente che il problema è nei media che instillano tutte le paure di questo mondo negli americani.
    Non conosco bene le dinamiche americane, o almeno non troppo direttamente, e non mi sento di seguire pedissequamente le idee del pur simpatico Moore, ma credo che il desiderio e la detenzione delle armi da fuoco siano uno degli anelli della grande industria della paura (che butta tentacoli ovunque, dalla xenofobia politico-sociale, alla legittimazione bellica, fino alle più varie forme di consumismo, anche editoriale e via così) ed è in quel mercato drogato che dovremmo metterci a rovistare per capire meglio anche stragi del genere. Se ci fossilizziamo sulla “natura intrinseca delle armi” non ne caviamo molto a mio modo di vedere giacché esse le armi sono l’effetto di qualcosa, e non la causa.
    Non dimentichiamo che, per ritornare in Italia, proprio un anno fa un militante di Casa Pound, a Firenze, fece una strage di movente razzista sparando sopra a due poveri ragazzi che facevano il mercato e uccidendoli… per poi sucidarsi.

  7. Dinamo, è accaduto esattamente un anno fa, io non lo dimentico.
    https://www.nazioneindiana.com/2011/12/14/vu-cumpra/

    Concordo, ed infatti scrivo “Per essere felici, nel nome della paura”.
    Però attenzione: è vero che in Canada ci sono molte armi, ma le leggi che regolano la possibilità di girare armato sono assai severe e restrittive. Le armi in questione sono per la maggior parte a colpo unico, fucili da caccia presenti in zone rurali (non in città!) per difendersi dagli orsi, e chiusi a chiave in luoghi appositi della casa.

  8. La domanda (sociologica) è: come avviene che, in una comunità, uno decida di fare una cosa del genere? Quali sono le condizioni che rendono più probabile il verificarsi di fatti del genere?

    • Le condizioni sono quelle che possiamo facilmente vedere attorno a noi: capitalismo, individualismo, egoismo, egocentrismo, mancanza del senso di comunità, (illusoria) onnipotenza, depotenziamento del ruolo dello Stato e, quindi, delle conseguenze alle sanzioni che lo Stato è imposto ad infliggere, depotenziamento del valori religiosi, meno Dio che ti osserva più libertà per Adamo ed Eva, anomia, demitizzazione della Società, eccetera. Su due piedi questi motivi mi vengono in mente.

  9. ciao gianni, io ho molti dubbi sul fatto che il corollario naturale alla ricerca della felicità sia l’autodifesa, il girare armati. c’entra sì l’individualismo sfrenato, ma soprattutto il mito fondativo con cui è nato quel paese, l’epica western della pistola veloce e del farsi giustizia da sé, ma non la collegherei o farei derivare dall’ossessione della felicità, che mi sembra una legittima aspirazione di tutti.

  10. L’individualismo è legittimo e necessario, se fa parte di una corolla sociale, di un luogo, una dimensione. Per questo posso abbracciare il “vaffa” nichilista e estremo alla Krauspenhaaar, senza per questo arroccarmi sulla punta più alta della montagna o tantomeno progettare stragi. Il singolo bersagliato dalla paura funzionale, questo è un fatto e fa parte della storia. Come uscirne, questo rientra nei doveri o nelle conseguenze possibili della cultura, del civismo e del destino. Chi progetta città o case lavora per la pace o per la morte a seconda di come ragiona, delle sue capacità o della sua onestà, solo per portare un esempio agganciabile al testo di Gianni. Può agevolare la salute e la socialità, lo scambio, o secludere entro mura malsane e destinate a lambire i suoi inquilini.
    Ma il centro del dilemma, ne sto meditando già per mio conto, era la ricerca della realtà, e prima ancora il senso di perdita del respiro, e la frustrazione per non sapere a chi comunicare questa realtà, o la sua ricerca, o la scelta di una semplice alternativa a essa, un simbolo nudo, tagliato nelle mura dimenticate di un magazzino o un ripostiglio, il totem del vero reale che nessuno riesce non solo a intravedere, ma lontanamente a concepire o distinguere come sete dello spirito, come senso dell’essere vivente, che respira, recita, muove passi da umano davvero vivente.
    In quella maniera insensata per chi sente il prossimo come tale, il killer americano ha trovato la sua brutta statua del reale, e ce la espone per la breve durata delle notizie mensili.

  11. “Da noi questo non succederà mai”. E’ una frase che ricorre nei tuoi scritti, con l’invito più o meno esplicito a fare attenzione ai nostri luoghi comuni che ci evitano la fatica del pensare (e dello scrivere).
    L’altro è abbastanza spaventoso. Se poi sono tanti… spariamoci su.
    Cazzate, per il momento, come fa la Lega. Graziaddio l’export va bene e non dobbiamo ancora puntare sul mercato interno.
    Altro che fine del mondo. Qui è il velo (di Maya) a preoccupare.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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